La Torre di Marta
Un restauro che suscita molte perplessità


 

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di Giuseppe Moscatelli

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  Una delle preoccupazioni più in voga tra sindaci e assessori alla cultura, senza distinzione di colore politico, è quella del restauro di antichi monumenti. Ciò è senz'altro encomiabile: purché non si trasformi in autentico accanimento terapeutico nei confronti di nobili architetture, che ben potrebbero affrontare i lustri a venire pur con le inevitabili rughe, i segni e i colori del tempo.
Talvolta è più dignitoso un rudere che mostra fieramente le sue ferite piuttosto che una ricostruzione senz'anima, seppur filologicamente corretta.
  Prendiamo il più bel colpo d'occhio sul lago di Bolsena: il borgo di Marta addossato ai piedi della trecentesca torre ottagonale, sullo sfondo cristallino del lago. Bene, da qualche settimana non è più lo stesso: non è più quello che ha accompagnato i nostri anni e le nostre vite. A noi appare irrimediabilmente deturpato.
La tozza e massiccia torre merlata che guarda a ponente verso la rocca e porta murato su un fianco, come un diadema appeso al collo, il candido stemma di Pierluigi Farnese è stata da poco restaurata ed ora ci offre il suo volto impietosamente liftato, come una vecchia signora rifatta.
Certo, non è la prima volta che l'uomo ci mette le mani: ma il suo aspetto attuale datava da quasi cinquecento anni! e per ciò stesso, quindi, appariva meritevole di ogni tutela. La torre, simbolo di Marta almeno quanto la Barabbata, è infatti antichissima e potrebbe ben risalire ad epoca anteriore al dodicesimo secolo: ne abbiamo conferma dalle fonti storiche e in particolare dal Bussi che, nella sua storia di Viterbo, racconta che i viterbesi se ne impadronirono nel 1197, dopo averla espugnata uccidendo in battaglia tal Janni Macaro, che ne era il signore.
  Dalle vicende belliche la torre uscì probabilmente distrutta o alquanto malconcia: abbiamo infatti notizia dall'Annibali di una sua ricostruzione avvenuta nel 1323, sotto papa Giovanni XXII. Non trascorse un decennio che la torre fu nuovamente riedificata, nell'ambito dei lavori di ristrutturazione e consolidamento difensivo della rocca: dal che si deduce che nel frattempo era rovinata o era stata demolita.
Quando in questa zona arrivarono i Farnese - nel quindicesimo secolo, regnante papa Eugenio IV - la torre fu quasi certamente restaurata. Ciò è testimoniato dal fatto che Pierluigi Farnese sr. (padre di Paolo III) vi appose il suo stemma: il liocorno sovrastante un cimiero piumato e uno scudo con gigli seminati. Invero lo stemma, praticamente identico a quelli che adornano il monumento funebre di Ranuccio il Vecchio sull'isola Bisentina, potrebbe essere stato apposto sulla torre dallo stesso Ranuccio anteriormente al 1450, anno della sua morte. Le due lettere che sono scolpite negli angoli superiori dell'arme, essendo di incerta lettura, non ci aiutano molto: potrebbe trattarsi di una R e di una A o più probabilmente di due P poste specularmente. Potrebbero quindi riferirsi sia al nome "Ranuccio" che a "Pierluigi".
 
 


La torre di Marta prima del restauro

 


La torre di Marta dopo il restauro

 


Lo stemma di Pierluigi Farnese sr.
su un lato della torre
 

 


La croce longobarda posta su un fianco della Torre

 

La coroncina in mattoncini costruita
sulla sommità della Torre
 

Un particolare della discutibile coroncina
 
  I Farnese comunque collocarono sulla torre l'orologio e le sue campane, che possiamo ancor oggi vedere.
La torre, a base quadrata e forma ottagonale, si erge dal punto più alto del borgo per un'altezza di ben quaranta metri: anche se ciò non appare all'osservatore, "ingannato" dalla sua forma massiccia e dal "taglio" tra la base quadrangolare e il fusto ottagonale. I Farnese ne trassero in qualche modo ispirazione, se è vero che l'ottagono caratterizzerà d'ora in poi la loro committenza: dalla Rocchina, la più suggestiva tra le sette cappelle dell'isola Bisentina, al tempietto di Montedoro a Montefiascone, al maestoso palazzo di Caprarola, tutti opera del genio di Antonio da Sangallo il Giovane, loro architetto di fiducia.
  La torre, com'è naturale, aveva in origine funzione difensiva: l'Antonelli ci riferisce in proposito di alcuni ambienti fortificati posti sulla sua sommità; ma venne utilizzata anche come prigione. E' tuttavia poco probabile che si tratti della famosa "malta" (orrida prigione per ecclesiastici) di cui parla Dante al verso 54 del IX canto del Paradiso (sì, che per simil non s'entrò in malta), come pure è stato da più parti ipotizzato. La "malta", ricercata dagli studiosi un po’ in tutto il bacino del lago di Bolsena, doveva verosimilmente trovarsi sull'isola Martana, a meno che non la si voglia identificare con la nota cavità o pozzo presente sull'isola Bisentina, la cui utilizzazione come prigione ecclesiastica peraltro è storicamente documentata.
  Alcuni metri più in alto rispetto allo stemma farnesiano, sullo stesso versante, troviamo una piccola targa lapidea erratica in cui è inserita una croce gemmata, di probabile origine longobarda.
La torre, ancor solida per quanto vetusta all'aspetto, ispirava un fascino straordinario: oggi, in seguito al restauro, così "linda e pinta" come si presenta, questo è andato in gran parte perduto. La sua superficie è stata ripulita, si direbbe scarnificata, da tutte le incrostazioni e dal sottile strato di licheni, regalo del tempo, che l'indoravano di un colore giallognolo, tenuissimo e caldo, quasi cangiante ai raggi del sole. Non solo: un fitto reticolo di malta cementizia - prima quasi impercettibile - incornicia, come soffocandoli, i tufi della torre, comprimendoli in una sorta di grata color grigiastro.
Ma, anche a prescindere da tutto ciò, quello che rende l'operazione oltremodo discutibile, conferendo alla torre un aspetto posticcio, è la costruzione al di sopra dei merli di una coroncina in mattoni rossi, formata da un circuito di piccoli archi, rifiniti con un top in peperino. Non vogliamo dubitare che cinque o seicento anni fa i merli sorreggessero qualcosa del genere: certo oggi il tutto appare alquanto artificioso.

 

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