Vorrei studiare e diventare maestro


Stampa

di Eva Tea


 

Clicca per ingrandire l'immagine

Due professoresse con Felice Socciarelli
(il terzo da destra) fra alcuni scolari

 

  Un giorno del 1917, a Roma, Elisa Ricci, indimenticabile amica, mi venne incontro nell'anticamera dell'aerea casa di Piazza Venezia e mi disse: “Ho un caso per te; mi devi aiutare".
E mi raccontò, con la sua vivacità bambina, una storia, appresa il giorno avanti, nella quotidiana visita agli ospedali per l'assistenza ai soldati.
In una delle corsie a lei affidate, era venuto un malato diverso dagli altri. Era un contadino paralizzato al braccio e alla gamba in conseguenza di un trauma contratto nel servizio militare; e perciò stava con i combattenti in quell'ospedale di guerra. Ma se non era un soldato come gli altri, non era nemmeno un contadino come gli altri. Impotente a lavorare i campi, aveva comperato qualche libro, fatta qualche lettura fuori dell'ordinario, e istruiva i bambini e gli adulti del villaggio, non tanto per guadagnar la vita, quanto per passione d'insegnare. “Vorrei studiare e diventar maestro" aveva detto alla cortese visitatrice. Pregata da lei, andai a vederlo nel suo letto di dolore.
 

"Un contadino, un soldato paralizzato..."
  Non mi parlò delle sofferenze che gli procurava il nervo leso del braccio, per il quale stava in cura, ma subito del suo sogno: diventare maestro.
A mia volta ricorsi ad un'altra comune amica, la nipote dello statista Luzzatti, laureata in filosofia, che assunse volentieri il compito di fornire al maestro contadino la cultura sospirata.
Assistito sempre da Elisa Ricci, prese il diploma e venne mandato alle scuole dei pastori nell'Agro Romano. Era il momento eroico di questa istituzione, che ancora dura, ma con modi e mezzi normali.
Allora - dico quasi quarant'anni fa - i villaggi di pastori erano una specie di sopravvivenza omerica alle porte di Roma.

La maturazione del sogno
  Squadre di contadini, con donne e bimbi, sciamando da paesi soprappopolati, invadevano i latifondi del Lazio e vi si stabilivano come nelle antiche “primavere sacre", prendendo a coltivare la terra col diritto del primo occupante. Qualche volta i vicini più prossimi, gelosi dei propri confini, movevano contro i sopraggiunti ed erano zuffe ad arma bianca, con forconi e rastrelli, sino a che le cose tornavano come prima, meno per il proprietario terriero, che si trovava accresciuta la popolazione del suo feudo.
Naturalmente, il primo lavoro di questi contemporanei di Romolo e Remo era fare le strade.
Si ricercava l'accetta abbandonata in mezzo ai rovi dalla squadra che aveva invaso il sito una stagione prima e si riprendeva la dura bisogna di aprirsi una via in mezzo alla brughiera collinosa sino alla radura prescelta per farvi il villaggio.
  Veniva poi l'impresa di fabbricare le capanne, nel modo descritto da Giacomo Boni in Casa Romuli; e tutta la famiglia si assestava nei lettucci di legno o nel, talamo alto da terra come quello che Ulisse, descrive a Penelope. L'aula rotonda veniva ammobiliata con cassapanche, a complemento dei rustici armadi ricavati nel murò di tronchi intrecciati. E la vita rurale incominciava.
Bisognava dissodare la terra, purgarla, provvedersi di acqua per la vita e per l'irrigazione e tra tante cure due attività erano dimenticate, l'ordinamento amministrativo e l'istruzione obbligatoria. I figlioli venivano notificati nei centri più vicini, a Palestrina o a Zagarolo, ma dopo questa presa di contatto con il mondo civile crescevano come Eumeo fra i suoi armenti, senz'altra scuola che quella fornita. dalla saggezza dei più vecchi.
 

 

Clicca per ingrandire l'immagine

Una capanna di Mezzaselva

 

Clicca per ingrandire l'immagine

Il maestro Socciarelli tiene
lezione a Mezzaselva

In un villaggio di pastori, "sopravvivenza omerica alle porte di Roma"
In questo ambiente venne mandato il nuovo maestro che, contadino, ritornava a vivere fra contadini. Egli non era il primo pioniere di Mezzaselva. Avanti a lui aveva abitato la capanna scuola una giovane maestra svizzera, che teneva asilo, curava i malati e, in mancanza di sacerdoti, aiutava i moribondi a morire in pace. Anche il suo nome era pacifico: Irene. E di lei si raccontavano tante cose gentili, che al nuovo maestro venne desiderio di conoscerla e andò a cercarla nella sua nativa Chiasso.
In breve, Irene tornò a Mezzaselva, per dividere la capanna con il nuovo maestro, che portava nella persona i segni venerandi di una vita dura, non troppo diversa da quella dei suoi piccoli scolari e clienti. .
Quale fosse la loro vita in mezzo a quei pastori e zappa tori, ha raccontato Felice stesso nel libro Scuola e vita a Mezzaselva.
Una dopo l'altra, Linda e Cristina vennero a ruzzolare in mezzo alle capanne, con i figli di quei prischi latini, e mentre la famiglia dèl maestro cresceva, il villaggio si trasformava.
 


Il maestro missionario, il poeta della scuola

  Una sola volta Socciarelli pensò di lasciare volontariamente quella vita di sublime e sacrificata poesia: quando gli prese il desiderio di studiare il latino e frequentare l'Università, per approfondire la sua cultura letteraria. Anche questa volta intervenne Elisa. Ricci, non per dare aiuto al nuovo proposito, ma per frenarlo. Come il suo buon senso di donna affezionata come madre, ella comprese che Socciarelli a Mezzaselva era un caso unico, con occasioni di esperienza da nessun altro incontrabili, strumento di bene e anche vedetta di un mondo nuovo; antesignano di metodi didattici non appresi nei libri ma da una viva e straordinaria esperienza; e lo persuase a rimanere maestro. Da questo momento cominciò la fortuna di Socciarelli scrittore.
  Il libro di Mezzaselva è uno dei più sani e veri che siano stati scritti sulla scuola italiana; e fu seguito da molti altri fra i quali ricordiamo Ragazzi, che è quasi il testamento di una coscienza d'educatore vigilantissima.
Quando le bimbe crebbero e si dovette pensare alla scuola magistrale, la famiglia di Felice ed Irene scese a Roma, dove Felice ebbe riconoscimenti e cariche degne del suo merito. Ma egli rimase e rimarrà sempre il "maestro di Mezzaselva", o, meglio, il poeta di Mezzaselva, perché la sua missione di maestro fu anche missione di poeta; anzi, egli fu grande maestro appunto perché fu grande poeta.


 

TORNA SU

Foto e articolo tratti dalla rivista “Scuola Italiana Moderna”, Anno LXX, 5° fascicolo monografico, 20 marzo 1961