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di Anna
Bruna Menghini |
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Note biografiche
Ezio Menghini nacque a Canino il 28 dicembre 1927. Compì gli studi
magistrali a Fano, presso i Salesiani. Nel 1951 conseguì il Diploma
di Maturità Artistica presso il Liceo Artistico-Accademia di Belle
Arti di via Ripetta a Roma. Fu docente di Educazione Artistica
nella Scuola Media Statale di Canino dal 1953, anno della sua
fondazione, fino al 1972. Quindi, trasferitosi a Viterbo, insegnò
Disegno e Storia dell'Arte presso l'Istituto Magistrale, i Licei
Artistico e Scientifico e l'Accademia di Belle Arti di Viterbo,
fino al 1981, anno della sua scomparsa. L'attività didattica fu
praticata in maniera complementare con la ricerca pittorica.
Inoltre coltivò un grande interesse per la propria terra; partecipò
a campagne di scavi e rilevamenti del patrimonio archeologico dell'Etruria
meridionale, e fu presidente del Gruppo Archeologico Vulcente.
Conseguì numerosi premi in occasione di mostre nazionali e
internazionali. Le sue opere fanno parte di numerose collezioni
private italiane ed estere. La sua ricerca pittorica fino alla metà
degli anni '70 è documentata in: Ezio Menghini, La pittura a
stecca, Antonio Lalli Editore, Firenze 1974.
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Ezio
Menghini |
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Il Castello
e il ponte dell'Abbadia |
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Profilo artistico
Ezio Menghini ha eletto le sue origini a motivo ispiratore della propria
arte: l'appartenenza alla sua terra e la provenienza da una
famiglia di semplici artigiani. Univa la passione per l'arte ad una
vocazione didattica. Infatti credeva nell'arte come esperienza
trasmissibile e collettiva, come forma espressiva fondamentale
nella personalità di ogni uomo, rifiutando una concezione estetica
individualista ed elitaria. Non condivideva quella dimensione
eccessivamente intellettualistica e cerebrale che caratterizza gran
parte delle ricerche artistiche contemporanee. Aveva una concezione
"classica" del fare artistico, intendendo l'arte come "mestiere".
Riteneva che la padronanza tecnica costituisse la base necessaria
per una assoluta libertà espressiva; a suo parere occorreva
insegnare non "cosa", ma "come" esprimere. Tale convinzione lo ha
spinto a sperimentare tecniche e metodi, piuttosto che stili.
Persuaso che l'arte debba parlare di sé attraverso gli strumenti
che le sono propri, era restio ad intavolare discorsi
sovrastrutturali sull'arte; gli piaceva invece più umilmente
comunicare la sua personale esperienza, illustrando accuratamente
la sua tecnica pittorica: quel sistema che aveva messo a punto
dalla metà degli anni '60 e che chiamava "pittura a stecca".
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La ricerca pittorica: le prime
sperimentazioni nel segno dell'astrazione
Il percorso artistico di Ezio Menghini, apparentemente
eterogeneo, testimonia un articolato percorso di ricerca, che si è
sviluppato in un continuo misurarsi con le esperienze passate e
attuali. Infatti ha ritenuto necessario ripercorrere criticamente
le correnti artistiche contemporanee, sperimentandole in prima
persona, per giungere con maturata consapevolezza ad una nuova
figuratività. L'ultimo periodo, quello "realista", deriva infatti
dal superamento delle precedenti ricerche impressioniste e
astrattiste; non è un rifugiarsi nelle certezze oggettive della
rappresentazione figurativa naturalistica, ma piuttosto quasi una
sfida sulla possibilità di poter produrre arte ancora alla maniera
classica, attraverso un "oggetto" da interpretare in modo
soggettivo. Il periodo che va dagli anni 1953 al 1962 è
caratterizzato da sperimentazioni in ambito impressionista. I
riferimenti sono Corot, Monet, Cézanne, Van Gogh, più volte
riprodotti agli inizi degli anni '50, per coglierne a fondo tutti i
segreti al di là della sommaria percezione formale, attraverso il
processo del loro farsi. Negli anni '50, ancora in una fase di
ricerca del mezzo espressivo più consono, il pittore sperimenta,
oltre alla pittura da olio, anche le tecniche dell'incisione, del
graffito, dell'acquerello, dello stucco. Progressivamente matura
una personale maniera di dare il colore: larghe pennellate
sintetiche si distribuiscono su supporti vari, prevalentemente
rigidi (faesite, cartone telato). Tra il 1963 e il 1965 Menghini
intraprende una ricerca con chiari riferimenti cubisti, che
definisce Costruttivismo e Stilizzazione. Si tratta di composizioni
astratte e analitiche, fatte di forme geometriche e colori puri
stesi in vaste campiture uniformi e compatte, senza tuttavia
rinunciare del tutto alla rappresentazione tridimensionale e alla
luce, alludendo alla leggibilità di un soggetto.
Nella composizione disincarno l'oggetto componendolo sotto forme
primitive di rette e curve che a loro volta hanno il pieno
linguaggio espressivo del colore. L'anarchico disordine è solo
apparente. Tutto si armonizza nella stilizzazione dei toni. Vi è in
questa pittura l'analisi geometrica, la compenetrazione delle forme
nello spazio. Il richiamo dei colori del prisma è continuo e
raffinato ed esprime una visione interiore che è al di là delle
manifestazioni della natura. Lo spazio che risulta è uno spazio
nuovo, nel quale gli elementi dipinti sono posti su di un medesimo
piano, animano la superficie della tela, anziché svilupparsi in
linee di fuga. Tutto parte dalla tela per terminare negli occhi, in
una luce solida, armoniosa. Dalla decorazione legata ad uno schema
figurativo mi vado spingendo in un campo dove lo spazio, la linea,
la forma, il colore richiamano la mia fantasia per se stessi senza
essere obbligatoriamente subordinati ad associazioni con gli
oggetti naturali. Cerco di armonizzare il colore con l'essenza
geometrica della forma, di cui avverto il valore lineare.[1]
C'è poi un passaggio intermedio, che si protrae fino alla fine
degli anni '60, in cui il pittore tenta di conciliare astrazione e
figurazione, scomposizione analitica e sintesi compositiva,
cromatismo puro e grana materica, bidimensionalità e
tridimensionalità, stilizzazione geometrica e senso della massa. I
soggetti della rappresentazione, non più forme astratte ma figure
riconoscibili, si traducono in linee e piani orizzontali e
verticali reiterati per suggerire volumi e profondità. Il pittore
mette a punto una tecnica congeniale a tale intento abbandonando il
pennello. Dopo una prima sperimentazione attraverso l'uso della
spatola, dalla fine degli anni '60 assume come strumento
indispensabile la "stecca".
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Canino, Via
Magenta |
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Natura
morta |
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La Chiesa Collegiata di
Canino |
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Il periodo della maturità: l'aspirazione
verso un nuovo verismo
La ricerca degli anni '70, definibile come neo-verista, si concentra
essenzialmente sulla materia e la luce. Il volume, o meglio la
massa dalla evidente consistenza materica, si traduce nella
sommatoria di infinitesimi piani. Le forme, all'apparenza figure
unitarie e realistiche, si dissolvono in tante piccole schegge e
spolverii cromatici. Il colore, che precedentemente veniva dato per
sintetiche stesure dense e compatte, si frantuma sempre di più,
come a sottolineare che la luce rende diversa la materia in ogni
suo punto. Le sfumature sono ottenute non per fusione, ma per
accostamenti densi di colori opportunamente graduati.
Fuori dall'oggettivismo concettuale del Cubismo e dell'ascetismo
plastico dell'Arte Astratta, opero nel campo di un figurativismo
che sento perennemente valido e che attinge alla inesauribile fonte
della natura. Mi lascio umilmente emozionare da ciò che mi
circonda. L'emozione si fa in me sensazione in una atmosfera pacata
che sa di classicismo. Ad una ricreazione egocentrica preferisco il
fervore obiettivo della contemplazione. Sintetizzo la realtà senza
eccessivamente schematizzare, senza rendermi calligrafico ma
esprimendomi per sintesi volumetrica, dove tutto si rende
essenziale. Tramite "la mia personale tecnica a stecca" posso
distendere il colore con maggiore freschezza e con impensati
effetti. Il colore dà un contenuto poetico, vaporizza festoso sul
fondo spesso cupo, dando la sensazione di un vagabondare fantastico
che sa di indefinito.[2]
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La sperimentazione tecnica: la "pittura a
stecca"
Strumenti della tradizione artigiana vengono adottati ai fini
dell'espressione artistica, quasi a rimarcare la profonda affinità
tra arte e mestiere. Su una base di tela appositamente scurita con
mordente, il pittore stendeva il colore ad olio mediante la stecca,
comune lamina metallica usata per le stuccature, dopo averlo reso
più pastoso con l'aggiunta di stucco e miscelato con la spatola. Il
colore veniva applicato a piccoli colpi, usando la stecca di
piatto, di taglio o di spigolo. I temi rappresentati sono quelli
della tradizione figurativa: nature morte, scorci di paesi, volti,
con una predilezione per i soggetti tipici del paesaggio maremmano
e dell'Etruria; comuni realtà quotidiane, espressioni di una
visione interna, intimista, soggettiva e che nello stesso tempo
aspira ad essere universale. L'attaccamento alla sua terra traspare
oltre che nei soggetti delle sue opere anche nelle dominanti dei
colori. Le tonalità sono calde e vellutate: gli ocra, le terre; le
forme appaiono quasi evocate da un fondo bruno, come avvolte
nell'ombra e la loro presenza è suggerita dalla luce; c'è quasi un
senso di non-finito o, all'opposto, di consunta corrosione: una
sensibilità che il pittore derivava certamente dall'affresco
etrusco, studiato e riprodotto tante volte. Nel corso degli anni si
avverte una maturazione e un affinamento della tecnica, evidente
nella resa sempre più accurata delle materie, in particolare degli
incarnati. Si può cogliere una tendenza progressiva ad una
essenzialità minimalista: il colore, applicato quanto basta, viene
tirato al massimo fino a scoprire la trama della tela, che, scurita
con mordente, entra a pieno diritto nella composizione pittorica.
Così il pittore descriveva la sua tecnica:
La stecca è una lamina di acciaio, leggermente flessibile, delle
dimensioni di cm. 5x12. L'idea di sfruttare questa lamina per la
pittura mi venne osservando un operaio intento a stuccare una
parete. Compresi subito che per vie verticali e orizzontali, avrei
avuto la possibilità di realizzare una pittura gestuale, non a
mettere, come normalmente avviene con la spatola, ma, premendo il
colore tramite la stecca, sulla superficie da ricoprire, a levare.
Avevo necessità di un impasto denso e l'ottenni rafforzando il
colore bianco ad olio con un ingrediente assorbente, Le tinte
risultarono vellutate e di gradevole effetto. Ottenni così una
pittura a stecca, decisa, che richiamava un po' l'affresco. Per un
paio d'anni, dal 1966, studiai le varie possibilità espressive che
l'uso di questo mezzo mi poteva dare. I lavori li realizzavo su
faesite ruvida; solo molto più tardi, allorché alleggerii la
pressione della mano, passai a stesure su tela. (…) Il pennello
dimenticato dalla stecca, una rivincita se la prende allorché si
tratta di porre il sigillo alla validità dell'opera: la firma.
Magra soddisfazione forse, ma anche per il pennello vale il detto:
"a questo mondo chi si contenta gode".[3] |
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Le
raccoglitrici di olive |
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Maternità |
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[1] E. Menghini, La pittura a stecca,
Antonio Lalli Editore, Firenze 1974.
[2] E. Menghini, La pittura a stecca, cit.
[3] E. Menghini, La pittura a stecca, cit. |
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