Il carro di Tespi

Il teatro che va alla ricerca del proprio pubblico (seconda parte)


prima parte

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di Mauro Ballerini

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Sul finire degli anni ‘40, decine di compagnie di prosa subirono questa conversione, una conversione che conteneva in sé molti tratti di continuità con il passato, ma anche i germi di una trasformazione che, da lì a non molto, avrebbe condotto i vecchi attori italiani – così come li abbiamo conosciuti dalla Commedia dell’Arte al Novecento – ad estinguersi.

 Ma come erano fatti i Carri di Tespi? E quali vantaggi presentavano? Il Carro di Tespi è un padiglione completamente ligneo, sorretto da assi esterne trasversali, conficcate nel terreno. Ha sul fronte una porta d’ingresso per il pubblico, sul retro l’ingresso per gli attori. È riscaldato all’interno e capace di ospitare sedute duecento-trecento persone, ovviamente su sedie pieghevoli, minimamente ingombranti una volta richiuse.

Il palcoscenico è abbastanza ampio e profondo, ben rialzato rispetto al pubblico, capace di dare visibilità e preminenza agli interpreti.o al pubblico, capace di dare visibilità e preminenza agli interpreti. Il Carro ha l’enorme vantaggio di poter essere montato in poche ore e in poche ore “ripiegato” e riposto sui camion, per essere trasportato altrove, su un’altra piazza, in un altro paese, di fronte ad un altro pubblico.

Senza dubbio, la diffusione dei nuovi mezzi di trasporto, i camion appunto, e la miglioria delle strade provinciali (divenute in buona parte asfaltate) rendeva più agevole e snello il trasporto di questi ingombranti edifici mobili. L’altra sua qualità, è che poteva essere collocato ovunque: nel centro di un paese, di fronte alla stazione, in uno slargo tra i vicoli, oppure in un campo subito fuori dalle mura cittadine. Bastava richiedere l’autorizzazione al Comune per la concessione del suolo pubblico e il gioco era fatto. Il Carro di Tespi, insomma, non ha alcun limite spaziale, non conosce costrizione o limitazione alcuna, né di tempo né di spazio. Quanto più difficile, invece, era ottenere l’utilizzo di un teatro stabile! In questo caso si doveva dimostrare la qualità della formazione, la novità del repertorio, così da scavalcare le altre compagnie che facevano la medesima richiesta. I padroni del teatro, chiunque fossero (o palchettisti, o membri di un’accademia, o persone associate), sceglievano le compagnie in base ai loro gusti, al “sentito dire”, o ai mille altri motivi (più o meno trasparenti) che rendevano assai ardimentoso il reperimento di un teatro. Per non parlare poi degli infiniti problemi strutturali che i teatri di volta in volta presentavano: problemi di illuminazione o di riscaldamento; inagibilità dei locali, dei camerini, delle logge…

Con i Carri di Tespi, invece, nessuno di questi impedimenti sussisteva più: bastava trovare un luogo pianeggiante e sufficientemente ampio e la concessione era scontata. Altro grande limite dei teatri stabili era che, ben difficilmente, erano attivi dodici mesi all’anno: nella maggioranza dei casi, erano due le stagioni dedicate alla prosa (quaresima e autunno) e questo rendeva il collo dell’imbuto ancora più stretto e ingorgato: decine di compagnie si accalcavano, in questi due periodi dell’anno, per poter svolgere regolare corso di rappresentazioni, con l’ovvio risultato che la maggior parte di esse otteneva un rifiuto.

Con l’adozione dei teatri viaggianti, viceversa, i mesi “della prosa” divenivano di colpo dodici su dodici, senza alcun altro limite se non quello stabilito dai singoli capocomici. E per gente che sopravviveva solo ed esclusivamente grazie al proprio mestiere, poter lavorare ogni sera dell’anno, senza apprensioni per i mesi successivi, rappresentava un enorme beneficio.

L’ultimo – ma non minore – vantaggio era che i Carri di Tespi potevano raggiungere anche quei luoghi che erano rimasti privi di una tradizione teatrale: luoghi vergini, incontaminati, ancora assetati d’arte e di cultura, con  pubblici ingenui, entusiasti di veder inscenati drammi e commedie mai visti, pronti ad accorrere in massa in quegli edifici nati come per incanto all’interno del loro mondo chiuso e impenetrabile.

 I “teatri portatili”, insomma, amplificavano in modo esponenziale il nomadismo già congenito nel teatro italiano: lo rendevano absolutus, sciolto cioè da ogni vincolo, privo di barriere e limiti, aperto verso ogni direzione, e non più all’inseguimento di un luogo materiale (il teatro appunto) ma di un’entità molto più fluida e intangibile quale è “il pubblico”. Infatti, ovunque e sempre, c’è, c’è stato e ci sarà un pubblico pronto ad accogliere chi sia disposto a divertirlo e a commuoverlo. 

Un carro di Tespi

Oberdan Nistri e Neda Nistri interpretano il dramma di Garcia Lorca
"Nozze di Sangue", 1953. Interno del Carro di Tespi di Nistri Oberdan

LA CADUTA DEGLI DEI: IL TRISTE EPILOGO DEI CARRI DI TESPI E DEGLI ULTIMI FIGLI D’ARTE

 

Da quanto detto sin qui, gli attori avrebbero dovuto essere riconoscenti verso il loro teatro viaggiante, avrebbero dovuto amarlo, considerarlo la loro ancora di salvezza; al contrario, invece, ciascuno di loro, in segreto, lo odiava e lo considerava un indecoroso decadimento, un inaccettabile passo indietro rispetto al glorioso tempo andato. Rimpiangevano i camerini polverosi, le platee degli snob abituèe, i loggioni straboccanti di popolino chiassoso. Avevano nostalgia della dignità austera degli attori del passato che, mai e poi mai, si sarebbero sporcati le mani con il vile lavoro, con la fatica e il sudore. Per secoli solo l’arte li aveva nutriti e solo d’arte avrebbero voluto continuare a nutrirsi. Il secondo dopoguerra, invece, conosce un’unica e sola parola d’ordine risparmio e la massima virtù è il sapersi arrangiare.

L’Italia, a rivederla nei film neorealisti, sembra un paese ripiombato di colpo nella miseria dei secoli bui. Questa stessa miseria non poteva certo risparmiare gli attori girovaghi, che, proprio per la loro condizione di eterni nomadi, diventavano come i termometri dell’andamento complessivo della società. Le compagnie, strutturate come numerose famiglie (formate da dieci-quindici elementi), dovevano riuscire a sopravvivere ogni giorno grazie solo alla loro bravura di artisti consumati e alla loro capacità d’arrangiarsi.  Nei nuovi teatri portatili, dunque, gli attori erano costretti a fare un po’ di tutto: il capocomico tira giù le assi del teatro dai camion e le monta insieme ai propri figli; la prima attrice, quando non è in scena, è sprofondata nella buca del suggeritore e, prima dello spettacolo, la puoi tranquillamente trovare all’ingresso del padiglione a distribuire biglietti. Ogni attore, di volta in volta, è costretto a riciclarsi nel ruolo di suggeritore, trovarobe, macchinista, costumista, truccatore; ognuno deve poter svolgere ogni parte, in modo da colmare i buchi lasciati vuoti dai propri compagni d’arte. E tutto questo arrangiarsi è percepito dagli artisti come un’infamia indelebile verso sé stessi e l’arte che rappresentano.

È in questo terreno di povertà diffusa che nacque e si sviluppò quel morbo a tutti noto con il nome di guitteria. I comici attivi sui Carri di Tespi sono tutti, indistintamente, dei malati inguaribili di guitteria. Arrangiati gli abiti, improvvisato il trucco, anacronistiche le scene e i costumi, rimediato alla meno peggio il mobilio. Ogni sera, inscenavano due o tre commedie fuse insieme, senza il minimo scrupolo per la sacrosanta inviolabilità del testo, ogni volta ricreato e riscritto secondo i bisogni della compagnia. L’amor del vero cedeva di continuo il passo alle necessità contingenti degli interpreti: Maria Goretti, morta martire in nome della propria verginità, poteva essere tranquillamente interpretata da una giovane attrice in stato interessante, qualora la compagnia non disponesse di altre attrici; oppure a vestire i panni di Romeo, l’archetipo di ogni giovane innamorato, poteva essere un attore ottuagenario, consunto dalla magrezza e dalla vecchiaia (cfr M. Ballerini, “I Guitti. Nel bene e nel male. Etimologia ed excursus storico”. )

 

Quella dei Carri di Tespi, insomma, è l’ultima grande stagione dei guitti: gli attori stessi prendono ad autodefinirsi con questo termine, quasi la considerassero la cifra distintiva della loro condizione di artisti. Vivono questa loro miseria con un duplice atteggiamento d’orgoglio e di vergogna: per un verso, sono fieri di continuare a sopravvivere in mezzo a tante avversità, grazie all’antico mestiere della loro gente; dall’altro, si sentono come dei sopravvissuti, quasi dei fantasmi che si ostinano a resistere in un mondo divenuto a loro estraneo ed inospitale.  

 Ma chi erano poi davvero questi guitti che hanno per decenni girato l’Italia, di paese in paese, sui loro Carri di Tespi? Quale era la loro origine? Erano mestieranti o filodrammatici? Attori improvvisati o artisti consumati? Oggi la loro identità sembra a tutti sconosciuta, cancellata dalla memoria collettiva e persino dalla coscienza degli studiosi. Ecco perchè vorrei tentare di rispondere alle domande precedenti cominciando con una rapida rassegna dei loro nomi, così da rompere il silenzio che per decenni li ha avvolti: Nistri, Cordiviola, Carani, Marchesini, D’Antoni, Verdirosi, Ruta, Carrara, Anselmi, Rampini, Rispoli…

Ma dietro questi nomi, per noi oggi nient’altro che nomi del tutto vuoti di senso, chi si nascondeva veramente? La risposta alla nostra domanda è quanto mai sorprendente ed inattesa: sulle tavole posticce dei teatri viaggianti, non finirono diseredati privi d’arte e di mestiere, ciarlatani alla ricerca di un po’ di fortuna, ma vi finirono gli ultimi discendenti di quell’augusta tradizione dei “figli d’arte” che, da secoli, nobilitavano la scena di prosa italiana (cfr M. Ballerini, La lunga epopea dei “figli d’arte”. Storia, dicerie, tradizioni. Pubblicato su questa stessa rivista)

Le compagnie dei Carri di Tespi furono tutte composte da artisti che, fin da bambini, non avevano fatto altro che recitare e, prima di loro, i loro genitori e nonni e bisnonni, in un lungo percorso a ritroso che va a perdersi agli albori della storia del teatro italiano. Ciascuno di loro poteva vantare antenati illustri, capostipiti attivi al tempo di Goldoni, iniziatori di una genealogia di artisti rinomati nel secolo XIX, scritturati in compagnie primarie al fianco delle più fulgide stelle della scena drammatica.

Tutti poi avevano l’orgoglio di aver appreso il mestiere da una frequentazione quotidiana ed ininterrotta con l’arte scenica e questo faceva sì che conoscessero i segreti dell’arte drammatica come conoscevano se stessi,  anzi che si identificassero con l’arte che rappresentavano e con il mondo di cui facevano parte.

I Carri di Tespi, in altri termini, divennero un nuovo “spazio” (fisico e, ancor prima, metafisico) nel quale fu loro permesso di riconoscersi quali membri appartenenti ad una stessa gens, alla sempiterna oligarchia “del socco e del coturno”.

Questa fu la vera identità di quei guitti di cui i critici parlano con tanta ironia e disprezzo.

 

Mara Nistri interpreta "Santa Rita", 1954. Interno del Carro di Tespi
di Oberdan Nistri
 

Teatro ambulante degli anni '30 del Novecento

NEL SOLCO DI UNA PLURISECOLARE TRADIZIONE

Le tracce di questo loro glorioso passato, sono ravvisabili nell’attaccamento che essi dimostrarono verso la tradizione. Un attaccamento cocciuto, a volte ostinato e cieco, persino miope se si vuole, ma tipico di tutte quelle realtà che vivono la stagione della loro decadenza. Il primo e più evidente segnale di questo indissolubile legame con la tradizione, fu che continuarono a designare se stessi come comici e le loro compagnie come compagnie comiche: questo nome così arcaico e primordiale svelava il filo rosso che univa loro alla Commedia dell’Arte. 

Ma al di là del nome, continuò a resistere un intero sistema teatrale, fatto di oggetti, recitazione, ruoli, schemi, abitudini, consuetudini, repertorio… In quanto comici del teatro all’antica italiana, si tennero ben stretti gli oggetti che da sempre avevano caratterizzato il loro mestiere: le brocchette (chiodi corti dalla grossa capocchia nera), i fondali di carta, i bauli-armadio, le spade di latta, la ribalta (fila di lampadine in basso) e la bilancia (fila di lampadine dall’alto); mantennero immutati gli elementi base del vestiario che ogni attore riceveva in eredità dai propri avi: il frack, la redingote, la calzamaglia e soprattutto la goldoniana (questo sì che era il vero gioiello del guardaroba di ogni attore).

Sui Carri di Tespi, i vecchi figli d’arte trasportarono immutato il Sistema dei Ruoli (cfr M. Ballerini, Il sistema dei ruoli. Nel teatro ottocentesco. Pubblicato su questa stessa rivista) e poi le Pose Sceniche e persino certe tipiche Modalità Recitative come la voce di velluto delle attrici (languente, morbida, flautata, con lunghi abbandoni e rallentamenti strisciati sulle vocali nei momenti di tenerezza) oppure il loro intollerabile birignao (un’affettazione leziosa di pronuncia a bocca stretta con ricercate sofisticazioni); e ancora il do di petto del primo attore, i gorgheggi della prima attrice, i tremolii dell’amorosa, le effervescenze del brillante e, ultime nella lista ma non nell’importanza, le carrettelle (l’attore cominciava una battuta con un tono liscio e piano, poi a poco a poco saliva d’intensità e di velocità fino al massimo di foga, in un impeto di parossismo che, di colpo, si arrestava all’improvviso, in un attimo di vuoto, in una sospensione di vita, a cui seguiva di nuovo un tono piano da conversazione) e le padovanelle (l’attore indugiava il più possibile sull’uscita e dilatava al massimo la battuta finale, attraverso ripensamenti, esitazioni, giri su se stesso e poi compiva uno scatto in avanti che poi subito rallentava, così da ripetere le medesime battute infarcite di sorrisetti, tossettine, borbottii, balbettii e tutto questo fino a che uno scrosciante applauso non avesse buttato già il teatro). Insieme a tutto questo “corredo” di oggetti e artifici recitativi, i vecchi attori conservarono anche il loro tradizionale Repertorio che, seppur distonico rispetto ai teatri smontabili, restò immutato per decenni. Nei Carri di Tespi si inscenarono le opere dei più grandi drammaturghi europei: Shakespeare (Otello, Amleto, Giulietta e Romeo), Carlo Marengo (Pia de’ Tolomei), Giacometti (Morte civile), Sardou (Tosca), Giorgio Ohnet (Il padrone delle ferriere), Verga (Cavalleria rusticana), D’Annunzio (La fiaccola sotto il moggio, La figlia di Jorio, Francesca da Rimini), Garcia Lorca (Nozze di sangue), Dario Niccodemi (La nemica, La maestrina, L’ombra, Scampolo) Sem Benelli (La cena delle Beffe), Nino Berrini (Il beffardo).

Un repertorio di grande prestigio e di elevata raffinatezza artistica che veniva poi intervallato da opere di dubbio gusto e scarsa qualità (La sepolta viva, Le due orfanelle, Primo maggio, I figli di nessuno, Una lampada alla finestra, Addio giovinezza, Beata Maria Goretti, Santa Rita da Cascia, Passione di Nostro Signore Gesù Cristo), tutte rigorosamente concluse, come d’abitudine e senza la minima perplessità, dalla Farsa finale.Nei Carri di Tespi, insomma, arte e guitteria si univano senza confondersi; l’una generava l’altra e, al contempo, la rigettava come indegna. Per taluni aspetti si inseguiva il fasto delle grandi compagnie e, per altri, si toccavano i fondali della guittalemme più inaccettabile. I vecchi attori portavano i segni di un fasto antico, di un passato celebre e illustre e, contemporaneamente, mostravano i sintomi di una cancrena così corrosiva che li avrebbe portati nel giro di poco tempo all’estinzione. Potremmo definirla la caduta dei dinosauri: questi grandi mostri lignei, designati con il nome di un mitico drammaturgo del VI secolo, crollarono per la più parte sotto la neve e le intemperie, sotto i colpi di una storia in troppo rapida trasformazione e i loro anacronistici inquilini furono presto ridotti alla fame (distrutti dall’avanzare del cinema e della televisione) e poi dimenticati dall’intero mondo teatrale. È proprio sui Carri di Tespi che si è consumato il dramma della fine di un’epoca, della scomparsa dei vecchi attori italiani, dei celeberrimi figli d’arte, degli ultimi grandi comici della storia del teatro all’antica italiana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 
 
 

 

 
                             

                                                                                 

 

 
  
 

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