La conservazione del toponimo di Vulci nel Medio Evo


 

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Parte Prima

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di Michele Cilla

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  Nel 1835 il Campanari, effettuando degli scavi archeologici sul pianoro a ridosso della riva destra del Fiora e non molto distante dal Ponte dell'Abbadia, rinvenne un'iscrizione recante una dedica all'imperatore Flavio Valerio Severo, l'iscrizione CIL XI 2928 dell'anno 306 d. C. (1) eseguita dall'ordo et populus Vulcentium, che definì topograficamente la connessione tra le rovine ivi affioranti ed il nome della città: Vulci.
  Fino ad allora dubbia era l'identificazione dei resti del sito con i toponimi delle città etrusche conosciute, ed accesa era la diatriba fra gli stu­diosi del settore, in quanto alcuni ritenevano che i ruderi si riferissero alla città di Vetulonia, e quindi posizionavano la città nel Grossetano in Toscana, mentre altri, riprendendo le scarne notizie su Vulci menzionate dagli autori antichi quali Tolomeo e Plinio il Vecchio, ne ipotizzavano l'ubicazione in una località tra Montalto e Canino denominata volgarmente Pian de' Voci. Inesistenti gli apporti delle fonti medievali presumendo che della città si fossero perse le tracce già nel periodo tardoantico.
  In tanta confusione ci fu anche chi avanzò l'inverosimile ipotesi che le testimonianze archeologi che "..presso il fiume Fiora, li quali diconsi essere dell'antichissima Città di Vulcia, eretta con le rovine di Vitulonia" (2) confondendo e travisando le poche notizie certe già acquisite.
D'altronde le fonti scritte relative alla città sono sporadiche e gli studi sulla toponomastica necessitano ancora di tempo, per le verifiche e gli ulteriori confronti derivanti dall'acquisizione delle nuove conoscenze, dato che i toponimi antichi e medievali si sono modificati ed evoluti in conseguenza delle innumerevoli trasformazioni susseguitesi sul territorio.
 




La Civita di Vulci vista dall'alto
 

  Con le invasioni barbariche la regione in questione, attraversata dalla via Aurelia, subì moltissime devastazioni che portarono allo spopolamento, ed in alcuni casi all'abbandono, dei numerosi centri rurali ed urbani sparsi nell'intorno, determinando una perdita materiale nella società ed affievolendo il lume della civiltà.
A questo caotico cambiamento la Chiesa cercò di opporre le sue forze. "Grazie alla Chiesa, alla lingua e alla superiorità delle istituzioni e del diritto, questa civiltà si impose ai suoi vincitori. E' vero che essa si degrada in mezzo ai disordini, all'insicurezza, alla miseria e all'anarchia che hanno accompagnato le invasioni, ma in questa degradazione conserva una fisionomia ancora nettamente romana." (3)
  In quest'ottica fondamentale fu l'opera di Gregorio Magno (590­604), che durante il suo pontificato tentò di arginare e modificare il nuovo assetto territoriale determinato dall'irruente invasione longobarda alla fine del VI secolo.


  Papa Gregorio si interessò di tutto, inviando disposizioni di ordine spirituale e non a vescovi e rappresentanti cittadini, fortunatamente scritte e tramandate nei secoli, e tra queste non manca la citazione alla città di Vulci, menzionata per un miracolo ivi avvenuto. Racconta San Gregorio che il suddiacono Quadragesimo, della Chiesa Vulcentina dalle parti dell'Aurelia, assistette in città al miracolo della resurrezione di un uomo morto, operato da un monaco dell'Argentario di ritorno dal pellegrinaggio alla basilica romana di San Pietro.  "Nostris modo temporibus quidam Quadragesimus nomine Baxen­tinae (ou Buxentina) ecclesiae sub diaconus fuit, qui ovium suarum gregem pascere in eiusdem Aureliae partibus solebat. " (4)
A lungo controversa è stata l'interpretazione di questo passo de I Dialoghi, con insigni studiosi quali il Duchesne, il Lanzoni ed altri che lo ricollegavano al sito di Visentium mentre alcuni, tra cui l'Ughelli, il Fiocchi Nicolai e De Vogue lo riferivano a Vulci. In base agli ultimi dati disponibili è certo che Gregorio Magno si riferisse alla Chiesa vulcentina.
  "Ritroviamo ancora il nome di Vulci in Stefano di Bisanzio (Ethnica, s.v. Olkion) che nel VI sec. d.C. ricorda il nostro centro e i suoi abitanti, rinviando ad un passo perduto di Polibio." (5) Dopo di che intensificandosi, durante il VIIVIII secolo, le scorrerie e la penetrazione longobarda nella Tuscia Romana si perdono, per un certo lasso di tempo, le notizie sull'abi­tato che andò spopolandosi in questo periodo, ma non scomparve ex abrupto in una data precisa.
 

  "Della persistenza di un insediamento abitativo in Vulci e zona circostante nell'alto medioevo è ulteriore documento il rilievo di IX secolo già menzionato, rinvenuto nella zona dell'Osteria, e l'esistenza, testimoniata dall'anno 809, di una chiesa, e poi di un monastero benedettino intitolato a S. Mamiliano, nell'area del Castello della Badia, nelle immediate vicinanze della città." (6) La documentazione è data dalla scoperta di un frammento marmoreo pertinente all'apparato decorativo di un edificio ecclesiastico, lavorato sulla faccia a vista con un motivo geometrico e l'inserimento di un braccio della croce al centro. (7)
 
Ancora una volta è la Chiesa, attraverso la consuetudine del controllo e amministrazione dei beni materiali, a documentare la presenza umana in un territorio che è stato fortemente antropizzato in antico, ma che si sta lentamente sfaldando, lasciando dietro di sé i resti di imponenti strutture architettoniche. Murature che a loro volta favoriscono il nascere di nuovi microtoponimi locali rapportati però all'importante centro di potere della zona: Tuscania.
È quanto risulta dalla donazione del chierico Faulo e del fratello Autario al prestigioso monastero di Farfa dell'anno 809, al tempo del pontefice Leone III (795-816). I due, residenti in un non localizzato abitato chiamato Mariliano o Muriliano, rientrante nella vasta circoscrizione tuscanese, donano ai Benedettini le proprie sostanze, cioè case e terreni coltivati e non, organizzati attorno ad una chiesa, dedicata a San Mamiliano.
 



Vulci, pianta della città
 
Articolo tratto dalla rivista Biblioteca e Società, edita dal Consorzio per la gestione delle Biblioteche di Viterbo, Anno XVII, N.3, 1988 - Si ringrazia il Presidente del Consorzio per l'autorizzazione alla pubblicazione.

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Note:
1 V. Campanari, Della statua vu1cente in bronzo rappresentante Minerva Ergane, in Dissertazioni della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, 9, 1840.
2 G. Calindri, Saggio statistico storico del Pontificio Stato, Perugia 1829, p. 314.
3 H. Pirenne, Le città del Medioevo, Roma 1997, p. 30.
4 A. de Vogue (a cura di), Gregoire Le Grand: Dialogues 11I, 17 in Sources Chretiennes, Paris 1979 , voI. Il n° 260, p. 336.
5 A.M. Sgubini Moretti, Vulci e il suo territorio, Roma 1993, p. 12.
6 V. Fiocchi Nicolai, I cimiteri paleocristiani nel Lazio. Etruria meridionale, Città del Vaticano 1988, p. 53.
7 J. Raspi Serra (a cura di), Corpus della scultura altomedioevale. Le diocesi dell'Alto Lazio, VIII Spoleto 1974.