Tra i tanti problemi che assillano l’Italia quello dell’eccessivo
uso del contante sembra stare molto a cuore ai grandi giornali vista
la frequenza con cui escono articoli che ci colpevolizzano per
utilizzare troppo il vile denaro, la carta moneta e non, invece, le
nobili carte di credito e di debito. A leggere bene si capisce che
la questione sta molto più a cuore alle banche che non ai giornali,
ma vai a capire le dinamiche economiche e finanziarie che girano
intorno al binomio banche informazione e le motivazioni dei
finanziamenti (da parte delle banche) a un’editoria in agonia
disposta a tutto pur di non soccombere definitivamente.
Prendiamo spunto dal servizio
apparso su repubblica.it del 22 luglio 2015 a firma Giuliano
Balestrieri. Il primo dato ha del clamoroso: “In Italia l’85% delle
operazioni si svolgono in contanti e il costo per la gestione del
contante, secondo una stima di Bankitalia,
tra le indennità di cassa, i trasporti e la sicurezza costa circa 10
miliardi di euro: il 48% è in carico alle banche che a loro volta lo
riversano sui propri clienti”.
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Par di capire perciò che
la riduzione dell’uso del
contante favorirebbe quasi esclusivamente le banche che
avrebbero ridotte spese di gestione e guadagnerebbero profumatamente
dai pagamenti alternativi (carte di debito e di credito). Siamo così
fessi da credere che, ridotti così i costi e aumentati i guadagni,
le banche ridurrebbero gli attuali oneri della gestione del contante
a vantaggio dei clienti? Comunque siamo andati a vedere la citata
stima di Bankitalia (Il costo sociale dei pagamenti in Italia,
novembre 2012) e abbiamo verificato
che la spesa totale per la gestione del contante in Italia è pari a 8 e
non a 10 miliardi.
E’ curioso che Bankitalia definisca costo
sociale del contante una spesa che ricade su pochi soggetti forti
(banche, grande distribuzione e grandi aziende) ed ha una bassissima
incidenza sull’utente finale. Già, dimenticavamo, questi soggetti
scaricano questa spesa sul cliente senza che questo se ne accorga,
ecco la socialità del costo. E se il sistema cambia cosa succede?
Cambiare vuol dire pagare con bancomat e carte di credito, c’è
persino una legge che obbliga gli esercenti a tenere il POS e a
utilizzarlo su richiesta per pagamenti oltre i 30 euro. Purtroppo
(?) la legge non prevede sanzioni e molti esercenti si ostinano a nn
dotarsi di POS,
“risparmiando
in questo modo una cifra che oscilla tra i 25 e 180 euro annui per
l'installazione del Pos,
oltre ai costi variabili legati ai prezzi delle transazioni.” Il
distratto cronista dimentica il canone mensile del POS (da 20 a 40
euro) e evita di specificare che le commissioni sulle transazioni,
sempre a carico dell’esercente, specialmente con le carte di
credito, sono piuttosto alte (fino al 5% del transato). E’ evidente
che il costo dei pagamenti
elettronici ricadono quasi esclusivamente sugli esercenti grandi
e piccoli e in parte inferiore (per ora) sugli utilizzatori finali.
Il vero problema sembra essere quello dei 14
milioni di italiani che si ostinano, chissà perché, a non avere un
conto corrente bancario. Non sarà una questione di costi o una
scarsa fiducia (forse ben riposta) nelle banche? Comunque, secondo
l’estensore del citato articolo, non c’è da preoccuparsi:
“Circa
il 90% delle sim in circolazione è ricaricabile e gli italiani si
fidano del cellulare. D'altra parte il mercato già inizia a muoversi
in questa direzione da Apple Pay, a Vodafone e Tim che permettono di
pagare attraverso il proprio telefono (c’è da tremare al solo
pensiero! ndr). Ma con loro ci sono anche le start up come Payleven
che con un dispositivo ad hoc riescono a trasformare il telefono in
un Pos a tutti gli effetti, ma senza un canone d'affitto: Si paga
una piccola commissione per ogni transazione”.
Ah ecco, ora si è ricordato che esiste un canone per il POS. Per la
cronaca la piccola
commissione ammonta al 2,75% del transato…

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