Avvocati, vil razza dannata |
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di
Giuseppe Moscatelli |
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Honoré Daumier , Vedova con prole, 1865
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Honoré Daumier,
Scalone del Palazzo di Giustizia, 1865
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Diciamolo: gli avvocati non hanno mai avuto una buona fama. Proprio
no! Ancor meno dei giudici, che pure hanno più colpe dal punto
di vista storico. Ma c’è poco da recriminare: se la giustizia
nel corso dei secoli non ha mai goduto di buona salute e se,
ancor oggi, la sua immagine è quella che è, la colpa è tutta -
ma proprio tutta - dei suoi operatori: giudici e avvocati.
Con tutta la buona volontà, facendo anch’io parte della
categoria, non ho trovato una sola citazione letteraria o
iconografica, non dico celebrativa, ma almeno lusinghiera per
noi portatori sani di toga. E se tra i giudici, nella communis
opinio, almeno uno buono sembra che ci sia, anche se sta a
Berlino, per gli avvocati la situazione è proprio disperata: la
saggezza popolare non ne salva uno dall’Alpi alle piramidi,
senza star a scomodare il Mazzanarre e il Reno.
Certe definizioni lasciano il segno, e c’è poco da cincischiare.
Di un avvocato bravo (leggasi più furbo e ammanicato di altri,
nella vox populi) si usa dire “è un principe del foro”:
espressione più infantile che enfatica e intrinsecamente
ridicola; che si presta oltretutto a salaci doppi sensi. Come
dire, uno particolarmente abile a metterlo… bene in chiaro.
Di una mezzacalzetta poi non si dice “mezzacalzetta” ma “avvocaticchio”.
C’è tutta una filosofia lessicale dietro questa espressione
all’apparenza meramente dispregiativa. Mica si dice di un medico
“medichicchio” o di un ingegnere “ingegnericchio”. No, solo a
noi epigoni del nobile Cicerone è riservata - tra tutti i
cultori e gli officianti delle professioni liberali - la
categoria desinenziale dell’ “icchio”: con tutto il suo gravame
di disprezzo, derisione e ripulsa. Anche il nostro illustre
antenato ne ha fatto le spese: così oggi un “Cicerone” è uno che
parla, parla, parla… di cose che a nessuno interessano e che
nessuno sta a sentire.
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Un tempo nelle case della povera gente - proprio sull’uscio, con
evidente valore apotropaico - si poteva leggere su una
piastrella di maiolica, pezzo forte di fiere e mercatini, l'
edificante filastrocca: “Chi va dall’avvocato perde l’ultimo
ducato”. Monito forse naif, ma non meno dissuasivo, negli
intenti, della scritta “Attenti al cane” che taluni amano
appendere sul cancello di casa.
Per risalire alle radici di questo pervicace avverso sentimento
non è sufficiente richiamarsi a Daumier e ai suoi squallidi
ometti in toga. Certo, lui ha fatto la sua parte con i suoi
avvocaticchi presuntuosi e arroganti, beceri profittatori di
povere vedove con prole al seguito, e interessati solo a spillar
soldi a chi invece avrebbe bisogno di umana solidarietà. Anche
Manzoni (l’Alessandro nazionale) ci è andato giù duro
appioppandoci l’epiteto che come una nemesi incombe storicamente
sulle nostre teste e squassa il senso della nostra autostima:
“Azzecca-garbugli”. Pasquino non avrebbe potuto fare di meglio
(o di peggio, a seconda dei punti di vista).
Facciamo due conti. Manzoni scrive nella prima metà
dell’ottocento, ma ambienta la sua storia nei primi decenni del
seicento: fanno quattro secoli netti (lustro più, lustro meno)
di letteraria derisione di noi poveri arrampicatori scalzi del
diritto. Già quando Agnese descrive a Renzo il dott.
Azzecca-garbugli “una cima d’uomo” viene da ridere: “Quel
dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di
lampone sulla guancia”. Più buffo di così! La sua filosofia
professionale poi - per quanto di grande attualità - è di quelle
tali da screditare la categoria per altri quattro secoli:
“All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi
a imbrogliarle”; e ancora “A saper ben maneggiare le gride,
nessuno è reo, e nessuno è innocente”.
Ma quello che fa saltare il tappo è il vile acquattamento del
nostro archetipo di leguleo al solo sentir proferire il nome di
don Rodrigo: come don Abbondio, peggio di don Abbondio. E’
proprio vero: il coraggio uno se non ce l’ha, non se lo può
dare. Tant’è che scaccia via sbrigativamente il povero Renzo,
restituendo però i capponi (il che non era scontato). C’è da
meravigliarsi se Renzo (ovvero il popolo) rinvigorirà la sua
atavica sfiducia nei confronti della giustizia?
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Honorè Daumier, Dopo l’udienza, 1863 |
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Honorè Daumier "Avete perso il processo è vero...ma è stato
certamamente un piacere per voi sentirmi parlare", 1848 |
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Honorè Daumier, Il corpo del reato, 1866 |
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Honorè Daumier, Una causa criminale, 1865 |
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Gli avvocati, invero, non godono dell’esclusiva quanto alla
disistima popolare: devono vedersela con i politici.
Sconfortante, casomai, è la constatazione che gran parte dei
politici sono anche avvocati. Il nostro parlamento, ad esempio,
è infarcito di avvocati come un'insalata verde lo è di aceto… e
non è detto che sia sempre balsamico. C'è da credere che tutti i
nostri apprendisti legislatori siano ispirati da profonde
motivazioni ideali? dal desiderio di mettere la propria
esperienza e competenza al servizio della nazione? Suvvia. Il
popolo sarà pure bue, sa tirare l'aratro e anche la cinghia; ma
quando ci vuole "Sciur Padrun" - non lo dimenticare - "abbiam
delle belle buone lingue".
Il Belli, per esempio - senza starci molto a pensare - battezza
gli avvocati come "Li Mozzorecchi" e ci gratifica di espressioni
quali "se mozzicheno peggio de li cani" con ingiurie e accidenti
… "pe ppoi mettele in conto a li crienti". In un altro sonetto
ci chiama tout-court "Li Scortichini" (gli scorticatori, tanto
per mettere il dito nella piaga) ed esemplifica, alludendo al
gruppo scultoreo di Apollo e Marsia situato nell'androne del
tribunale: "Li vedete cuer boia e cuer paziente? - Lo sapete chi
ssò? Quello è un curiale - che scortica la pelle d'un criente".
Un'alternativa soft a tanta veemente e cruenta mancanza di
considerazione? In un altro sonetto l'avvocato, nella
considerazione popolare incorreggibile mentitore, se la passa
con un "bbestia bbuggiarona": per chi lo preferisce…
La situazione appare disperata: ma allora tutto è veramente
perduto per noi legulei cavillosi e pedanti? Pare proprio di no:
un aiuto ci viene dall'alto, molto in alto. Nel "Salve Regina",
la preghiera mariana più lirica e intensa, ad un certo punto si
recita: "Orsù dunque Avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi
tuoi misericordiosi"… Avete capito? Avvocata nostra! E poco
importa se l'originale latino "advocata" meglio di addice ad una
semplice invocazione d'aiuto.
La strada è spianata, le asperità rimosse, il riscatto vicino:
largo alle donne avvocato! |
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