Sul finire
degli anni ‘40, decine di compagnie di prosa subirono questa
conversione, una conversione che conteneva in sé molti tratti di
continuità con il passato, ma anche i germi di una
trasformazione che, da lì a non molto, avrebbe condotto i vecchi
attori italiani – così come li abbiamo conosciuti dalla Commedia
dell’Arte al Novecento – ad estinguersi.
Ma come erano fatti i Carri di Tespi? E
quali vantaggi presentavano? Il Carro di Tespi è un padiglione
completamente ligneo, sorretto da assi esterne trasversali,
conficcate nel terreno. Ha sul fronte una porta d’ingresso per
il pubblico, sul retro l’ingresso per gli attori. È riscaldato
all’interno e capace di ospitare sedute duecento-trecento
persone, ovviamente su sedie pieghevoli, minimamente ingombranti
una volta richiuse.
Il palcoscenico è abbastanza ampio e
profondo, ben rialzato rispetto al pubblico, capace di dare
visibilità e preminenza agli interpreti.o al pubblico, capace di dare
visibilità e preminenza agli interpreti.
Il Carro ha l’enorme vantaggio di poter essere montato in poche
ore e in poche ore “ripiegato” e riposto sui camion, per essere
trasportato altrove, su un’altra piazza, in un altro paese, di
fronte ad un altro pubblico.
Senza dubbio, la diffusione dei
nuovi mezzi di trasporto, i camion appunto, e la miglioria delle
strade provinciali (divenute in buona parte asfaltate) rendeva
più agevole e snello il trasporto di questi ingombranti edifici
mobili. L’altra sua qualità, è che poteva essere collocato
ovunque: nel centro di un paese, di fronte alla stazione, in uno
slargo tra i vicoli, oppure in un campo subito fuori dalle mura
cittadine. Bastava richiedere l’autorizzazione al Comune per la
concessione del suolo pubblico e il gioco era fatto. Il Carro di
Tespi, insomma, non ha alcun limite spaziale, non conosce
costrizione o limitazione alcuna, né di tempo né di spazio.
Quanto più difficile, invece, era ottenere l’utilizzo di un
teatro stabile! In questo caso si doveva dimostrare la qualità
della formazione, la novità del repertorio, così da scavalcare
le altre compagnie che facevano la medesima richiesta. I padroni
del teatro, chiunque fossero (o palchettisti, o membri di
un’accademia, o persone associate), sceglievano le compagnie in
base ai loro gusti, al “sentito dire”, o ai mille altri motivi
(più o meno trasparenti) che rendevano assai ardimentoso il
reperimento di un teatro. Per non parlare poi degli infiniti
problemi strutturali che i teatri di volta in volta
presentavano: problemi di illuminazione o di riscaldamento;
inagibilità dei locali, dei camerini, delle logge…
Con i Carri di Tespi, invece,
nessuno di questi impedimenti sussisteva più: bastava trovare un
luogo pianeggiante e sufficientemente ampio e la concessione era
scontata. Altro grande limite dei teatri stabili era che, ben
difficilmente, erano attivi dodici mesi all’anno: nella
maggioranza dei casi, erano due le stagioni dedicate alla prosa
(quaresima e autunno) e questo rendeva il collo dell’imbuto
ancora più stretto e ingorgato: decine di compagnie si
accalcavano, in questi due periodi dell’anno, per poter svolgere
regolare corso di rappresentazioni, con l’ovvio risultato che la
maggior parte di esse otteneva un rifiuto.
Con l’adozione dei teatri
viaggianti, viceversa, i mesi “della prosa” divenivano di colpo
dodici su dodici, senza alcun altro limite se non quello
stabilito dai singoli capocomici. E per gente che sopravviveva
solo ed esclusivamente grazie al proprio mestiere, poter
lavorare ogni sera dell’anno, senza apprensioni per i mesi
successivi, rappresentava un enorme beneficio.
L’ultimo – ma non minore –
vantaggio era che i Carri di Tespi potevano raggiungere anche
quei luoghi che erano rimasti privi di una tradizione teatrale:
luoghi vergini, incontaminati, ancora assetati d’arte e di
cultura, con pubblici ingenui, entusiasti di veder inscenati
drammi e commedie mai visti, pronti ad accorrere in massa in
quegli edifici nati come per incanto all’interno del loro mondo
chiuso e impenetrabile.
I “teatri portatili”, insomma,
amplificavano in modo esponenziale il nomadismo già congenito
nel teatro italiano: lo rendevano absolutus, sciolto cioè
da ogni vincolo, privo di barriere e limiti, aperto verso ogni
direzione, e non più all’inseguimento di un luogo materiale (il
teatro appunto) ma di un’entità molto più fluida e intangibile
quale è “il pubblico”. Infatti, ovunque e sempre, c’è, c’è stato
e ci sarà un pubblico pronto ad accogliere chi sia disposto a
divertirlo e a commuoverlo. |

Un carro
di Tespi |
Oberdan Nistri e Neda Nistri
interpretano il dramma di Garcia Lorca
"Nozze di Sangue", 1953. Interno del Carro di Tespi di
Nistri Oberdan |
LA
CADUTA DEGLI DEI: IL TRISTE EPILOGO DEI CARRI DI TESPI E DEGLI
ULTIMI FIGLI D’ARTE
Da quanto detto sin qui, gli
attori avrebbero dovuto essere riconoscenti verso il loro teatro
viaggiante, avrebbero dovuto amarlo, considerarlo la loro ancora
di salvezza; al contrario, invece, ciascuno di loro, in segreto,
lo odiava e lo considerava un indecoroso decadimento, un
inaccettabile passo indietro rispetto al glorioso tempo andato.
Rimpiangevano i camerini polverosi, le platee degli snob
abituèe, i loggioni straboccanti di popolino chiassoso.
Avevano nostalgia della dignità austera degli attori del passato
che, mai e poi mai, si sarebbero sporcati le mani con il vile
lavoro, con la fatica e il sudore. Per secoli solo l’arte li
aveva nutriti e solo d’arte avrebbero voluto continuare a
nutrirsi. Il secondo dopoguerra, invece, conosce un’unica e sola
parola d’ordine risparmio e la massima virtù è il
sapersi arrangiare.
L’Italia, a rivederla nei film
neorealisti, sembra un paese ripiombato di colpo nella miseria
dei secoli bui. Questa stessa miseria non poteva certo
risparmiare gli attori girovaghi, che, proprio per la loro
condizione di eterni nomadi, diventavano come i termometri
dell’andamento complessivo della società. Le compagnie,
strutturate come numerose famiglie (formate da dieci-quindici
elementi), dovevano riuscire a sopravvivere ogni giorno grazie
solo alla loro bravura di artisti consumati e alla loro capacità
d’arrangiarsi. Nei nuovi teatri portatili, dunque, gli
attori erano costretti a fare un po’ di tutto: il capocomico
tira giù le assi del teatro dai camion e le monta insieme ai
propri figli; la prima attrice, quando non è in scena, è
sprofondata nella buca del suggeritore e, prima dello
spettacolo, la puoi tranquillamente trovare all’ingresso del
padiglione a distribuire biglietti. Ogni attore, di volta in
volta, è costretto a riciclarsi nel ruolo di suggeritore,
trovarobe, macchinista, costumista, truccatore; ognuno deve
poter svolgere ogni parte, in modo da colmare i buchi lasciati
vuoti dai propri compagni d’arte. E tutto questo arrangiarsi è
percepito dagli artisti come un’infamia indelebile verso sé
stessi e l’arte che rappresentano.
È in
questo terreno di povertà diffusa che nacque e si sviluppò quel
morbo a tutti noto con il nome di guitteria. I comici
attivi sui Carri di Tespi sono tutti, indistintamente, dei
malati inguaribili di guitteria. Arrangiati gli abiti,
improvvisato il trucco, anacronistiche le scene e i costumi,
rimediato alla meno peggio il mobilio. Ogni sera, inscenavano
due o tre commedie fuse insieme, senza il minimo scrupolo per la
sacrosanta inviolabilità del testo, ogni volta ricreato e
riscritto secondo i bisogni della compagnia. L’amor del vero
cedeva di continuo il passo alle necessità contingenti degli
interpreti: Maria Goretti, morta martire in nome della propria
verginità, poteva essere tranquillamente interpretata da una
giovane attrice in stato interessante, qualora la compagnia non
disponesse di altre attrici; oppure a vestire i panni di Romeo,
l’archetipo di ogni giovane
innamorato,
poteva essere un attore ottuagenario, consunto dalla magrezza e
dalla vecchiaia (cfr M. Ballerini, “I Guitti. Nel bene
e nel male. Etimologia ed excursus storico”. )
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Quella dei Carri di Tespi,
insomma, è l’ultima grande stagione dei guitti: gli
attori stessi prendono ad autodefinirsi con questo termine,
quasi la considerassero la cifra distintiva della loro
condizione di artisti. Vivono questa loro miseria con un duplice
atteggiamento d’orgoglio e di vergogna: per un verso, sono fieri
di continuare a sopravvivere in mezzo a tante avversità, grazie
all’antico mestiere della loro gente; dall’altro, si sentono
come dei sopravvissuti, quasi dei fantasmi che si ostinano a
resistere in un mondo divenuto a loro estraneo ed inospitale.
Ma chi erano poi davvero questi
guitti che hanno per decenni girato l’Italia, di paese in
paese, sui loro Carri di Tespi? Quale era la loro origine? Erano
mestieranti o filodrammatici? Attori improvvisati o artisti
consumati? Oggi la loro identità sembra a tutti sconosciuta,
cancellata dalla memoria collettiva e persino dalla coscienza
degli studiosi.
Ecco perchè
vorrei tentare di rispondere alle domande precedenti cominciando
con una rapida rassegna dei loro nomi, così da rompere il
silenzio che per decenni li ha avvolti: Nistri, Cordiviola,
Carani, Marchesini, D’Antoni, Verdirosi, Ruta, Carrara, Anselmi,
Rampini, Rispoli…
Ma dietro
questi nomi, per noi oggi nient’altro che nomi del tutto vuoti
di senso, chi si nascondeva veramente? La risposta alla nostra
domanda è quanto mai sorprendente ed inattesa: sulle tavole
posticce dei teatri viaggianti, non finirono diseredati privi
d’arte e di mestiere, ciarlatani alla ricerca di un po’ di
fortuna, ma vi finirono gli ultimi discendenti di quell’augusta
tradizione dei “figli d’arte” che, da secoli, nobilitavano la
scena di prosa italiana (cfr M. Ballerini, La lunga
epopea dei “figli d’arte”. Storia, dicerie, tradizioni.
Pubblicato su questa stessa rivista)
Le compagnie
dei Carri di Tespi furono tutte composte da artisti che, fin da
bambini, non avevano fatto altro che recitare e, prima di loro,
i loro genitori e nonni e bisnonni, in un lungo percorso a
ritroso che va a perdersi agli albori della storia del teatro
italiano. Ciascuno di loro poteva vantare antenati illustri,
capostipiti attivi al tempo di Goldoni, iniziatori di una
genealogia di artisti rinomati nel secolo XIX, scritturati in
compagnie primarie al fianco delle più fulgide stelle della
scena drammatica.
Tutti poi
avevano l’orgoglio di aver appreso il mestiere da una
frequentazione quotidiana ed ininterrotta con l’arte scenica e
questo faceva sì che conoscessero i segreti dell’arte drammatica
come conoscevano se stessi, anzi che si identificassero con
l’arte che rappresentavano e con il mondo di cui facevano parte.
I Carri di Tespi, in altri termini,
divennero un nuovo “spazio” (fisico e, ancor prima, metafisico)
nel quale fu loro permesso di riconoscersi quali membri
appartenenti ad una stessa gens, alla sempiterna
oligarchia “del socco e del coturno”.
Questa fu la vera identità di quei
guitti di cui i critici parlano con tanta ironia e
disprezzo.
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Mara Nistri
interpreta "Santa Rita", 1954. Interno del Carro di
Tespi
di Oberdan Nistri
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Teatro
ambulante degli anni '30 del Novecento |
NEL SOLCO DI UNA PLURISECOLARE
TRADIZIONE
Le tracce di questo loro glorioso
passato, sono ravvisabili nell’attaccamento che essi
dimostrarono verso la tradizione. Un attaccamento cocciuto, a
volte ostinato e cieco, persino miope se si vuole, ma tipico di
tutte quelle realtà che vivono la stagione della loro decadenza.
Il primo e più evidente segnale di questo indissolubile legame
con la tradizione, fu che continuarono a designare se stessi
come comici e le loro compagnie come compagnie comiche:
questo nome così arcaico e primordiale svelava il filo rosso che
univa loro alla Commedia dell’Arte.
Ma al di là del nome, continuò a
resistere un intero sistema teatrale, fatto di oggetti,
recitazione, ruoli, schemi, abitudini, consuetudini, repertorio…
In quanto comici del teatro all’antica italiana, si tennero ben
stretti gli oggetti che da sempre avevano caratterizzato il loro
mestiere: le brocchette (chiodi corti dalla grossa
capocchia nera), i fondali di carta, i bauli-armadio, le spade
di latta, la ribalta (fila di lampadine in basso) e la
bilancia (fila di lampadine dall’alto); mantennero immutati
gli elementi base del vestiario che ogni attore riceveva in
eredità dai propri avi: il frack, la redingote, la
calzamaglia e soprattutto la goldoniana (questo sì che
era il vero gioiello del guardaroba di ogni attore).
Sui Carri di Tespi, i vecchi
figli d’arte trasportarono immutato il Sistema dei Ruoli (cfr M.
Ballerini, Il sistema dei ruoli. Nel teatro ottocentesco.
Pubblicato su questa stessa rivista) e poi le Pose Sceniche e
persino certe tipiche Modalità Recitative come la voce di
velluto delle attrici (languente, morbida, flautata, con
lunghi abbandoni e rallentamenti strisciati sulle vocali nei
momenti di tenerezza) oppure il loro intollerabile birignao
(un’affettazione leziosa di pronuncia a bocca stretta con
ricercate sofisticazioni); e ancora il do di petto del
primo attore, i gorgheggi della prima attrice, i
tremolii dell’amorosa, le effervescenze del brillante
e, ultime nella lista ma non nell’importanza, le carrettelle
(l’attore cominciava una battuta con un tono liscio e piano, poi
a poco a poco saliva d’intensità e di velocità fino al massimo
di foga, in un impeto di parossismo che, di colpo, si arrestava
all’improvviso, in un attimo di vuoto, in una sospensione di
vita, a cui seguiva di nuovo un tono piano da conversazione) e
le padovanelle (l’attore indugiava il più possibile
sull’uscita e dilatava al massimo la battuta finale, attraverso
ripensamenti, esitazioni, giri su se stesso e poi compiva uno
scatto in avanti che poi subito rallentava, così da ripetere le
medesime battute infarcite di sorrisetti, tossettine, borbottii,
balbettii e tutto questo fino a che uno scrosciante applauso non
avesse buttato già il teatro). Insieme a tutto questo “corredo”
di oggetti e artifici recitativi, i vecchi attori conservarono
anche il loro tradizionale Repertorio che, seppur distonico
rispetto ai teatri smontabili, restò immutato per decenni. Nei
Carri di Tespi si inscenarono le opere dei più grandi
drammaturghi europei: Shakespeare (Otello, Amleto,
Giulietta e Romeo), Carlo Marengo (Pia de’ Tolomei),
Giacometti (Morte civile), Sardou (Tosca), Giorgio
Ohnet (Il padrone delle ferriere), Verga (Cavalleria
rusticana), D’Annunzio (La fiaccola sotto il moggio,
La figlia di Jorio, Francesca da Rimini), Garcia
Lorca (Nozze di sangue), Dario Niccodemi (La nemica,
La maestrina, L’ombra, Scampolo) Sem Benelli (La
cena delle Beffe), Nino Berrini (Il beffardo).
Un repertorio di grande prestigio
e di elevata raffinatezza artistica che veniva poi intervallato
da opere di dubbio gusto e scarsa qualità (La sepolta viva,
Le due orfanelle, Primo maggio, I figli di
nessuno, Una lampada alla finestra, Addio
giovinezza, Beata Maria Goretti, Santa Rita da
Cascia, Passione di Nostro Signore Gesù Cristo),
tutte rigorosamente concluse, come d’abitudine e senza la minima
perplessità, dalla Farsa finale.Nei Carri di Tespi,
insomma, arte e guitteria si univano senza confondersi; l’una
generava l’altra e, al contempo, la rigettava come indegna. Per
taluni aspetti si inseguiva il fasto delle grandi compagnie e,
per altri, si toccavano i fondali della guittalemme più
inaccettabile. I vecchi attori portavano i segni di un fasto
antico, di un passato celebre e illustre e, contemporaneamente,
mostravano i sintomi di una cancrena così corrosiva che li
avrebbe portati nel giro di poco tempo all’estinzione. Potremmo
definirla la caduta dei dinosauri: questi grandi mostri lignei,
designati con il nome di un mitico drammaturgo del VI secolo,
crollarono per la più parte sotto la neve e le intemperie, sotto
i colpi di una storia in troppo rapida trasformazione e i loro
anacronistici inquilini furono presto ridotti alla fame
(distrutti dall’avanzare del cinema e della televisione) e poi
dimenticati dall’intero mondo teatrale. È proprio sui Carri di
Tespi che si è consumato il dramma della fine di un’epoca, della
scomparsa dei vecchi attori italiani, dei celeberrimi figli
d’arte, degli ultimi grandi comici della storia del teatro
all’antica italiana.
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