Sarcofago da Musarna, Mfa Boston
Viterbo e
gli etruschi, un nodo da sciogliere o forse un libro ancora da
scrivere. Fate una prova: chiedete ad appassionai e studiosi di cose
antiche, a escursionisti esperti o semplici viaggiatori di indicare
le più importanti località etrusche; a nessuno, probabilmente, verrà
in mente di citare Viterbo. Eppure questa città non ha eguali in
Etruria per ricchezza di siti, antichità di insediamenti, tipologia
di necropoli e varietà di reperti.
Le
ragioni di questa amnesia storica e culturale sono diverse, non
ultima una politica turistica miope e di corto respiro che ha
preferito promuovere Viterbo nel circuito mediatico come “Città
medievale” o “Città dei Papi”, piuttosto che come città etrusca.
Oggi, all'estero, quando si parla di etruschi si pensa alla Toscana
e non a Viterbo e al viterbese, anche se il nostro patrimonio
archeologico è incomparabilmente più ricco. Altro motivo non
trascurabile è la stessa importanza in assoluto dei diversi siti
dislocati nel territorio viterbese, tale da imporre una loro
autonoma considerazione piuttosto che consentire la valorizzazione
del legame storico e culturale con la città. Per fare qualche nome:
Norchia, Castel d'Asso, Musarna, Acquarossa, Poggio Giudio.
Ma
veniamo a chi, invece, questo legame ha cercato di esaltare, anche
forzando un po’ la mano. Ci riferiamo al monaco domenicano Giovanni
Nanni, meglio conosciuto come Annio da Viterbo (1432-1502), storico
e archeologo tra i più illustri di questa terra, troppo
frettolosamente liquidato come falsario. Annio fu un collezionista
di etruscherie ante litteram, forse il primo della storia. Egli
riteneva, come in effetti oggi reputato, che le origini di Viterbo
fossero etrusche e che
alla città spettasse il primato tra tutte quelle dell’antica
Etruria. Il suo amore per Viterbo lo portò così a concepire teorie
generose sulle sue origini e a realizzare addirittura dei falsi per
supportare le sue tesi. Famosi in tal senso sono il cosiddetto
“Marmo Osiriano”, dedicato alle gesta dell’egizio Osiride, mitico
fondatore di Viterbo; nonché il “Decreto di Desiderio”, iscrizione
incisa su una lastra marmorea semicircolare attribuita da Annio al
re longobardo che avrebbe fortificato con mura l’originaria “tetrapoli”
etrusca chiamandola appunto Viterbo. Entrambi i reperti sono oggi
conservati presso il Museo Civico. Queste teorie, che a noi possono
anche apparire stravaganti, per tre secoli sono state al centro di
un acceso confronto tra gli eruditi e tale era la loro suggestione e
autorevolezza che la città, fiera delle proprie origini, nel 1588
volle fossero affrescate sulle pareti della Sala Regia del Palazzo
dei Priori, oggi sede dell’amministrazione comunale.
Viterbo
può anche vantare il primato di essere stata la prima città italiana
ad aver allestito una raccolta di antichità etrusche, un vero e
proprio piccolo museo, in quello che oggi è il palazzo della
prefettura. E’ qui infatti che nel 1494 (oltre mezzo millennio fa!)
vennero collocati i sarcofagi che Frate Annio aveva scoperto in
località Cipollara (al confine tra Viterbo e Tuscania) e “benedetti”
da papa Alessandro VI, presente all’apertura della tomba. Si tratta
di quattro sarcofagi con coperchio figurato e iscrizioni che
destarono grande ammirazione tra gli eruditi, ma di cui oggi si è
persa ogni traccia. Per una singolare coincidenza, due secoli dopo,
nel 1694, sempre in località Cipollara e alla presenza di un futuro
papa, Innocenzo XIII, una nuova scoperta riaccese gli animi: venne
infatti riportata alla luce una tomba a camera con il suo integro
corredo di sarcofagi figurati e iscrizioni, vasi, cippi ed altri
reperti.
La
raccolta di antichità etrusche che così si andava formando,
arricchita da donazioni private e reperti provenienti da nuovi
scavi, col tempo confluì nell’attuale Palazzo dei Priori, dove nel
1821 trovò sede il Museo e Gabinetto Accademico, vera e propria
raccolta museale pubblica. Dopo complesse vicende che portarono alla
parziale spoliazione delle collezioni di antichità, nel 1881 nacque,
sempre nel Palazzo dei Priori, il Museo Municipale che nel 1912
trovò finalmente la sua nuova sede presso la Chiesa di Santa Maria
della Verità. Qui le
raccolte di antichità, incrementate dagli scavi nel frattempo
effettuati e arricchite dalla collezione Rossi Danielli, donata dal
famoso archeologo viterbese, costituirono il rinnovato Museo Civico.
A seguito dei bombardamenti alleati del secondo conflitto mondiale
che arrecarono gravi danni al complesso delle collezioni, il museo
trovò la sua definitiva sede nei nuovi spazi di chiostro e convento,
adiacenti alla chiesa. Il museo poté così essere inaugurato il 3
settembre del 1955.
Una
storia così antica e complessa merita senz'altro maggiore attenzione
di quanta, ad oggi, le sia stata tributata da cattedratici e
studiosi. Non solo, la “distrazione” storica ha fatto si che i
principali reperti provenienti da Viterbo abbiano subito una sorta
di diaspora (destino comune ad altri centri etruschi) che ne rende
problematica una precisa indagine e configurazione storica.
Prendiamo ad es. il pezzo più famoso in assoluto, il “galletto”
alfabetario in bucchero conservato al Metropolitan Museum di New
York. Si tratta con tutta probabilità di un calamaio, come dimostra
la cresta-tappo asportabile per consentire di riempire il piccolo
vaso con inchiostro. Risale alla seconda metà del VII secolo a.C. ed
è universalmente conosciuto da studiosi e appassionati, appunto,
come il “Galletto di Viterbo”. Nulla tuttavia sappiamo sulle
circostanze del suo ritrovamento: il luogo preciso, il tempo, il suo
trasferimento oltreoceano. L'interesse del reperto è notoriamente
dato da una iscrizione destrorsa graffita sulla pancia del vasetto e
riproducente l'alfabeto etrusco arcaico, di chiara derivazione
greca, con le originarie 26 lettere in uso presso le colonie
euboiche della Campania. E' assai ben conservato ma risulta mancante
della coda, su cui probabilmente poggiava a mò di terzo piede. La
presenza di un anello sul dorso del reperto e di fori sul collo e
sulla cresta fa presumere l'uso di un cordoncino per il trasporto e
per sorreggere il tappo.
Restando
negli States, nel Museum of Fine Arts di Boston troviamo un altro
reperto viterbese di
elevatissimo pregio: si tratta di una grande kylix a figure rosse
degli inizi del V sec. a.C. firmata da Eufronio, il più celebrato
ceramista dell'antichità ed anche il più quotato sul florido mercato
clandestino. Decorata da un allievo del maestro, il pittore ateniese
Onesimos, ha un diametro di quasi 40 centimetri e nel suo interno
sono raffigurati due danzatori nudi: uno suona il flauto doppio,
l'altro accompagna le sue evoluzioni con un lungo bastone da
passeggio. Sul margine del cerchio troviamo la firma dell'autore (EUPHRONIOS
EPOIESEN) e la consueta dedica “Il bel fanciullo” (KALOS HO PAIS).
La decorazione esterna riporta una processione (KOMOS) di undici
uomini ebbri e l'iscrizione “Panaitios è bello” (PANAITIOS KALOS).
Il reperto sarebbe stato rinvenuto in data imprecisata da tal Pietro
Saveri in un suo fondo a circa tre miglia da Viterbo. Nello stesso
museo troviamo un sarcofago di non eccezionale pregio artistico
proveniente da Musarna: è datato
al II secolo a.C. e sul coperchio è rappresentato un uomo
recumbente con patera. A
proposito di Musarna c'è da rilevare una vera e propria dispersione
di sarcofagi avvenuta in questo sito già a fine ottocento: tutti i
sedici sarcofagi scoperti nel 1898 in uno scavo occasionale finirono
infatti oltreoceano. Di
questi una metà si trovano tutt'oggi nei depositi dell'università
californiana di Berkeley; altri cinque nel campus universitario di
Filadelfia ed uno nel museo della città; uno a Boston. L'ultimo
sarcofago di questa serie merita una considerazione a parte per la
sua insolita vicenda: già conservato presso l'Università di Harvard,
è stato ricomprato nel 1997 dal Comune di Viterbo a beneficio delle
dotazioni del Museo Civico. Reperti provenienti da Musarna sono
segnalati anche nei musei di Toronto, San Pietroburgo e in Vaticano.
Sul
vecchio continente facciamo scalo al British Museum di Londra: qui è
conservato un bronzetto alto dieci centimetri raffigurante un
guerriero con un grande elmo crestato acquisito nel 1824 alle
collezioni museali e qualificato nei cataloghi come proveniente da
“Viterbo città” (Viterbo town). Sempre al British recensiamo un
disegno a matita lumeggiato a biacca firmato dal viaggiatore inglese
Samuel James Ainsley e raffigurante la
metà sinistra di un frontone rupestre con rilievi di guerrieri in
tenuta da combattimento, alcuni dei quali soccorrono un compagno
ferito. E' datato “Viterbo. Nov 1846” e
riproduce, con ogni evidenza, la parte oggi mancante del frontone
delle tombe doriche di Norchia, al presente esposta nel Museo
Archeologico Nazionale di Firenze, ma allora evidentemente ancora in
situ, tanto che l'autore poté copiarla.
Proveniente da Castel d'Asso troviamo a Copenaghen un'anfora attica
a figure nere di età arcaica del pittore di Antimenes, attivo ad
Atene nell'ultimo quarto del VI secolo a.C.: ha il corpo in vernice
nera e il collo decorato con tralci d'uva, satiri danzanti e motivi
geometrici. Un gruppo di ceramiche sono infine pervenute, sempre da
Castel d'Asso, nelle collezioni del Royal Ontario Museum di Toronto.
Tutte
le immagini sono tratte dai siti ufficiali dei rispettivi musei
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Il Galletto del Metropolitan Museum di New York
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Disegno di frontone di
tomba dorica, British Museum |
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Kylix di Eufronio,
esterno, MFA Boston |
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Kylix di Eufronio,
interno, MFA Boston |
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Statuina di guerriero in
bronzo, British Museum |
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