Sono ormai anni che, al
fine di ricostruire la vicenda umana e artistica di
attori e compagnie ottocentesche, attraverso l’Italia da
nord a sud, scartabellando archivi polverosi e spesso
abbandonati.
Ogni volta, prima del mio arrivo, contatto archivisti o
bibliotecari, per chiarir loro lo scopo delle mie
ricerche e per avere le prime delucidazioni circa il
materiale archivistico conservato.
E ogni volta, nel momento in cui inizio a spiegar loro
il mio interesse per le compagnie girovaghe
tradizionali, mi sento porre la medesima domanda, quasi
come un monotono refrain: “Scusi, ma da dove arrivavano
tali compagnie?”. Prendendo poi spunto dal mio accento
toscano, aggiungono fiduciosi: “Dalla Toscana?”.
Di fronte a questa domanda tanto ingenua quanto, per
altro verso, lecita, scelgo solitamente la strategia del
silenzio, comprendendo quanto il mio interlocutore sia
del tutto a digiuno delle dinamiche proprie del teatro
italiano ottocentesco.
Rispetto ai vecchi attori italiani è del tutto inutile
chiedersi da dove arrivassero: il viaggio è la
condizione stessa della loro vicenda terrena, privo di
punti di partenza e punti d’arrivo. Quando ad Eleonora
Duse fu chiesto quale fosse il più bel paese da lei
visitato, senza incertezze rispose: la traversata.
Credo che questa risposta abbia bisogno di essere
ricompresa e inserita nel contesto in cui nacque e,
senza il quale, noi ci impediremmo di capire l’elemento
più distintivo del teatro all’antica italiano.
Il teatro all’antica italiano è un teatro nomade, una
realtà priva di radici da almeno tre punti di vista:
- spaziale
- contestuale
- temporale
SRADICAMENTO SPAZIALE
I vecchi attori italiani sono tutti inevitabilmente
girovaghi: essi non si mettono in viaggio per poi far
ritorno in una qualche patria, ma ogni piazza è per
loro, nel breve tempo in cui vi sostano (mai più di un
mese), la loro patria. E questo di generazione in
generazione, senza eccezioni: il loro è un nomadismo
ereditario ed è questo che li rende degli sradicati in
senso compiuto.
Il loro peregrinare non va confuso in nessun modo con
l’attuale idea di tourné: in tal caso ci troveremmo in
presenza di un partire per poi tornare in un luogo noto
e familiare.
I vecchi attori, invece, per secoli (dalla Commedia
dell’Arte fino al tramonto dei guitti a metà Novecento),
non hanno avuto né una casa, né un paese d’appartenenza,
né una pur piccola proprietà che potesse in qualche modo
ancorarli ad un territorio. Sono apolidi e
contemporaneamente cosmopoliti, protagonisti di un
andirivieni inarrestabile che li ha trascinati
attraverso l’intera penisola, da nord a sud, senza
alcuna limitazione regionale o dialettale: da Aosta a
Taranto, dalle città venete a quelle campane; dalle Alpi
allo Ionio, dal Tirreno all’Adriatico, dalle zone
montuose della dorsale appenninica, fino alle distese
della val Padana.
La loro arte non si è vergognata di frequentare i
teatri dell’Urbe così come i teatrini parrocchiali, i
piccoli centri rurali così come i teatri delle accademie
o le arene estive.
Gli attori “di giro” portano il nome di tutti i
battesimi: nascono dove l’arte, per una pura casualità,
li ha condotti, in una cittadina nella quale, se sono
fortunati, trascorreranno i primi dieci giorni di vita,
dopodiché saranno trasportati altrove. Spesso il paese
in cui hanno avuto i natali non lo ricordano affatto e
la memoria dei genitori può mostrare lacune e facili
confusioni. Quando il nome di un luogo non è altro che
un nome, privo di qualsiasi altro riferimento affettivo,
l’errore è inevitabile.
L’attore è un senza parrocchia, privo di una comunità
di appartenenza; non ha un paese in cui collezionare i
ricordi dell’infanzia, né una casa in cui nascere,
crescere e veder morire i propri cari.
É sempre il Caso, infatti, a decidere dove saranno
seppelliti i suoi morti, il più delle volte abbandonati
in cimiteri in cui, forse, nessuno potrà più fare
ritorno.
La morte degli artisti non ha rito, non esiste lutto,
non c’è tempo per piangere nè per convocare la comunità,
anche perché non esiste comunità intorno agli attori,
fatta eccezione degli attori stessi. La compagnia, anche
se privata di un proprio membro, deve presto salpare
verso nuovi porti: deve ripartire perché solo
ripartendo, può continuare a vivere. Lo spettacolo, ogni
sera e contro ogni avversità, deve continuare.
SRADICAMENTO CONTESTUALE
Ma il nomadismo dei vecchi attori italiani non è solo di
tipo spaziale, ma anche contestuale: ciascuno di loro
infatti, di anno in anno, cambia formazione artistica,
emigra da una compagnia all’altra, in un turbinio di
vite, persone, incontri e fughe che è veramente
spiazzante per chi sia abituato a pensare l’esistenza
come stanziale.
É con il primo giorno di Quaresima che aveva inizio
l’anno comico e in quel giorno centinaia di attori si
mettevano in viaggio per raggiungere in tempo la loro
nuova famiglia: un insieme di persone fino ad allora
semisconosciute ma che, da lì a poco, sarebbero divenute
compagne di successi e frustrazioni, di interminabili
nottate in trattoria, ma anche di fame, miserie e
fatica.
Nella nuova formazione, l’attore doveva essere pronto a
rivestire altri ruoli, a inscenare nuovi repertori, a
solcare le scene di teatri mai prima d’allora
conosciuti. Cambiando compagnia (e la cosa poteva
avvenire anche più volte all’anno), l’attore si
predisponeva a cambiare ritmi e gerarchie, ad
abbandonare qualunque punto di riferimento e a
sintonizzarsi su nuove frequenze. Per far questo serve
un’identità duttile, camaleontica e proteiforme, che
solo i “senza patria” possono avere.
SRADICAMENTO TEMPORALE
Alle due precedenti tipologie di sradicamento, ne va poi
aggiunta una terza: lo sradicamento temporale. Lì dove,
infatti, non c’è un qui di cui poter dire è mio – e sul
quale costruire la propria memoria in vista di un
progetto futuro – va a perdersi anche l’idea di un ora
che sia imbevuto di passato e proiettato nell’avvenire.
Il tempo dei comici è un eterno presente, privo di io
ricordo e di io sarò. L’attore non conosce altro che
l’attimo stesso in cui si trova a vivere.
Tutto il suo presente e il suo passato sono chiusi e
conservati all’interno di ingombranti bauli-armadio,
trascinati a fatica attraverso le stazioni ferroviarie
d’Italia, caricati e scaricati di continuo dai treni e,
di volta in volta, sistemati alla meglio nelle
inospitali camere d’affitto.
Nella vita degli attori non c’è spazio per conservare
cimeli in vista di un qualcuno che, in futuro, possa
goderne: il peso del passato è un peso troppo faticoso
da trascinare di mese in mese per l’Italia. Per loro ciò
che è importante conservare è lo stretto necessario per
sopravvivere un’altra giornata ancora.
“L’attore s’interessa sempre, soprattutto, di ciò che
riguarda la sua vita di un giorno. Il domani non conta,
quasi non esiste, occupato com’è a fabbricare con le
proprie mani la sua giornata… L’attore vive troppo
intensamente le sue ore per poter pensare ai giorni che
verranno e che dovrà vivere con uguale intensità. Le sue
gioie, come i dolori, nascono quasi improvvisamente,
occupano la sua vita per una sera, per una battaglia da
combattere, sia un successo come una sconfitta. Tutto
finisce quando cala il sipario e il pubblico sfolla la
sala del teatro.
E come altra gente ripopolerà la stessa sala la sera
dopo, così l’attore riapparirà ai lumi della ribalta
dove l’insuccesso di ieri può cambiarsi in rivincita; e
viceversa. Quanto tempo è passato perché il sipario si
rialzi e la finzione ricominci? Un giorno, esattamente,
da una sera all’altra, con la puntualità dell’orologio
che ritorna inevitabilmente sulla stessa ora ad ogni
giro delle sfere… E se tutte le sere l’attore deve
chiedere al suo cervello uno sforzo maggiore, come può
pensare alla sua vita di domani, alla vita materiale che
pure assilla da ogni parte con le sue miserie e le sue
brutture?” (Lucio Ridenti, Palcoscenico, Edizioni Atanor,
Todi, pgg. 115-116)
IL NOMADISMO E IL VALORE DELLA DIVERSITÀ
Ogni cultura, anche la più compatta e chiusa, ha
sentito, prima o poi, il bisogno di confrontarsi con la
diversità, con lo straniero, con colui che non parla la
sua lingua, non veste i suoi abiti, non condivide con
essa spazi, memorie e tradizioni. I vecchi attori
italiani, apolidi e cosmopoliti, sradicati e nomadi,
hanno rappresentato per secoli quella diversità che
desta meraviglia e ripulsa, che fa sognare un’epoca
nuova e apre nuovi orizzonti.
La dimensione del viaggio è legata da sempre
all’esperienza, nel suo doppio aspetto di esperienza
terribile e, insieme, paradisiaca. È Ulisse l’archetipo
del viaggiatore, di colui che vive più vite in una,
rapito talvolta in luoghi incantati, talaltra
imprigionato in spelonche terrificanti. Gli attori,
nelle loro vite errabonde, hanno in qualche modo
rivivificato la mitica figura di Ulisse.
Quando una compagnia di attori arriva in una piccola
comunità, è come se iniziasse a soffiare un’aria nuova,
a tratti quasi sovversiva. Il loro vivere è percepito
senza regole: gli uomini prima dello spettacolo si
truccano li occhi e le labbra e passano ore di fronte
allo specchio, vittime di una femminea vanità; talvolta
recitano addirittura en travesti con abiti femminili.
Le attrici di giorno osano frequentare i bar o le
trattorie, luoghi esclusivamente maschili, e alla sera
addirittura hanno la sfrontatezza di esibire il proprio
corpo e le proprie emozioni di fronte agli occhi
indiscreti di un pubblico maschile.
Gli attori dormono la mattina quando tutta la società
“normale” si sveglia per lavorare e li trovi invece
svegli nella notte, dopo lo spettacolo, radunati in
gruppo a mangiare e far baldoria. Mentre il “mondo dei
più” è sprofondato nel sonno e nelle paure di spettrali
presenze, gli attori vivono il meglio della loro
esistenza, tra un sipario che si apre e uno che si
chiude.
Gli attori girovaghi sono la condanna dei preti e gli
alleati più sicuri degli intellettuali; sono le vittime
designate della maldicenza delle beghine e il modello
che ispira tante giovani maestre. Racchiudono in sé il
fascino inoppugnabile del diverso, ma anche la sua
pericolosa ambiguità.
Sono la breccia nella “sfera compatta dell’identità”, la
maglia rotta nella rete dell’identico.
Ed è forse di questo che ha avuto paura la
contemporaneità, apparentemente tanto aperta al nuovo e
al diverso, ma poi spietata livellatrice di ogni
diversità.
La contemporaneità ha chiuso per sempre la lunga vicenda
degli attori girovaghi, costringendoli a stanziarsi in
una città e in un teatro.
Tragica scomparsa, non solo di un modo di far teatro, ma
ancor prima di un modo d’esistere che sapeva portare
capillarmente la rivoluzione in giro per il mondo, senza
ferro né fuoco.
*Mauro Ballerini, ricercatore e saggista, è docente
di Storia del Teatro |