Il carro di Tespi

Il teatro che va alla ricerca del proprio pubblico (prima parte)


seconda parte

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di Mauro Ballerini

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Chiunque sfogli un manuale di storia del teatro italiano, arrivato ai capitoli dedicati al Novecento (e in particolar modo a partire dagli anni ‘20 in avanti), si troverà di fronte a paragrafi e paragrafi dedicati alle grandi regie, ai più innovativi autori e, contrariamente alle sue attese, leggerà lunghe liste di nomi stranieri e di personaggi d’oltralpe che sembrano aver contraddistinto il secolo XX.

 Ma di nomi di attori neppure l’ombra: relegati in appendice o ridotti ad una evidente marginalità, troverà citato quell’esiguo numero dei soliti noti, conosciuti anche dai non addetti ai lavori, dei quali tutto è stato detto e mostrato, e per la più parte passati alla storia perché, dopo essersi prestati al cinema, lo hanno poi scelto come loro fissa dimora.

 Per quei tanti coraggiosi, invece, rimasti fedeli alle tavole del palcoscenico senza apostasie, la falce della dimenticanza ha lavorato così assiduamente e senza scampo che gli anni ’30 ‘40 e ‘50 del Novecento, stando ai manuali in circolazione, sembrano aver prodotto il più assurdo dei paradossi: un teatro privo di attori. Dopo la scomparsa della “santissima trinità” del teatro di prosa italiano, Duse-Zacconi-Novelli (Novelli morirà nel 1919, la Duse nel 1924, Zacconi nel 1948, novantunenne e fuori gioco ormai da decenni), la nostra scena di prosa sembra restare deserta, senza più grandi attoriattori grandi

Per tornare a sentir parlare di artisti del calibro di Giorgio Albertazzi, Vittorio Gasmann, Carmelo Bene, Salvo Randone o Rossella Falk, si dovrà attendere gli anni Sessanta e, guarda caso, l’invasività televisiva: da ora in avanti non sarà più il pubblico ad entrare in teatro, ma sarà il teatro ad entrare nelle case, imponendosi nella quotidianità di ciascun italiano. Nonostante però questo evidente buco di trent’anni, che i manuali non sembrano volere – e saper – colmare (se per colpevole rifiuto o incolpevole ignoranza non saprei dire), gli anni a cavallo tra le due guerre, così come quelli del secondo dopoguerra, hanno visto agire e operare centinaia e centinaia di attori, peraltro con antichi e illustri cognomi, dei quali si è persa ormai quasi completamente la memoria storica, la dimensione esistenziale oltre che quella artistica. Una perdita che ha l’aspetto di una triste amnesia collettiva.

 Ma si può uscire da questo abissale vuoto di memoria? Si può recuperare ciò che sembra irrimediabilmente perduto? Per tentare di capire da chi fosse composto questo esercito di artisti, questa massa di bravi attori dannata all’oblio, bisogna uscire dalle grandi formazioni o dai grandi centri urbani, e scendere in basso, andare a rovistare dentro le province, nei piccoli teatri, oppure addirittura tentare l’impresa più ardua: quella di inseguirli nei fortuiti percorsi, mai tracciati da nessuno storico, dei loro teatri viaggianti, i cosiddetti Carri di Tespi. Ma cosa sono stati i Carri di Tespi? A quali esigenze hanno risposto? Quale era l’identità degli attori che recitavano su quei palcoscenici smontabili? Che repertorio prediligevano? E come erano percepiti dal pubblico e come dai compagni d’arte?

Queste sono solo alcune delle domande a cui cercherò di rispondere in questo articolo, con la speranza di colmare, almeno in parte, quella voragine che, in coloro che amano la storia degli attori,  crea una vera e propria vertigine.amano la storia degli attori,  crea una vera e propria vertigine.

 

 

Il carro di Tespi, formella del Campanile di Giotto,
Nino Pisano, 1334-1336, Firenze

Elena Balestrelli interpreta il ruolo di Gigliola in "La Fiaccola sotto
il moggio" di Gabriele D'Annunzio;La Fiaccola sotto
il moggio" di Gabriele D'Annunzio

TESPI: chi era costui?

 Ecco che allora il nostro povero Tespi, dopo un periodo di trionfali vittorie, si vide costretto a lasciare Atene per dirigersi altrove, in luoghi in cui nessuna forma di censura avrebbe potuto raggiungerlo. Se ne partì dalla capitale sopra ad un carro, con al seguito un gruppo di attori come lui esuli. Con il suo carro raggiunse paesi, borghi, zone inaccessibili della campagna greca: e dovunque lui arrivasse inscenava commedie e tragedie, scritte o improvvisate.  E senza saperlo, con quel suo atto anarchico, Tespi aveva dato i natali a quella forma di teatro che, per decine di secoli, avrebbe avuto un successo incontrastato in tutta Europa: il teatro girovago appunto, quello che non aspetta di essere raggiunto dal pubblico, ma che il pubblico va a cercarselo lì dove nessuno oserebbe arrivare, negli anfratti più sperduti della provincia e della ruralità, in nome di un’arte che è – e deve restare – per sua stessa natura arte per tutti e di tutti.

 

IL NOMADISMO ATAVICO DEL TEATRO ITALIANO

Tespi è, insomma, il capostipite ideale di tutti gli attori girovaghi, di tutti i senza patria dell’arte scenica, di tutti quei commedianti che scelgono la strada impervia dell’improvvisazione artistica ed esistenziale. E proprio Tespi tornerà ad essere il modello ispiratore di quei geniali e folli ciarlatani ad essere il modello ispiratore di quei geniali e folli ciarlatani che, nel XVI secolo, dettero vita ad una forma di teatro a tratti primordiale e a tratti futuristica, un teatro di piazza, privo di edifici teatrali, di copioni, di regole recitative. Un teatro all’improvviso, basato sull’istrionismo innato di alcuni individui pronti a far ridere le masse, a deridere le autorità, a desacralizzare le più inviolabili regole sociali e a innalzare a modello etico le spinte più eversive: e tutto questo senza neppure avere uno straccio di copione, né un mecenate e tanto meno un luogo apposito in cui esibirsi. La forma d’arte a cui mi riferisco è ovviamente la celeberrima Commedia dell’Arte, prodotto tipicamente italiano, esportato poi con successo in tutta Europa e dotato di una longevità veramente eccezionale.

La Commedia dell’Arte è, in primo luogo, una forma di teatro nomade, un teatro che va a cercare il pubblico lì dove sa di trovarlo (nelle piazze, nei mercati); il comico dell’arte, giunto in questi luoghi di ritrovo, proprio come un qualunque altro mercante, mette su banco e, salitovi sopra, improvvisa la propri e migra verso altri lidi, alla ricerca di nuovi spettatori da ammaliare. Il comico dell’arte recita per mangiare: ecco perché deve cambiare spesso città, paese, piazza e pubblico e, così, si autocondanna a non avere nè una casa nè un luogo di appartenenza.

 

I

n un mondo in cui dominava la stanzialità, lui decide di essere apolide e cosmopolita, nomade, girovago, senza patria e senza famiglia.  E questa sua dimensione di eterno naufrago in terre sconosciute non verrà mai meno in tutta la storia del teatro italiano che, per secoli (fino appunto agli anni ’50 del Novecento), resterà un teatro all’insegna del viaggio e dell’inarrestabile traversata.

 Persino la grande stagione aurea della prosa italiana, l’Ottocento, nonostante agisca all’interno di teatri in muratura, con palchi, palchetti, platee e solidi palcoscenici, sarà comunque caratterizzata dalle tti, platee e solidi palcoscenici, sarà comunque caratterizzata dalle compagnie di giro, errabonde per l’Italia e l’Europa, pronte di mese in mese a cambiare teatro, regione o nazione in un incessante viavai che, come unica meta, aveva il viaggio stesso, senza punti di partenza né di arrivo. Attori che nascono e muoiono dove il caso li conduce, privi di una casa in cui crescere e una in cui morire; ogni anno alla ricerca di una nuova formazione che li accolga e li trascini su altre strade, verso altri porti, fino poi a finire sepolti in cimiteri di fortuna, senza nessuno che li onori con lacrime e fiori (cfr M. Ballerini, “Il teatro, inarrestabile traversata. La dimensione crono-spaziale degli antichi comici girovaghi. Pubblicato su questa stessa rivista).

Ad ergersi – in mezzo a tutto questo turbinio di uomini luoghi e formazioni – saldo come un bastione, inespugnabile come una fortezza, incrollabile come una piramide: l’edificio teatrale.

 

L’EPOCA FASCISTA E

L’edificio teatrale, vera e propria icona dell’Italia risorgimentale e simbolo di una stagione in cui la cultura è stata capillarmente diffusa anche nei centri più piccoli della provincia (nell’Ottocento ogni paese, anche il più piccolo, vantava un proprio teatro), sembra però avere un limite ontologico: quello di essere uno spazio “chiuso”. non solo architettonicamente, ma soprattutto idealmente. Il teatro stabile non è un teatro di tutti e per tutti: c’è chi è in teatro e chi è fuori dal teatro. L’edificio teatrale non va alla ricerca del pubblico ma, al contrario, è un luogo nel quale bisogna decidere di recarsi. E proprio nello spazio breve di questa decisione, per i più vari motivi, qualcuno vi rimane sempre escluso, estraneo.

 Ecco che il regime fascista, con la sua impronta populista, colse immediatamente questa intrinseca debolezza dell’edificio teatrale ed escogitò presto una soluzione: decise di rispolverare i famosi e vetusti Carri di Tespi, creandone addirittura tre, tutti di stampo Lirico. I Carri di Tespi Lirici (numero 1, 2 e 3) erano faraoniche istallazioni all’aperto, sguinzagliate – a partire dal 1929 – su tutta la penisola e capaci di coinvolgere masse e collettività e di portare ovunque cultura e consensi.

 Gonfio d’orgoglio e di malcelata piaggeria, Paolo Orano, nella sua monografia I Carri di Tespi dell’O.N.D., pubblicata nel 1937, ne celebra il valore culturale e sociale con queste parole:

«I Carri di Tespi sono, senza dubbio, una delle istituzioni più tipiche, significative e perfette ideate e attuate dal Regime Fascista nel campo artistico e culturale, e sono in pari tempo la prima concezione nel mondo di un teatro mobile per masse. Coi Carri di Tespi è finalmente esulato dalla mente del popolo il concetto che il teatro fosse il privilegio di una sola categoria di persone e costituisse il passatempo per oziosi. Coi Carri di Tespi il popolo ha trovato finalmente la sede adatta per elevare lo spirito verso la bellezza dell’arte e trovare in questa una sorgente feconda di vita, come la trovano i fedeli nelle chiese.» (Paolo Orano, I Carri di Tespi dell’O.N.D., Roma, casa editrice Pinciana, 1937, pag. 265-266)

 

Il Carro di Tespi di Oberdan Nistri, anni quaranta del '900. Foto del
padiglione all'esterno.

Carro di Tespi (1925) Foto tratta dal sito del comune di Cinisi

A parte l’azzardato paragone tra teatri e chiese, e il tono spiccatamente celebrativo tipico dell’intellettuale di regime, Orano sottolinea comunque un aspetto essenziale dei “teatri portatili”, quello di essere pensati quali strumenti di educazione all’arte per tutti quei milioni di persone privati di qualunque altro mezzo di acculturazione. Nello stesso giro di anni, sulla spinta ideologica e finanziaria del Regime, anche alcune compagnie di prosa decisero di convertirsi al teatro viaggiante: la compagnia Nistri, per esempio, da sempre attiva in teatri Comunali o Sociali dell’Italia centro-settentrionale, nel 1931 optò per questa nuova soluzione, con il duplice scopo, da una parte, di scavalcare il problema della concessione dei teatri e, dall’altra, di raggiungere quei luoghi che, privi di una tradizione teatrale, si sarebbero dimostrati più recettivi e affamati d’arte.

Va comunque detto che, da parte della prosa, questa conversione ai Carri di Tespi fu piuttosto rara ed effimera. Negli anni Trenta, infatti, i tempi non erano ancora maturi: gli attori drammatici, con l’orgoglio tipico della gensturi: gli attori drammatici, con l’orgoglio tipico della gens comica, si tennero in maggioranza ben lontani da questa forma “degenerata” di nomadismo e preferirono ancora confidare sui ben più saldi (e “dignitosi”) teatri in muratura (ancora tutti in piedi e attivi), nonché sul pubblico elitario e alto borghese che tradizionalmente li frequentava. Eppure da lì a poco questa loro snobistica convinzione  sarebbe stata scossa fin dalle fondamenta e ciascuno di loro sarebbe stato costretto a ripensare la propria decisione a fondare su nuove basi la propria esistenza.

 

IL SECONL’ULTIMA GRANDE STAGIONE DEI CARRI DI TESPI

 

Gli anni ‘40 del Novecento sono stati un’ecatombe non solo di vite umane, ma di ogni cosa bella. tati un’ecatombe non solo di vite umane, ma di ogni cosa bella. La guerra, con la sua imbecille cecità,  ha fatto cadere uomini, case, città; ha sventrato archivi, biblioteche, musei; infranto sogni, illusioni e speranze.

In mezzo a tutte queste rovine, non sopravvissero neppure i teatri: moltissimi finirono sotto lo scroscio delle bombe, molti in preda all’aggressiva violenza degli sfollati e dei senza tetto. A guerra conclusa, l’Italia si trovò affamata non solo di pane ma anche di cultura: tanti gioielli della civiltà ottocentesca, tanti di quegli spazi teatrali che per più di un secolo erano stati il simbolo della sua effervescenza culturale, erano ormai crollati. Miglior sorte non toccò ai teatri superstiti: la più parte di essi vennero trasformati in sale cinematografiche e i restanti adibiti a sale da ballo.

Gli italiani, alla fine del conflitto, sembravano chiedere solo svago, divertimenti facili e a buon prezzo, senza troppo coinvolgimento emotivo. Il grande schermo allungava i suoi tentacoli in ogni cittadina e paese di provincia, affascinando con i suoi nuovi miti folle sconfinate. Le attrici e gli attori americani, con il loro look avanguardistico, ammaliavano uomini e donne, dettando la moda e riscrivendo il pubblico costume.  Di contro a tutto questo stravolgimento di gusti e di aspettative, gli attori di prosa si trovarono impastoiati in una palude melmosa: non solo era divenuto per loro difficilissimo trovare piazze disposte ad accoglierli, ma il pubblico stesso disertava i loro spettacoli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 
 
 

 

 
                             

                                                                                 

 

 
  
 

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