I Guitti

Nascondevano il tempo in una sera infinita, a beffare il destino e a inventare la vita

(R. Vecchioni, I Commedianti)


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di Mauro Ballerini

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Come un’eco lontana arriva talvolta alle orecchie di coloro che frequentano i teatri e il mondo teatrale un’antica parola, “guitto”, di cui è divenuto ormai difficile stabilire il significato, l’origine e l’utilizzo.

Eppure basta un minimo di perspicacia per accorgersi che dietro questo termine sembra nascondersi un intero mondo teatrale, una vera e propria weltanschauung di cui oggi non resta più alcuna traccia. Contro ogni nostra aspettativa, non esiste bibliografia che tratti la storia e il senso di questa parola che è, senza dubbio, la più usata, fraintesa e abusata della storia del teatro italiano.

 

il significato del termine e la sintomatologia del male

 

Guitto è un termine quanto mai prolifico: dal sostantivo primitivo ne derivano molti altri, quali guitteria, guittume, guittesco, guittalemme… In tutti i casi – come ben evidenziano i suffissi – vi è un’evidente connotazione negativa e dispregiativa, volta ad indicare un “cattivo teatro” se non addirittura un “non-teatro”.

 Guitto è un termine che possiede tante sfaccettature diverse e che non può essere circoscritto solo e unicamente allo stile recitativo ma, più in generale, esprime un modo di pensare (e fare) il  teatro.

 Guitto può essere definito il trucco impreciso delle attrici, una matita che scorre tremolante sugli occhi, oppure un neo disegnato in modo così marcato da sembrare una macchia nera sul viso della bella protagonista. Un trucco frettoloso, realizzato senza cura né grazia, un cerone così vistoso da trasformare il volto in una maschera comica.

 Segni indelebili di guitteria possono esser considerate le parrucche spettinate e polverose, così simili a stoppa da non richiamare più neppure lontanamente la fluidità dei capelli che dovrebbero invece imitare. Guitti possono venir definiti gli abiti tarlati, strappati, rammendati alla meno peggio, con vistose e mal celate toppe. Ma anche tutti quegli abiti (ed erano la gran parte del guardaroba di una compagnia) inadatti alla corporatura dell’attore, troppo stretti o troppo larghi, con pantaloni eccessivamente corti o maniche esageratamente lunghe. Il sintomo però più inequivocabile della condizione del guitto era l’anacronismo: abiti accozzati tra loro così malamente che, in uno stesso personaggio, potevano essere ravvisabili tracce della moda francese del Settecento, ornamenti tipici della Londra vittoriana e copricapo in uso nell’Italia rinascimentale. Non era infrequente vedere regine abbigliate secondo la moda della borghesia ottocentesca, oppure antiche eroine del mito adornate secondo il gusto del XIX secolo.

 A seguire nella sintomatologia del male più oscuro del teatro italiano, l’arredamento sciatto, rimediato all’ultima ora, formato da pezzi così stridenti fra loro da risultare comici. Sui palcoscenici si potevano scorgere accozzaglie di ogni tipo, miscellanee di mobili e soprammobili che non avevano altro compito se non quello di “riempire la scena”. Secondo questa logica, poteva tranquillamente essere rappresentata una Medea che si muoveva tra mobili tipici della ruralità italiana, ma dai quali facevano poi capolino vasellame cinese, soprammobili barocchi o piccole statuine belle époque.

 

 

 

Compagnia Nistri Mila e Umberto Moriconi, "Miseria e nobiltà", 1960 ca. Collezione privata Mauro Ballerini

Compagnia Nistri Manlio, 1950 ca, "L'Otello". Collezione privata Mauro Ballerini

Ma più di ogni altra cosa, la parola guitto esprimeva uno stile di recitazione.

Immersi nella palude del guittume si rivelano tutti quegli attori che esibiscono una strascicata retorica declamatoria, un’enfasi ridondante e meccanica, molto accattivante per il popolino analfabeta, ma indigesta per chiunque possedesse un minimo gusto artistico. La voce del guitto è sempre sopra tono, sempre affamata di impennate baritonali che strappano l’applauso e fanno venir giù il loggione. Il “do di petto” del primo attore è utilizzato sistematicamente dalla prima all’ultima scena di ogni dramma, sia esso ambientato nelle terre remote di una tragedia greca oppure in un ben più ordinario salotto borghese. Il modo di recitare del guitto conosce in anticipo l’efficacia del “pistolotto” e si nutre di una mattatorialità sfrenata e parossistica.

Per accompagnare questa sua voce ciclopica, il guitto utilizza per lo più una gestualità tronfia, iper-espressiva, fatta di pose sceniche prestabilite da un Prontuario che – da secoli – aveva decodificato il movimento della paura e quello dello stupore, il gesto che invoca e quello che impreca. Ogni stato d’animo ha una sua corrispettiva  “posa”: dalla ritrosia femminile, all’accusa del tiranno; dal furore della gelosia, allo spaesamento dell’abbandono…

L’attore non deve far altro che colarsi docilmente dentro questi modelli e il successo sarà garantito.

Il guitto è colui che, pur dotato di una memoria ferrea, non conosce mai perfettamente la propria “parte” e aspetta fiducioso l’imbeccata del suggeritore che, sprofondato nella sua buca, è il più delle volte costretto ad urlargli le varie battute, creando un effetto di eco sgradevole e talvolta grottesco.

Il guitto non teme di “contaminare” tra loro ogni genere teatrale, di miscelare decine di opere. In uno stesso spettacolo, si poteva dunque assistere alla messa in scena di tre o quattro commedie insieme, senza che il pubblico se ne accorgesse minimamente. La prosa poetica di D’Annunzio poteva essere “impreziosita” dal linguaggio quotidiano di Fraccaroli e quest’ultimo con battute estrapolate da Niccodemi. Alfieri poteva talvolta prestare la voce a personaggi di Ibsen e battute dell’Otello potevano tranquillamente essere udite sulla bocca del Povero Fornaretto.

Per il nostro attuale modo di concepire il teatro, anche questo è un segno d’inequivocabile degenerazione guittesca, ma per i vecchi attori questa loro abilità era una peculiare nota di merito, un segno della loro inoppugnabile maestria di artisti consumati, così imbevuti di teatro da poter salire in scena senza conoscere né l’opera né la parte e, ciononostante, sicuri di saperla ricreare improvvisandola. Per il guitto otto-novecentesco, un po’ come era accaduto agli antichi progenitori della Commedia dell’Arte, il testo teatrale non è altro che un canovaccio a cui si possono aggiungere battute, togliere scene, atti e personaggi, a seconda delle proprie esigenze. Il guitto è il più agguerrito portavoce della priorità assoluta dell’attore su ogni altro aspetto della messa in scena.

 Ultimo tratto caratteristico del guitto è l’incapacità di comprendere il naturale e anagrafico avvicendarsi dei ruoli. E così, nella stragrande maggioranza dei casi, attori  (e attrici) ottuagenari si ostinavano ad interpretare ruoli di giovani amorosi, alle prese con inestinguibili sofferenze sentimentali e sempre pronti a sciogliersi in sdolcinate romanticherie.

L’effetto semicomico e parodistico era scontato.  Eppure, dal loro punto di vista, gli attori percepivano come del tutto naturale quest’inverosimiglianza e giudicavano rozzo e miope quel pubblico che li avesse invece contestati. Il teatro, del resto, cos’altro è se non finzione!

 Addentrandosi poi nella guittalemme più degenerata, si sarebbe potuto trovare la prima attrice che, abbigliata da Giulietta, strappava i biglietti all’entrata del teatro e, a inizio spettacolo, saliva sul palco con la valigetta degli incassi. Oppure ascoltare un dialogo – a sipario aperto e pubblico in sala – tra il primo attore e la prima attrice sugli argomenti più disparati, a seconda di quello che nel frattempo succedeva fuori dalla scena.

Nei lunghi manifesti (rigorosamente scritti a mano) si annunciavano ogni sera spettacoli “sensazionali” dei più grandi drammaturghi europei, compreso il sempiterno Sexpire (i nomi stranieri storpiati erano un altro tipico ingrediente della guitteria). Mai e poi mai sarebbe potuta mancare la Farsa finale, che il più delle volte era recitata dallo stesso “primo attore ed eccellente artista” che un attimo prima aveva semmai prestato corpo e voce ad Amleto. In guittalemme i primi attori si dovevano riciclare di continuo: trovarobe, macchinisti e talvolta persino suggeritori. Era infatti la miseria il terreno più fertile nel quale la guitteria affondava le radici e poteva germogliare vigorosa.

 

 

la guitteria:

un male endemico del teatro italiano

 

Un po’ come accadeva nel passato per i malati di peste o di epilessia (mali oscuri di cui era bene non parlare), anche la guitteria fu percepita da tutti gli attori italiani  come un qualcosa di così infamante e vergognoso da dover essere tenuto alla larga con ogni stratagemma.

Eppure io mi chiedo: sarebbe stato possibile per i vecchi attori italiani rimanere del tutto immuni dal contagio? Avrebbero potuto evitare di ammalarsi di guitteria? Era in loro potere tenersi alla larga da questo flagello?

La mia risposta è no. 

Se noi infatti guardiamo dall’interno il “teatro italiano all’antica”, penetrando nelle sue pieghe più nascoste, ci accorgiamo immediatamente che la guitteria è un male endemico ed ereditario della nostra arte drammatica, a cui nessuno avrebbe potuto sottrarsi.

Continuando la metafora che assimila la condizione del guitto a una malattia, potremmo affermare che tutto il teatro italiano è stato per secoli “portatore sano” di guitteria. Nel migliore dei casi il male è rimasto latente, con sporadiche e flebili manifestazioni che prontamente venivano curate o nascoste. Ma niente più che palliativi. La cancrena, pur agendo subdola e non vista, agiva e infiacchiva ogni organismo, compresi quelli più sani e robusti. E così, persino artisti sommi come Salvini, Rossi e la Ristori, oppure come la Duse, Zacconi e Novelli, hanno mostrato lievi segni di guitteria, piccole  tracce di questo male insidioso e incurabile.

 Ma cos’è che ha reso – per secoli – il nostro teatro un “portatore sano” di guitteria?

 Per poter rispondere a tale quesito, credo sia indispensabile ripensare l’intera struttura del teatro italiano tradizionale, con tutti i suoi tratti più peculiari: dalle compagnie di giro (cfr M. Ballerini, “Il teatro: inarrestabile traversata”, articolo pubblicato su questa stessa rivista) alla tradizione dei figli d’arte (cfr M. Ballerini, “La lunga epopea dei Figli d’Arte”, articolo pubblicato sulla rivista teatrale www.inscenaonline.com); dal sistema dei ruoli (cfr M. Ballerini, “Il sistema dei ruoli nel teatro ottocentesco”, articolo pubblicato sulla rivista teatrale www.inscenaonline.com) alla supremazia assoluta dei primi attori; senza ovviamente dimenticare il “filo rosso” che conduce ai più antichi progenitori vissuti all’epoca della Commedia dell’Arte che, proprio come i progenitori biblici, hanno indelebilmente segnato tutta la storia a venire.

Ma andiamo con ordine e ripensiamo, una per una, tutte le caratteristiche tipiche del guitto e cerchiamo di inserirle in uno prospettiva più amplia e complessa.

 Abbiamo parlato in apertura di abiti, trucco e arredamento scenico inadeguati ed anacronistici. Per il nostro attuale modo di fare teatro, sono ovviamente pecche imperdonabili. Oggi, quando una compagnia si accinge a rappresentare per mesi una stessa e unica commedia, il direttore di scena ha il sacrosanto dovere di curare nel minimo dettaglio ogni particolare del trucco, del vestiario e del mobilio. Oggi è così ed è scontato. Ma quanto diversa era la condizione dei vecchi attori!?

Tanto per cominciare, loro, ogni sera, avevano in cartellone un’opera nuova, con un repertorio che arrivava ad un centinaio di drammi e commedie. E per ognuna di queste rappresentazioni sarebbe servito un abito adeguato, consono ai tempi e al ruolo, intonato alle condizioni del protagonista… “Sarebbe servito”: qui il condizionale è d’obbligo. Perché nella realtà, poi, gli attori, il vestiario dovevano acquistarlo a proprie spese, con i loro minimi mezzi economici e, una volta che se lo fossero procurati, era loro interesse farlo durare nei decenni, al di là dell’usura, degli strappi e dell’inevitabile logorio.

 

 

  Compagnia Marchesini, 1925, "Il beffardo" di Nino Berrini. collezione privata Mauro Ballerini

 

 

  
 

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