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SANTA MARTA, COLOMBIA Uno straordinario affresco antropologico di un’umanità povera e sofferente ma, in fondo, felice |
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Foto e testi di Steven Busignani |
Mentre il caldo soffocante stringeva la città in una cupola
spessa e grigia, il piccolo parco del centro storico pareva essere l’unico luogo
dove apparentemente si sopportava l’afa del giorno.
Manuel vendeva semi di mais ai turisti che per scattare foto
curiose gettavano sparpagliati ai numerosi piccioni del parco. Mi
raccontò di come i piccioni erano usati un tempo per raggiungere la prigione
della città trasportando al di là dell’alto muro pezzi di telefoni cellulare,
così i detenuti assemblandoli con pazienza potevano comunicare “liberamente” con
il mondo di fuori.
“Sono
molto intelligenti loro”, Carlo Alberto un altro abitudinario di quelle panchine era amareggiato dalla vita e vendeva ceramiche raffiguranti donne negre venditrici di frutta, le famose “palanquere”, si lamentava sempre del caldo rimpiangendo i giorni felici nella sua città natale prima dell’esilio afoso nella costa. Nonostante il suo carattere brusco e solitario eravamo diventati amici grazie alla passione in comune per l’arte, la porcellana fina ed il caffé di Armando che con il suo carretto ricavato da un vecchio passeggino aspettava paziente i clienti per offrire la calda bevanda. Armando era già anziano ma cercava di convincersi continuamente di poter raggiungere la famiglia lontana; il caffé, che teneva in grossi termos azzurri, gli dava solo i soldi per sopravvivere, sperava che il tempo gli sarebbe bastato per realizzare il suo sogno. Lavorava giorno e notte senza sosta. I suoi occhi nel viso rugoso emanavano tanta dolcezza e solitudine ed era mia abitudine fare due chiacchiere con lui mentre calmo sorseggiavo il suo delizioso “tinto” (caffé negro). Parlavamo di geografia dei paesi dell’America latina.
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Quando a mezzogiorno arrivava Jimy a predicare nella pausa pranzo
il vangelo di salvezza del signore Gesù giungeva contemporaneamente assieme a
lui Rosa Velasquez che dopo la morte del padre per un motivo sconosciuto aveva
deciso di farsi chiamare con il suo nome letto al contrario, così era diventata
Asora. Il padre di Rosa o meglio di Asora, Louis Martin Velasquez, era stato un
famoso musicista jazz ed aveva dato ai figli i nomi delle note musicali e solo
lei degli otto fratelli portava il nome di un fiore.
Asora in gioventù era stata
una delle più belle ballerine di cabaret della costa e le sue lunghe gambe
avevano accattivato molti cuori di tanti cittadini e stranieri giunti al Caribe.
Una volta diventata anziana e vedova si era donata completamente a Cristo,
vivendo degli aiuti della gente e dei venditori di strada: le davano volentieri
tutti qualcosa. Diceva che era di Cristo e non si preoccupava per le cose della
vita materiale, persino della sua bocca senza denti aveva detto quando qualcuno
si era offerto di regalarle una dentatura posticcia: “Se e’ volontà di Dio me li
farà ricrescere lui i denti! La predica di Jimy durava una mezz’ora e i
venditori ed i poveri della strada si raggruppavano vicino per ascoltare quelle
parole di speranza, solo Manuel rimaneva seduto con i suoi piccioni, a ripartire
lentamente chicchi di mais: pareva che niente al mondo potesse distrarlo da quel
suo importante compito.
La città della costa portava il nome di una donna, di una donna calda e dolce ma anche traditrice e volubile, una donna bellissima come le donne che leggere e sicure camminavano come modelle per le strade del centro. Le piogge sarebbero giunte presto e duravano mesi aumentando il caldo e l’umidità già insopportabile. Asora sapeva a memoria la storia della città e delle sue antiche muraglie, dei fortini costruiti dagli schiavi e i nomi delle statue raffiguranti gli eroi che nei secoli avevano fatto la storia di quei posti. Quando parlava delle battaglie, delle ferite e dei martiri impiccati durante la rivoluzione pareva che a soccorrerli fosse stata lei.
Il pavimento del quartiere antico durante le piogge non riusciva a smaltire l’acqua e le strade si trasformavano in una specie di palude rendendo difficoltoso camminare senza inzupparsi completamente i piedi e le scarpe. Asora percorreva chilometri avanti e indietro per quelle strade: nonostante il medico la esortasse al riposo camminava instancabile portandosi appresso una grande borsa che si faceva sempre più pesante durante il trascorrere del giorno. La gente dei quartieri la chiamava Asora o Rosa dei miracoli. Nella vecchia città non c’è venditore che non la conosca. Spesso la si vede ferma davanti ad una bancarella a pregare per il buon successo della vendita a cambio di qualche offerta. Alla fine della giornata la borsa e’ stracolma di frutta, pane, viveri e monete. Asora non tiene per sé dalla borsa quasi niente, divide il contenuto con la sorella vedova ed i più bisognosi dei quartieri poveri. Quando alza la mano e chiude gli occhi per rendere grazie e pregare al Signore viene rapita da un’estasi mistica e spesso le persone rimangono contagiate con lo sguardo in alto per parecchio tempo dopo aver terminato Rosa quell’invocazione. Da anni non dormiva in un letto, da quanto era sola al mondo usava solo una sedia per riposare.
Quel giorno caldo e afoso ricevetti un messaggio da Anna dal villaggio montano, aspettava un altro figlio da un uomo che come al solito se ne era andato, e il risultato di qualche ora di passione lasciava di nuovo nel suo ventre una vita che cresceva giorno dopo giorno. Mi disse che non riusciva ad amare quella vita, era disperata.. Già con le due bambine non riusciva a tirare avanti, così cercò di abortire ingerendo del veleno. Stava male, aveva bisogno di aiuto, stava perdendo sangue ed era debole. Mi chiedevo che sarebbe stato di quella creatura senza colpa che già prima di nascere stava soffrendo. Andai a passeggiare sulla vicina spiaggia e vedendo l’acqua schiumare a riva, come nel mito, sentivo nascere la bellezza in quella bianca spuma di mare che contrastando con il blu dell’oceano pareva rappresentare la purezza.Anna al terzo figlio sapeva istintivamente che era un maschio. Nonostante il tentato aborto la vita aveva deciso di salvare quella creatura, era al settimo mese e tuttavia non riusciva ad amare quell’essere che sentiva nella pancia crescergli dentro. Lo percepiva come un altro incidente si sentiva stupida ed incapace. Io sentivo che quella poteva essere una benedizione, un insegnamento. Amavo le sue figlie avrei amato anche quel nuovo figlio. Era una questione di coscienza, l’amore e’ disinteressato, forse ci avrebbe insegnato quello di cui avevamo più bisogno, saper amare il prossimo, anche se diverso. anche se estraneo.
Oggi Anna ha partorito un bel maschietto e’ felice, dice di amarlo...
Le cose cambiano e la città sul mare si stava preparando per un altro meraviglioso tramonto