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Locandina, Compagnia Cola, serata a
beneficio del primo attore, Fano 1889 |
E sto parlando della ben nota compagnia [Antonio] Buzzi-Seraffini [Giovanni]. Il repertorio, senza dubbio, è popolare, piuttosto semplice e accattivante, ma il pubblico ricambia gli attori con grande favore e un incondizionato consenso, specie il Cola quando interpreta i suoi cavalli di battaglia Il romanzo di un giovane povero di Octave Feuillet e Ferreol di Victorien Sardou. Eppure non sono passati che pochi mesi quando iniziano a circolare notizie sconsolanti sul conto degli incassi della compagnia. Chiacchiere pettegole forse, ma sta di fatto che Cola, nel mese di giugno, lascia anche questa formazione e il suo addio è tutt’altro che pacifico. Il nostro Cola e Buzzi, infatti, intraprendono una lunga guerra a distanza tra le pagine de «L’Arte Drammatica» e «Il Piccolo Faust». Buzzi, da parte sua, non sembra aver gradito la scelta di Cola di rompere la scrittura e fa esplicita allusione a motivazioni tutt’altro che nobili. Cola, da parte sua, assicura invece che tutto è avvenuto in pieno accordo. Ma è proprio tutta questa sua bonarietà a rendere la questione quanto mai sospetta.
Che avesse ragione l’uno o l’altro dei due contendenti poco conta: fatto sta che quell’estate 1888 Cola è a riposo a Firenze, in comoda inattività.
Con il ritorno dell’autunno, si rinnova per Cola la ricerca di una compagnia pronta ad accoglierlo: ma questa volta è lui a formarne una tutta sua, amministrata dal vecchio Eugenio Casilini e nel ruolo di prima attrice la rinomata e affascinante Isolina Piamonti, astro luminoso del teatro italiano che in questi anni vive forse una fase di leggero oscuramento. Fatto sta che la formazione è quanto mai valida e in cartellone compaiono i nomi degli autori più celebri del teatro ottocentesco: Eugène Scribe, Victorien Sardou, Adolphe-Philippe Dennery, Alexandre Bisson, Alexandre Dumas figlio, Riccardo di Castelvecchio, Giuseppe Giacosa, Georges Onhet, Octave Feuillet. Eppure, nonostante il successo e la bella presenza della Piamonti, anche questa compagnia non arriverà al termine dell’anno comico 1889.
L’anno 1890 rappresenta nella carriera del nostro Cola un intermezzo alquanto interessante. Egli, infatti, ormai quarantenne, accetta di rientrare in una compagnia primaria (quella di Pietriboni), con il suo vecchio ruolo di primo attor giovane. La cosa, che a noi sembra quanto mai inverosimile data l’età del Cola, nel teatro ottocentesco è invece assolutamente normale e accettata: non era infrequente all’epoca vedere sulla scena vecchie attrici attempate e corpulente interpretare il ruolo fresco e leggiadro di una Giulietta. In teatro tutto è concesso e la sua magia non può certo essere offuscata dall’età anagrafica degli attori.
Questo ritorno alle compagnie “primarie”, è per Cola una delusione bruciante, la conferma che la sua dignità di figlio d’arte non può più accettare quel ruolo di eterno “immaturo”, quasi che per lui non fosse previsto l’ingresso nel mondo adulto dei primi attori. Per il teatro “alto”, Cola è rimasto come congelato nel suo primo ruolo: i dieci anni che lo separano dal suo esordio non sembrano essere passati e, per tutti i suoi colleghi illustri, Cola è e resterà sempre un primo attor giovane, condannato ad essere eternamente “secondo” nella lista degli artisti e raramente degno di serate in suo onore.
Ecco allora che, terminato il contratto con Pietriboni, Cola decide di ritornare, con una ancor più salda convinzione, alle sue compagnie “secondarie”: in esse forse avrebbe acquistato un nome meno duraturo, ma ogni sera avrebbe potuto ricevere il suo applauso, suo e di nessun altro, che è poi la vera ragione di vita per tutti quegli artisti che nella loro esistenza non hanno mai visto e vissuto altro che “teatro”. Se non si entra in quest’ottica mista d’orgoglio e di vanità, non si potrà mai comprendere a pieno il “cuore” pulsante del teatro ottocentesco.
I dieci anni successivi, quelli che lo traghetteranno verso il nuovo secolo, lo vedranno di volta in volta al fianco delle prime attrici Maria Barac, Pia Pezzini, Lina Diligenti, Emanuela di Roverbella, Luigia Lambertini, ma soprattutto, dopo anni di lontananza e separazione, al fianco di sua madre Carlotta e – presenza quanto mai inattesa – di sua moglie Pia. Il clan famigliare si è finalmente ricreato e la ricca moglie ebrea si è trasformata in teatrante girovaga.
Cola, in questi dieci anni, va formando compagnie in società con alcuni noti artisti dell’epoca (Angelo De Farro, Napoleone Mozzidolfi, Lina Diligenti, Giuseppe Sequi, i fratelli Lambertini) e in tutte quante le formazioni risulta sempre primo attore, interprete quanto mai apprezzato di drammoni strappalacrime, con battute altisonanti, lunghe tirate retoriche e melodrammatiche. È ormai divenuto il rappresentante più illustre di un teatro “vecchia maniera”, snobbato dai critici contemporanei, ma sempre adorato dal pubblico di ogni dove. Cola ha fatto una scelta di stile e insieme di “cassetta”: il suo repertorio è una fonte inesauribile di guadagni e consensi. Nelle città nelle quali arriva, riceve gratuitamente alloggi in ville comode e prestigiose; gli impresari teatrali sanno di garantirsi con la sua presenza incassi sicuri e un pubblico soddisfatto. Cola è una macchina che produce denaro e fortuna, per sé, i suoi attori e tutto il “sistema teatro”.
Ma ogni scelta ha un costo e così quando nel 1897 l’illustre Rasi inizierà a pubblicare le sue biografie, arrivato a parlare di Cola, esprimerà una lapidaria condanna che non ammette repliche né attenuanti: «si fece poi conduttore di compagnie di terz’ordine, recitandovi mediocremente le grandi parti di primo attore. » (Luigi Rasi, I Comici Italiani, Firenze, Fratelli Bocca-Lumachi, 1897-1905, vol. I, pag. 673) Ma il giudizio del Rasi è il giudizio di chi ha un’idea molto personale sul teatro, sulla recitazione e sul tipo di repertorio. La sua divisione tra compagnie “primarie” e “terziarie” non sembra tenere in minimo conto che è proprio grazie a quelle compagnie da lui giudicate “minori” che la “cultura alta” riusciva a filtrare nelle cittadine di provincia, raggiungendo pubblici variegati, talvolta incolti, ed era capace di creare suggestioni e fantasie sconosciute, fino a raggiungere zone inesplorate dell’animo umano.
A smentire il giudizio severo e lapidario del Rasi, potrebbero essere citate decine e decine
di recensioni che tessono elogi puntuali e pregnanti sullo stile elegante, curato e inconfondibile del Cola. Mi limiterò qui a riportare quello uscito sul quotidiano “Interessi cremonesi” il primo aprile 1895, che commenta la beneficiata con l’Amleto di Shakespeare:
“Carlo Cola dette dell’Amleto un’interpretazione di certo assai originale. E questa originalità, ancora quando in certi punti possa prestar fianco alla critica, è pur sempre merito grande d’un artista. Carlo Cola ha saputo anzitutto misurare la potenzialità dei suoi mezzi vocali, colla faticosa parte della tragedia – epperò riuscì misurato, non urlò mai, anzi, meglio detto, non gridò mai. Badi l’attore che negli interpreti dell’Amleto questo non sempre mi è riuscito di notare. Non parlo del gestire e del muoversi. Il Cola è di una scuola che non si smentisce per la sua correttezza. – Ed anche venerdì a sera lo ad dimostrò splendidamente. Per quanto poi concerne l’originalità dell’interpretazione del carattere, l’Amleto reso dal Cola fu un Amleto vivacissimo, dalla parola irruente le une volte, a scatti le altre, dal passaggio facilissimo dalla più intensa malinconia ad una finta giocondità e gaiezza. Di ragione, pei contrasti, l’effetto sul pubblico non poteva mancare e non mancò, e gli applausi ripetuti e le molte chiamate all’attore, ne sono la più bella prova”
Con l’inizio del nuovo secolo la carriera di Cola subisce un rallentamento drastico e repentino: il suo nome scende di colpo al quarto (quinto) posto in compagnie che non portano più il suo nome: per anni comparirà – quasi nascosto – nella compagnia Renzi-Gabrielli: vi resterà fino a sei mesi prima della sua scomparsa. Sua madre intanto è morta e sua moglie Pia, stanca dell’eterno girovagare degli attori, si è fermata a Firenze.
In una sua lettera del 1904, indirizzata proprio al Rasi (Lettera inviata da Napoli il 7 gennaio 1904, Fondo Rasi, Sezione Autografi, Biblioteca Teatrale del Burcardo), Cola si rivela stanco, ormai svuotato di energie e desideroso solo di tornare definitivamente a Firenze, al fianco di sua moglie. Come privato di ogni dignità, si dice pronto ad accettare anche un ruolo subalterno nella Scuola di Recitazione del Rasi: non chiede molto per sé e supplica l’illustre collega di concederglielo. È davvero irriconoscibile, sembra come invecchiato di colpo, quasi che il nuovo secolo lo abbia reso all’improvviso una creatura anacronistica, un estraneo al suo stesso ambiente. Si percepisce come un escluso, un sopravvissuto.
Cola muore nel febbraio 1911 a Firenze, in via Faenza 53a, a soli sessant’anni. Il suo corpo viene sepolto nel cimitero di Trespiano, non lontano da quello della madre e del padre. L’intero mondo teatrale diserta i suoi funerali. Per lui non sono spese né parole di commiato, né innalzate lapidi commemorative. Tutti lo hanno già dimenticato da anni. Eppure Cola, per tutta la sua vita, non ha conosciuto altro che teatri e teatranti, e copioni e sipari, fischi e applausi, in un grande gioco che imita, nasconde e sublima la realtà. Ma l’arte ha la memoria breve ed è talvolta madre crudele con i suoi stessi figli.
Sfogliando le pagine de «La Scena di Prosa», nella quarta settimana del mese di febbraio 1911, su un minuscolo trafiletto quasi invisibile, si leggono queste uniche parole sulla sua scomparsa: “morte di un vecchio attore. Ricevo da Firenze la notizia che dopo lunga e penosa malattia è morto l’attore Carlo Cola.” Altro non viene aggiunto. Un’intera esistenza spesa per l’arte, trova in queste due righe il proprio triste suggello. |