I Guitti

Nascondevano il tempo in una sera infinita, a beffare il destino e a inventare la vita

(R. Vecchioni, I Commedianti)


       

Seconda parte - vai alla prima parte

Stampa

di Mauro Ballerini

Clicca sull'immagine per corrispondere con l'autore


 

Si pensi che le giovani attrici italiane arrivavano talvolta persino a prostituirsi per permettersi un ricco guardaroba. Ma è ovvio che, pur ricco che fosse, non poteva certo essere mutevole quanto i personaggi inscenati. Per cui un ricco abito ricamato doveva vestire tanto Maria Stuarda quanto Margherita Gautier, tanto la principessa Fedora quanto Desdemona, al di là dell’epoca e del contesto storico.

E poi non bisogna dimenticare che tutta questa ingombrante massa di abiti e suppellettili avrebbe dovuto essere trasportata in lungo e largo in tutta Italia, attraverso scomode stazioni ferroviarie, se non sopra, ancora più disagevoli, carrozzoni. Motivi economici e pratici, dunque, non avrebbero mai permesso un guardaroba di centinai di abiti. Ma c’è anche dell’altro: dovendo salire in scena ogni sera, poteva capitare che un attore si ammalasse e dovesse essere sostituito, oppure che abbandonasse senza preavviso la compagnia e dovesse essere rimpiazzato sul momento da un nuovo arrivato. È del tutto evidente allora che gli abiti andassero “riarrangiati”  sulla corporatura del nuovo interprete e non sempre con risultati convincenti.

Quanto si è detto sino ad ora sugli abiti, può essere ripetuto sul mobilio: è del tutto evidente che compagnie “girovaghe” non potessero trasportare con sé decine di mobili e soprammobili, data la loro pesantezza, l’inevitabile ingombro, nonché l’oneroso dispendio economico. Ecco che le compagnie avevano l’abitudine di “trovar la roba” (cioè l’arredamento scenico) lì dove si fossero trovate di volta in volta a recitare. Ne consegue che la parola d’ordine a cui obbedire fosse “adattamento”: adattamento a ciò che poteva essere rimediato dal trovarobe, senza troppe pretese di coerenza storica o di adeguatezza contestuale.

Dopo questo excursus sui caratteri più concreti della vita teatrale, arriviamo a parlare del suo aspetto più intangibile e cioè la recitazione. Abbiamo già detto quali caratteristiche la rendano, per definizione, guitta

Ma io mi chiedo: poteva esserci, nel teatro tradizionale, un attore del tutto immune da quello stile recitativo? Si poteva rinunciare al suggeritore, alla “contaminatio”, al sistema dei ruoli e allo schematismo recitativo? Io credo di no e la ragione va di nuovo cercata nel “sistema teatro” tradizionale, analizzato nel suo complesso.

Ogni sera il vecchio attore italiano doveva esser pronto ad inscenare uno spettacolo nuovo, spesso con un personaggio diverso da quello della sera precedente. Di anno in anno, poi, tutti quanti erano chiamati a migrare da una compagnia all’altra, nella quale era loro richiesto di mutare repertorio e ruolo. Ecco allora perché fosse inevitabile l’uso massiccio del suggeritore quale naturale rimedio all’altrettanto inevitabile impossibilità dell’interprete di conoscere a perfezione la sua parte. Per noi oggi è facile pensare alla soppressione di questa figura professionale, ma per i vecchi attori avrebbe comportato un terremoto senza precedenti.

Allo stesso modo sarebbe stato del tutto assurdo chiedere ai vecchi attori un sacrosanto rispetto per il testo inscenato: tale rispetto è scontato lì dove si rappresenti per mesi una stessa e medesima opera, ma quando ogni sera si è chiamati a rappresentarne una nuova, è del tutto naturale che il testo divenga niente più che una “traccia”, un “faro” che indica tutt’al più una traiettoria, non certo un percorso definito. Per i vecchi attori, lo ripeto, il saper mescolare più opere insieme, ricreando di continuo un “nuovo testo”, era una nota di merito e il segno indiscutibile della loro abilità demiurgica.

Ma se per un verso l’attore godeva di questa assoluta libertà di fronte al testo scritto, per l’altro aveva anche bisogno di binari sicuri su cui muoversi, dato il continuo turbinio di pubblico, piazze e repertorio. I binari sicuri, su cui tutti gli attori del passato si sono mossi, sono stati per l’appunto i “ruoli fissi” e una recitazione “ripetitiva”.

 

 

 

COMPAGNIA MANLIO NISTRI. MANLIO NSTRI E PIA CRESSERI IN UNA SCENA DE "IL
CARDINALE", 1955 ca. (collezione privata Mauro Ballerini)

 

COMPAGNIA DI MANLIO NISTRI. MILA NISTRI IN UNA SCENA DE "IL FORNARETTO DI
VENEZIA". 1955 ca. (collezione privata Mauro Ballerini)
 

Quelle che per noi oggi sono le parole d’ordine d’ogni attore (studio del personaggio, lettura personale del suo carattere, analisi della sua vita psicologica… al fine di renderlo più sfumato e complesso) sarebbero risultate parole vuote e risibili alle orecchie dei vecchi comici italiani per i quali la lettura, lo studio, la memorizzazione e la messa in scena di un’opera nuova potevano durare al massimo due settimane. Con questi tempi così ristretti (e tenendo sempre presente che decine e decine erano i personaggi a cui dare voce e corpo da una sera all’altra), sarebbe stata del tutto inconcepibile l’applicazione di un metodo Stanislavskij. Molto più consona si rivelava invece una tecnica attoriale basata su schemi fissi, nella quale ogni attore rivestiva un preciso ruolo e ogni ruolo comportava una determinata gestualità e una specifica mimica facciale. La logica sottesa a tali schematismi è quella dell’economizzazione del tempo e delle energie, cose essenziali per chi, nel fare teatro, trovava, prima ancora che un’espressione artistica, un mezzo di sostentamento e sopravvivenza giornaliero.

E per concludere non si può dimenticare che, nell’ideologia del teatro italiano all’antica, l’unico ingrediente indispensabile è l’attore e la sua maestria. Tutto ciò che lo circonda (abiti, scenografie, testi…) è solo accessorio, elemento aggiunto, ciarpame da usare a piacere e modificare ogni qualvolta crei disturbo alle esigenze dell’interprete-sovrano.

Questa concezione del teatro affondava le proprie radici in quegli esordi cinquecenteschi denominati “Commedia dell’Arte”. La Commedia dell’Arte è un prodotto tipicamente e esclusivamente italiano e la sua caratteristica distintiva è proprio quella di considerare l’attore “Papa e Re” della scena. Per i Comici dell’Arte non esisteva testo, né edificio teatrale, né guardaroba… esisteva solo un pubblico pagante di fronte al quale il comico doveva offrire il meglio di se stesso per divertirlo, commuoverlo e coinvolgerlo.

Nel teatro ottocentesco, dove tutto apparentemente sembrerebbe trasformato, l’impronta dei progenitori cinquecenteschi è invece fortissima e duratura: pur esistendo ora edifici teatrali, drammaturghi, opere a stampa, trame, battute, tournè e quant’altro, l’attore continua a considerare se stesso l’unico e insostituibile motore dell’intero sistema teatrale. E questo già lo pone, suo malgrado, in “odor di guitteria”. 

guitto:

un termine che connota la diversità

 

Ma come veniva usato tra i comici il termine guitto? Contro quali categorie veniva scagliato? E cosa suscitava in chi ne era vittima?

È evidente, da quanto detto, che l’esser giudicati guitti era un’accusa pesante e vergognosa, un marchio indelebile a cui nessuno si sottoponeva di buon grado. Ogni attore, per tutta la sua carriera, cercava con ogni mezzo di starne lontano come fosse appunto una colpa infamante.

Eppure, a ben vedere, nessun attore italiano è riuscito a sfuggire tale cattiva fama.

 

In ambito teatrale, infatti, il termine guitto era divenuto una di quelle parole indispensabili per demarcare l’”estraneità”, l’”alterità”, il “tu” che non va mai confuso con l’”io”. Con il termine guitto si traccia come un fossato al di là del quale si colloca  la non-arte, l’anti-mondo di quegli odiosi ciarlatani che infangano e insozzano il buon nome dell’arte drammatica. O forse vi si collocano tutti tranne il “noi”.

Altro non è, insomma, che una strategia identitaria, un modo per dire “io sono”. E come ben sanno gli antropologi, ogni identità forte, per costituirsi, ha bisogno di individuare un “altro da sé” che abbia la funzione di specchio rovesciato.

È per questo che l’accusa di guitto è la più diffusa tra i commedianti: più o meno ogni attore considera gli “altri” dei guitti. I “figli d’arte” disprezzano i nuovi arrivati e, senza attenuanti, li pongono nel fetido ghetto della guittalemme, così come di contro le nuove generazioni, uscite fresche e superbe dalle più moderne scuole di recitazione, non temono di deridere i giurassici “figli d’arte” come inguaribili malati di guitteria. Le compagnie primarie bollano come guitte quelle secondarie e quest’ultime attribuiscono l’infamia della guitteria alle compagnie di terz’ordine che, a loro volta, accusano le raffazzonate formazioni di provincia di appartenere alla dinastia cadetta dei “carmelitani scalzi” o degli “scavalcamontagne” (tutte variazioni peggiorative di quel primigenio termine guitto).

Questo snobismo discriminatorio è uno degli indici più chiari di quanto fosse forte l’identità dei comici italiani. Ciascuno di loro si considerava membro di un gruppo chiuso, una specie di “popolo eletto” al di là del quale stanno le “gentes”, i guitti appunto, coloro che la Musa drammatica non ha prescelto come suoi cantori. Ciascun artista poi, secondo uno schema che va facendosi sempre più ego-centrico, percepiva se stesso e la propria famiglia (o compagnia) come il fulcro dell’arte: al di fuori da questo ristrettissimo nucleo stanno gli “altri”, i “diversi”, gli “inferiori”… ancora e sempre i guitti. Ogni attore si assolve dall’accusa di guitteria, per rigettarla con sarcasmo su tutti i propri compagni d’arte. L’”io” è sempre sano; il “tu” è sempre malato.

 

i guitti nel novecento

 

Ma la cosa davvero più interessante è che, nel Novecento, il termine guitto subisce una strana evoluzione.

Nel paragrafo precedente abbiamo parlato di “strategia identitaria”: come tristemente ci insegna la storia, l’identità viene dettata di volta in volta dal gruppo dominante che, per un verso, si autodesigna come “identità positiva” e, per l’altro, individua fuori da sé una “alterità negativa” che da quel momento in poi diviene minoritaria, perdente e vittima di discriminazione.

Per secoli, nel teatro italiano, l’identità dominante e positiva era stata quella dei “figli d’arte” che, sistematicamente, avevano negativizzato i “non-figli d’arte”, impedendo loro l’ingresso nel mondo teatrale o confinandoli in ruoli minori.

Nel Novecento avviene però la “rivoluzione copernicana” del sistema teatrale italiano: nel giro di pochi anni, il gruppo egemone cambia fisionomia e alla ribalta salgono attori di estrazione borghese, nati in contesti estranei all’arte, con un regolare percorso di studi scolastici alle spalle e, solo in età adulta, istruiti nell’arte drammatica, all’interno di apposite scuole di dizione e recitazione.

 

    COMPAGNIA OBERDAN NISTRI. "LA PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESU' CRISTO". 1955
ca. (COLLEZIONE PRIVATA MAURO BALLERINI)

 

 

 

COMPAGNIA MANLIO NISTRI. "LA PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESU' CRISTO", 1955
ca. (collezione privata Mauro Ballerini)
 

I nuovi signori della scena, considerati per secoli intollerabili parvenu, immediatamente ridisegnarono i lineamenti della “alterità negativa” e la individuano proprio nei loro antichi antagonisti, i figli d’arte appunto, ridotti di colpo a una condizione subalterna.

Se si è compreso il meccanismo identitario che vi soggiace, non dovrebbe stupirci se nel Novecento i guitti per antonomasia divennero tutti i membri di quell’antica élite che, nata e cresciuta sulle tavole del palcoscenico, poteva vantare secoli di attività teatrale. Intere dinastie d’artisti con un albero genealogico grande due secoli (i Nistri, i Carani, i Croce, i Temporini, i D’Antoni, i Marchesini, i Verdirosi, i Felletti, i Carrara, i Ruta, i Palmi…) si trovarono di colpo confinati e reclusi dentro le mura della miserabile guittalemme.

Tale fenomeno assomiglia molto alla caduta degli Dei pagani: quelle che per secoli erano state le grandi e venerate divinità greco-romane, divennero in un breve giro di tempo gli “dei falsi e bugiardi”, emblemi di una religiosità degenerata e anacronistica.

Ma la cosa più stupefacente è che, con il passare del tempo, i figli d’arte stessi presero ad autodefinirsi guitti con un misto di orgoglio e di disperazione. Per uno strano gioco delle identità, quel termine, che per un verso li ghettizzava, per l’altro ricreava in loro un senso di appartenenza e li ridefiniva come identità a sé stante, riconoscibile e inconfondibile. Meglio essere guitti (figli d’arte) che gente venuta su dal nulla e che nulla ha da dare al teatro. Era in fondo una nuova strategia per poter continuare a dire “noi siamo” contro la massa di chi “non è” o “è altro”.

 

I guitti-figli d’arte hanno dovuto però aspettare decenni prima di essere riabilitati nelle loro indubbie qualità artistiche: sarà il genio di Carmelo Bene che, con un’incondizionata ammirazione, ne tratteggerà l’ultimo grande ritratto nelle pagine del suo libro “Sono apparso alla Madonna”.

L’artista forse più innovativo e rivoluzionario del teatro italiano contemporaneo, rintraccia nelle manicomiali messe in scena dei guitti attivi a Roma, in Borgo Santo Spirito, nella Compagnia Palmi D’Origlia, i germi più fecondi del teatro d’avanguardia (cfr Carmelo Bene, “Sono apparso alla Madonna, Tascabili Bompiani, pag. 26-33; oppure Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, “Vita di Carmelo Bene, Tascabili Bompiani, pag. 126).

Per Carmelo Bene in quei rottami del passato si annida il grande futuro del teatro, un teatro che si nutre del magnetismo dell’attore, che vive l’improvvisazione come l’unico testo possibile e infrange di continuo la barriera che divide pubblico e interpreti, in un mirabolante viavai di persone e personaggi dei quali è divenuto impossibile dire chi sia chi e cosa ci faccia su quel palcoscenico.

 

“Era una costellazione sublime di amnesie, di vuoti di scena, di identità smarrite e scambiate come patacche in un mercato dell’arteriosclerosi.” (cfr Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, “Vita di Carmelo Bene, Tascabili Bompiani, pag. 126)

 

E di fronte a tutto questo, afferma estasiato:

 

“Un teatro di questa grandezza, anche se involontaria, io non l’ho più veduto. Il resto è bieca professionalità d’impiegati puntuali alla loro battuta.” (C. Bene, “Sono apparso alla Madonna”, Tascabili Bompiani, pag. 33)

 

E, per spiegare meglio cosa ci fosse di tanto eccezionale e rivoluzionario in quelle rappresentazioni, conclude col dire che in esse si celebrava un interminabile “addio”:

 

“Addio al teatro, addio alla menzogna, addio a se stesso, addio a tutti, addio agli attori-interpreti, e addio alle identità, ma addio per sempre.” (C. Bene, “Sono apparso alla Madonna”, Tascabili Bompiani, pag. 33)

 

Tra i vetusti guitti stava insomma nascendo il teatro del futuro.

 

  
 

TORNA SU