CARLO COLA

UN DIVO DIMENTICATO DELL'OTTOCENTO


 

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di Mauro Ballerini

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Chiunque possedesse materiale d’archivio riguardante l’attore Carlo Cola (locandine/manifesti/lettere/fotografie), è pregato di contattarmi, così che nulla di lui vada perduto e il tutto confluisca in un’unica grande raccolta. Ringrazio anticipatamente quanti vorranno aiutarmi.

 

Ritratto di Carlo Cola

 


Milano, Locandina della beneficiata di Cola, 1881

 

BIOGRAFIA

Carlo Cola nasce a Crema nel 1850 da Nicola Cola e Carlotta Feoli, un ex suggeritore il padre e un’attrice di antica tradizione la madre. Carlo, come ogni altro figlio d’arte, cresce tra copioni, parrucche, ceroni e tavole di palcoscenico. I profumi della sua infanzia sono l’odore di polvere e di cipria e i colori il rosso vellutato dei sipari e l’oro scintillante delle armi da scena. Il suo destino sembra insomma già scritto: l’arte comica sarà l’Alfa e l’Omega della sua esistenza, non un semplice mestiere, ma un modo di essere e di vivere.

 Difficile è ricostruire i suoi esordi artistici, dispersi come sono in teatrini di provincia di un’Italia pre-unitaria che ancora non ha imparato ad apprezzare a pieno il teatro di prosa. Certamente è facile ipotizzare che abbia fatto conoscenza col pubblico quando era poco più che un infante, interpretando quelle minuscole particine ingenue che tanto piacevano al pubblico e ne attiravano gli applausi. Più sicura è invece la notizia che, giovane adolescente, sia stato utilizzato da suo padre nel ruolo di brillante nelle compagnie che questi andava via via formando in società (Luigi Rasi, I Comici Italiani, Firenze, Fratelli Bocca-Lumachi, 1897-1905, vol. I, pag.672). Una carriera insomma, la sua, che segue perfettamente il classico cursus honorum dei giovani rampolli delle dinastie comiche.

 Il “divorzio” artistico tra Carlo e i suoi genitori si consuma però rapidamente: nel dicembre 1871, nei primi numeri de «L’Arte Drammatica», Cola, che a quest’epoca è poco più che ventenne, risulta già Capocomico di una sua personale compagnia.  Di questa vengono riportate due tappe soltanto: Trecenta e Ponte Lagoscuro (provincia veneta). Dalla Quaresima dell’anno successivo, si perde però ogni traccia della compagnia.

 Cola ricompare sulle pagine de L’«Arte Drammatica» solo l’anno 1873, scritturato nella compagnia Bergonzoni, nella sezione di prosa, nel ruolo di amoroso. Nello stesso periodo sua madre è prima attrice nella compagnia Etrusco-Lombarda, diretta da Baldassarre Serandrei. È evidente che le loro carriere sono ormai nettamente separate: Carlo sembra voler “navigare” da solo, lungo rotte inesplorate. Non vuole rimanere nella gestione famigliare della compagnia paterna. Forse si sente chiamato ad altro, a un destino forse più luminoso.

Dal 1873 al 1875, scompare da ogni cronaca teatrale, ma nell’anno comico 1876 risulta scritturato come primo amoroso nella compagnia condotta da Alessandro Monti. Di lui i critici tessono i maggiori elogi e ne profetizzano una carriera lunga e ricca di successi. Con la compagnia Monti, Cola fa esperienza nelle maggiori “piazze” italiane e le più note città del nord Italia: Genova, Bologna, Livorno… La provincia per lui è ormai alle spalle, lontana, dimenticata.

Nella Quaresima 1877, avviene quel salto qualitativo che consacrerà Carlo Cola come uno dei più rinomati attori giovani del teatro di fine Ottocento. A cominciare dal marzo 1877, infatti, entra scritturato nella compagnia Bellotti-Bon N 2, una delle più attive e amate del periodo. La sua permanenza in tale compagnia continuerà ininterrotta fino al 1882: cinque lunghi anni, nei quali certamente Cola va affinando la sua arte recitativa, imparando a conoscere i grandi pubblici cittadini, gli umori degli autori, le ovazioni deliranti del pubblico verso i primi attori e le prime attrici.

 

Quando Colomberti scrive la sua opera biografica sui più illustri comici italiani, non ha dubbi nel tessere elogi circa le qualità del Cola: «bella figura, ottima voce, non poca intelligenza, sono i pregi che lo distinguono» e  senza reticenze lo reputa un astro nascente della prosa italiana: «s’egli seguiterà indefessamente a studiare ben presto potrà essere annoverato fra i migliori Primi Attori Giovani» (Antonio Colomberti, Notizie storiche dei più distinti comici e comiche che illustrarono le scene italiane dal 1780 al 1880, Bologna 1881, Manoscritto, Biblioteca Teatrale del Burcardo).

È evidente che in quest’epoca Cola è poco più che un esordiente, ma in lui tutto sembra far presagire sorti gloriose.

 

Nei cinque anni con la Bellotti-Bon N 2, Cola si troverà ad affiancare attori del calibro di Pia Marchi, Virginia Marini, Giovanni Ceresa, Francesco Pasta: le stelle più fulgide della scena drammatica sono al suo fianco, ad illuminarlo e conferirgli prestigio. Durante la sua permanenza nella compagnia, sarà di volta in volta diretto da Luigi Bellotti-Bon, Giovan Battista Marini, Cesare Vitaliani: un’officina nella quale gli è data l’opportunità di apprendere ogni abilità tecnica e artistica. E Cola, di anno in anno, di spettacolo in spettacolo, non sembra mai deludere i propri ammiratori, specie quando interpreta Morto da Feltre nella Cecilia di Pietro Cossa: «recitò tal ruolo da non avere mai chi lo superasse» (Luigi Rasi, I Comici Italiani, Firenze, Fratelli Bocca-Lumachi, 1897-1905, vol. I, pag.673).

 

Tra il 1880 e il 1882, il suo nome varca addirittura i confini italiani, spingendosi fino al Portogallo, passando attraverso le grandi città della Spagna. La prima trasferta oltralpe durerà due mesi soltanto (novembre-dicembre 1880): al fianco della Marini e del Ceresa, Cola ottiene per una sua “beneficiata” barcellonese doni preziosi e applausi scroscianti. Ormai, senza dubbio, è un attor giovane che funzionerebbe egregiamente anche come primo attore.

Il secondo viaggio in terra di Spagna sarà invece ben più lungo (aprile-settembre 1882) e la Dea Bendata giocherà ora le sue carte favorendo non poco il nostro giovane attore. A causa di una improvvisa malattia del Ceresa, infatti, Cola si ritrova al fianco della Marini ad interpretare i ruoli del protagonista indiscusso. A guardarlo agire sulla scena non sembra lasciar dubbi: l’eredità del Ceresa per lui non è affatto pesante né scomoda. Anzi, Cola ne è a pieno titolo l’erede legittimo. Il pubblico ispanico affolla il teatro per rendergli onore e il successo è clamoroso. Barcellona, Madrid, Lisbona, poi di nuovo Barcellona: ovunque arrivi, il pubblico lo omaggia con spille d’oro, bottoniere con brillanti, medaglioni di enorme valore. I commentatori nostrani, nonostante una non celata meraviglia, individuano in lui un pezzo da novanta, utile per gli incassi e soprattutto per il consenso del pubblico e in special modo… di quello femminile.

 

Cola infatti ha un enorme pregio: piace.

Piace per la sua fisicità elegante e leggermente effeminata, che lo distingue dagli attori suoi contemporanei più massicci e grossolani. A ben guardarlo è un perfetto Dandy, un eroe decadente, languido e leggermente ambiguo. La cosa non dovette passare inosservata neppure ai commentatori dell’epoca se, negli «Intermezzi Drammatici» del 1882, leggiamo: «lisciato, profumato, impomatato; la sua testa porta sempre l’impronta del parrucchiere. – Non l’ho mai visto in disordine. Quando si pensa a lui non si può [fare] a meno di riflettere: ecco uno che non deve prendere mai moglie; – gli piacciono troppo quelle… degli altri» (Luigi della Scorziana, Intermezzi Drammatici, Milano, Gattinoni 1882, pag.76)

 

 

Eppure Cola, proprio nello stesso 1882, convolerà a nozze con la signorina Pia Levi, triestina e di lui più giovane di ben dieci anni. Il matrimonio viene celebrato a Trieste, nel mese di novembre. La sposa non è figlia d’arte, né attrice: è completamente estranea al mondo teatrale e proviene da una ricca famiglia ebrea. È difficile dire se il loro sia stato un matrimonio d’amore, ma certo è che, l’anno precedente, quando sulle pagine de «L’Arte Drammatica» era apparsa la notizia del loro fidanzamento, i più malevoli commentatori avevano subito sottolineato l’ottimo affare concluso dal Cola nel prendersi la “doviziosa” signorina Levi. Cola non replicò a tali maldicenze, ma da parte sua promise che, mai e poi mai, sua moglie avrebbe calcato le scene. Nell’800 attori o lo si nasce oppure è bene evitare di divenirlo, pena il dover subire un troppo duro giudizio sociale.

 

Non è affatto chiaro il motivo per cui Cola abbia d’un tratto deciso di abbandonare la Bellotti-Bon N 2: da alcune indiscrezioni si potrebbe supporre che questi avesse intrattenuto legami “troppo amichevoli” con la signora Marini, moglie del Direttore Giovan Battista: è evidente che, se così fosse, la sua presenza in compagnia era divenuta quanto mai inopportuna. Oppure – altra ipotesi – si può attribuire la decisione a motivi più nobili, forse ad attriti artistici tra il Cola e il suo Capocomico, attriti dovuti al carattere fin troppo irascibile e litigioso del nostro giovane attore. A conferma di ciò, si racconta che, tornato dalla Spagna ricco di successi, Cola senza troppi scrupoli avesse restituito tutte le parti di non sua spettanza al Capocomico, rifiutandosi così di interpretare le parti di primo attore. È difficile però capire le motivazioni reali di una sì grave rottura artistica: sta di fatto che questa avvenne e nell’anno successivo Cola risulta già scritturato al fianco di un altro mostro sacro del nostro teatro ottocentesco: il venerando Commendatore Alamanno Morelli.

 

La sua permanenza in compagnia Morelli non durerà che un anno soltanto:  scritturato ancora una volta come primo attor giovane,  Cola viene elogiato ovunque come artista contenuto e “vero” che sa rendere simpatici anche quei personaggi più sdolcinati e smielati. Con Morelli, Cola approderà, per la prima e unica volta in tutta la sua lunga carriera, alle città del sud Italia: Bari, Lecce, Catania, Noto, Siracusa… Ma dalle recensioni dell’epoca si ha come l’impressione che gli affari della compagnia non fossero poi troppo floridi: scritture con teatri non rispettate, corrispondenti locali che passano sotto silenzio le recite della compagnia… Insomma, complessivamente sembra gravare sulla compagnia un clima pesante e instabile, ed è forse questo il motivo che spinge Cola a lasciare anche Morelli per andare scritturato l’anno venturo – 1884 – con Giovanni Emanuel.

 

L’anno comico 1884 è per Cola un anno di svolta, un anno nel quale la Fortuna sembra girargli noncurante le spalle e modificare definitivamente la sua carriera.

La compagnia Emanuel, per ragioni oscure e inspiegabili, dopo soli due mesi dalla formazione, nel mese di maggio, sembra già ristagnare in una crisi così profonda e ingestibile da richiedere un intervento straordinario del suo Capocomico: con una decisione quanto mai insolita, Emanuel ha stabilito di mettere l’intera compagnia a mezza paga per i successivi quattro mesi estivi. La risoluzione crea evidente sconquasso tra gli attori: Cola, senza perder tempo e senza alcun ripensamento, decide di giocare da solo la propria partita e di non seguire la compagnia nei restanti mesi: cercherà da solo piazze secondarie che lo accolgano e gli diano di che vivere dignitosamente. Nel mese successivo, a giugno, in apparente pieno accordo con tutti i restanti attori, Emanuel è costretto a sciogliere definitivamente la compagnia fino al settembre venturo.

 

Quell’estate 1884, su Cola circolano tante e discordanti voci: se da una parte sembra ormai sicura la sua Società con la signora Zaira Pieri-Tiozzo per l’anno 1885, dall’altra si diffondono voci altrettanto certe sulla sua assunzione in compagnia Pietriboni. È l’inizio di un’oscillazione incerta e piena di colpi di scena che caratterizzerà l’intera vicenda artistica del Cola, sempre alla ricerca di nuove formazioni, litigioso con ogni suo collega e mai disposto ad accettare compromessi ed accordi.

 

Ed ecco sopraggiungere il tanto atteso mese di settembre: Cola, per rispetto dei patti contrattuali, risulta di nuovo attivo al fianco di Emanuel, ma l’accordo tra i due non deve essere stato troppo solido né durevole se Zacconi, Ermete Zacconi, in quest’epoca ancora attivo in formazioni poco più che “guitte”, viene contattato d’urgenza, con un telegramma, da Emanuel che lo invita a raggiungerlo «essendo Cola impazzito» (Ermete Zacconi, Ricordi e battaglie, Milano, Garzanti 1946, pag. 210). Questo telegramma, così asciutto e laconico, cambierà per sempre la vita e la carriera di Zacconi: chiamato infatti a colmare il vuoto lasciato da Cola “furente”, Zacconi avrà da questo momento in poi la straordinaria opportunità di farsi conoscere come una delle più grandi promesse del nostro teatro.

 

Ma torniamo al nostro Cola. Nello stesso periodo in cui Zacconi viene chiamato a sostituirlo, Cola cade vittima di una grave paralisi: siamo nel dicembre 1884 e lui ha soli 34 anni. Da questo momento in poi, per lui, nulla sarà più lo stesso. È certamente questo doloroso episodio che lo porterà a maturare nuove idee circa il suo ruolo, la sua carriera e la sua presenza sulle scene italiane. Una disperata discesa agli inferi che non lo avrà certo lasciato immutato.

 

È facile pensare che nei sei lunghi mesi di convalescenza, Cola abbia visto crollare di fronte a sé molte delle proprie certezze: non solo la scrittura nella prestigiosa compagnia Pietriboni, ma soprattutto la possibilità di svolgere ancora il ruolo del giovane innamorato, amato e desiderato. La sopravvenuta malattia lo costringeva a ripensare di colpo l’impostazione dell’intera sua esistenza. Ma oltre a questo, dobbiamo tener conto dell’indicibile angoscia che doveva pervadere gli attori nei periodi di inattività coatta: non lavorare equivaleva spesso a non sopravvivere, a ridursi ad una vita di stenti e di miserie, alla ricerca, nient’affatto dignitosa, di aiuti e sovvenzioni di amici. Ma Cola aveva come previsto tutto questo e si era ben premunito da tale sventurata necessità: da una parte le ricchezze della moglie e dall’altra la sua abilità di affarista lo avevano, almeno sotto l’aspetto economico, messo al riparo dalla rovina.

Nell’anno della sua convalescenza, infatti, Cola riuscì a vendere i diritti di un’opera teatrale da lui precedentemente commissionata e comperata, dal titolo Parigi a Vandea, dramma della rivoluzione del drammaturgo Pietro Calvi. Al teatro Manzoni di Roma, la suddetta opera riscosse un successo enorme e durevole, che la vide in cartellone per ben venti serate consecutive.

 

Fin dal suo primo ricomparire sulle scene, s’intuisce che in Cola è maturata ormai una decisione: mai più attor giovane e mai più attore di secondo piano, ma sempre e comunque primo attore indiscusso in compagnie da lui create e da lui gestite. E questa sua decisione risulterà irreversibile.

Siamo nel gennaio dell’anno 1886 e Cola è ora in società con Laura Tessero-Bozzo e suo marito Antonio. Solo dopo otto mesi di attività, la compagnia, finita l’estate, decide di non ricrearsi: i due coniugi Bozzo hanno infatti perso un figlio e tale sciagura impone loro di fermarsi. Cola in questo caso, unico caso, subisce un evento e una decisione a lui esterne e da lui indipendenti.

 

Fortuna vuole che, in quello stesso autunno 1886, a metà anno comico, Cola venga prelevato dalla compagnia Faleni, a ricoprire il ruolo di primo attore rimasto vacante. Da ora in avanti, assisteremo al suo continuo andirivieni da una compagnia all’altra, senza mai aver la capacità di creare un’equipe affiatata e con un suo personale progetto artistico. L’unica costante delle compagnie che Cola andrà formando – o alle quali aderirà – è il tipo di repertorio: un repertorio sempre “a base di dinamite”. Ed è questa forse la colpa che i critici più lungimiranti e “modernisti” dell’epoca non riuscirono proprio a perdonargli.

 

Mentre è attivo in compagnia Faleni, siamo nel 1887, Cola riceve dal Ministero della Pubblica Istruzione l’onorifico titolo di Cavaliere, titolo sul quale inizialmente Cola stesso sembra ironizzare (e con lui gran parte del mondo teatrale) ma che, subito dopo e per lunghi anni, andrà sbandierando con una certa qual fierezza, incidendolo a grandi caratteri su carta intestata, locandine e manifesti. Cola non ama i mezzi toni, né tanto meno il passare inosservato: tutto ciò che può esaltare la sua persona, lo accoglie con favore e un certo qual compiacimento. 

 

Non è trascorso neppure un anno, che Cola sembra esser sazio anche dell’esperienza con Faleni.  Nell’autunno del 1887, lo troviamo nel ruolo di Direttore Artistico – per la sezione di prosa – nella compagnia di Enrico Gallina, formazione italo-veneta, con doppio repertorio in doppio idioma. Questa strana commistione lascia molto perplessi sia i critici che il pubblico, e tale perplessità dovette essere condivisa molto probabilmente da Cola stesso se, nella Quaresima 1888, questi risulta già approdato sulle rive di tutt’altra compagnia.

 


Locandina Compagnia G. B. Marini, 1882

 

 

Locandina Compagnia A. Morelli, 1883

 


 

Locandina, Compagnia Cola, serata a beneficio del primo attore, Fano 1889
 

E sto parlando della ben nota compagnia [Antonio] Buzzi-Seraffini [Giovanni]. Il repertorio, senza dubbio, è popolare, piuttosto semplice e accattivante, ma il pubblico ricambia gli attori con grande favore e un incondizionato consenso, specie il Cola quando interpreta i suoi cavalli di battaglia Il romanzo di un giovane povero di Octave Feuillet e Ferreol di Victorien Sardou. Eppure non sono passati che pochi mesi quando iniziano a circolare notizie sconsolanti sul conto degli incassi della compagnia. Chiacchiere pettegole forse, ma sta di fatto che Cola, nel mese di giugno, lascia anche questa formazione e il suo addio è tutt’altro che pacifico. Il nostro Cola e Buzzi, infatti, intraprendono una lunga guerra a distanza tra le pagine de «L’Arte Drammatica» e «Il Piccolo Faust». Buzzi, da parte sua, non sembra aver gradito la scelta di Cola di rompere la scrittura e fa esplicita allusione a motivazioni tutt’altro che nobili. Cola, da parte sua, assicura invece che tutto è avvenuto in pieno accordo. Ma è proprio tutta questa sua bonarietà a rendere la questione quanto mai sospetta.

 

Che avesse ragione l’uno o l’altro dei due contendenti poco conta: fatto sta che quell’estate 1888 Cola è a riposo a Firenze, in comoda inattività.

 

Con il ritorno dell’autunno, si rinnova per Cola la ricerca di una compagnia pronta ad accoglierlo: ma questa volta è lui a formarne una tutta sua, amministrata dal vecchio Eugenio Casilini e nel ruolo di prima attrice la rinomata e affascinante Isolina Piamonti, astro luminoso del teatro italiano che in questi anni vive forse una fase di leggero oscuramento. Fatto sta che la formazione è quanto mai valida e in cartellone compaiono i nomi degli autori più celebri del teatro ottocentesco: Eugène Scribe, Victorien Sardou, Adolphe-Philippe Dennery, Alexandre Bisson, Alexandre Dumas figlio, Riccardo di Castelvecchio, Giuseppe Giacosa, Georges Onhet, Octave Feuillet.

Eppure, nonostante il successo e la bella presenza della Piamonti, anche questa compagnia non arriverà al termine dell’anno comico 1889.

 

L’anno 1890 rappresenta nella carriera del nostro Cola un intermezzo alquanto interessante. Egli, infatti, ormai quarantenne, accetta di rientrare in una compagnia primaria (quella di Pietriboni), con il suo vecchio ruolo di primo attor giovane. La cosa, che a noi sembra quanto mai inverosimile data l’età del Cola, nel teatro ottocentesco è invece assolutamente normale e accettata: non era infrequente all’epoca vedere sulla scena vecchie attrici attempate e corpulente interpretare il ruolo fresco e leggiadro di una Giulietta. In teatro tutto è concesso e la sua magia non può certo essere offuscata dall’età anagrafica degli attori.

 

Questo ritorno alle compagnie “primarie”, è per Cola una delusione bruciante, la conferma che la sua dignità di figlio d’arte non può più accettare quel ruolo di eterno “immaturo”, quasi che per lui non fosse previsto l’ingresso nel mondo adulto dei primi attori.

Per il teatro “alto”, Cola è  rimasto come congelato nel suo primo ruolo: i dieci anni che lo separano dal suo esordio non sembrano essere passati e, per tutti i suoi colleghi illustri, Cola è e resterà sempre un primo attor giovane, condannato ad essere eternamente “secondo” nella lista degli artisti e raramente degno di  serate in suo onore.

 

Ecco allora che, terminato il contratto con Pietriboni, Cola decide di ritornare, con una ancor più salda convinzione, alle sue compagnie “secondarie”: in esse forse avrebbe acquistato un nome meno duraturo, ma ogni sera avrebbe potuto ricevere il suo applauso, suo e di nessun altro, che è poi la vera ragione di vita per tutti quegli artisti che nella loro esistenza non hanno mai visto e vissuto altro che “teatro”. Se non si entra in quest’ottica mista d’orgoglio e di vanità, non si potrà mai comprendere a pieno il “cuore” pulsante del teatro ottocentesco.

 

I dieci anni successivi, quelli che lo traghetteranno verso il nuovo secolo, lo vedranno di volta in volta al fianco delle prime attrici Maria Barac, Pia Pezzini, Lina Diligenti, Emanuela di Roverbella, Luigia Lambertini, ma soprattutto, dopo anni di lontananza e separazione, al fianco di sua madre Carlotta e – presenza quanto mai inattesa – di sua moglie Pia. Il clan famigliare si è finalmente ricreato e la ricca moglie ebrea si è trasformata in teatrante girovaga.

 

Cola, in questi dieci anni, va formando compagnie in società con alcuni noti artisti dell’epoca (Angelo De Farro, Napoleone Mozzidolfi, Lina Diligenti, Giuseppe Sequi, i fratelli Lambertini) e in tutte quante le formazioni risulta sempre primo attore, interprete quanto mai apprezzato di drammoni strappalacrime, con battute altisonanti, lunghe tirate retoriche e melodrammatiche. È ormai divenuto il rappresentante più illustre di un teatro “vecchia maniera”, snobbato dai critici contemporanei, ma sempre adorato dal pubblico di ogni dove.

Cola ha fatto una scelta di stile e insieme di “cassetta”: il suo repertorio è una fonte inesauribile di guadagni e consensi. Nelle città nelle quali arriva, riceve gratuitamente alloggi in ville comode e prestigiose; gli impresari teatrali sanno di garantirsi con la sua presenza incassi sicuri e un pubblico soddisfatto. Cola è una macchina che produce denaro e fortuna, per sé, i suoi attori e tutto il “sistema teatro”.

 

Ma ogni scelta ha un costo e così quando nel 1897 l’illustre Rasi inizierà a pubblicare le sue biografie, arrivato a parlare di Cola, esprimerà una lapidaria condanna che non ammette repliche né attenuanti: «si fece poi conduttore di compagnie di terz’ordine, recitandovi mediocremente le grandi parti di primo attore. » (Luigi Rasi, I Comici Italiani, Firenze, Fratelli Bocca-Lumachi, 1897-1905, vol. I, pag. 673)

Ma il giudizio del Rasi è il giudizio di chi ha un’idea molto personale sul teatro, sulla recitazione e sul tipo di repertorio. La sua divisione tra compagnie “primarie” e “terziarie” non sembra tenere in minimo conto che è proprio grazie a quelle compagnie da lui giudicate “minori” che la “cultura alta” riusciva a filtrare nelle cittadine di provincia, raggiungendo pubblici variegati, talvolta incolti, ed era capace di creare suggestioni e fantasie sconosciute, fino a raggiungere zone inesplorate dell’animo umano.

 

A smentire il giudizio severo e lapidario del Rasi, potrebbero essere citate decine e decine

 

 

di recensioni che tessono elogi puntuali e pregnanti sullo stile elegante, curato e inconfondibile del Cola.

Mi limiterò qui a riportare quello uscito sul quotidiano “Interessi cremonesi” il primo aprile 1895, che commenta la beneficiata con l’Amleto di Shakespeare:

 

“Carlo Cola dette dell’Amleto un’interpretazione di certo assai originale.

E questa originalità, ancora quando in certi punti possa prestar fianco alla critica, è pur sempre merito grande d’un artista.

Carlo Cola ha saputo anzitutto misurare la potenzialità dei suoi mezzi vocali, colla faticosa parte della tragedia – epperò riuscì misurato, non urlò mai, anzi, meglio detto, non gridò mai. Badi l’attore che negli interpreti dell’Amleto questo non sempre mi è riuscito di notare.

Non parlo del gestire e del muoversi. Il Cola è di una scuola che non si smentisce per la sua correttezza. – Ed anche venerdì a sera lo ad dimostrò splendidamente.

Per quanto poi concerne l’originalità dell’interpretazione del carattere, l’Amleto reso dal Cola fu un Amleto vivacissimo, dalla parola irruente le une volte, a scatti le altre, dal passaggio facilissimo dalla più intensa malinconia ad una finta giocondità e gaiezza. Di ragione, pei contrasti, l’effetto sul pubblico non poteva mancare e non mancò, e gli applausi ripetuti e le molte chiamate all’attore, ne sono la più bella prova”

 

Con l’inizio del nuovo secolo la carriera di Cola subisce un rallentamento drastico e repentino: il suo nome scende di colpo al quarto (quinto) posto in compagnie che non portano più il suo nome: per anni comparirà – quasi nascosto – nella compagnia Renzi-Gabrielli: vi resterà fino a sei mesi prima della sua scomparsa.

Sua madre intanto è morta e sua moglie Pia, stanca dell’eterno girovagare degli attori, si è fermata a Firenze.

 

In una sua lettera del 1904, indirizzata proprio al Rasi (Lettera inviata da Napoli il 7 gennaio 1904, Fondo Rasi, Sezione Autografi, Biblioteca Teatrale del Burcardo), Cola si rivela stanco, ormai svuotato di energie e desideroso solo di tornare definitivamente a Firenze, al fianco di sua moglie. Come privato di ogni dignità, si dice pronto ad accettare anche un ruolo subalterno nella Scuola di Recitazione del Rasi: non chiede molto per sé e supplica l’illustre collega di concederglielo. È davvero irriconoscibile, sembra come invecchiato di colpo, quasi che il nuovo secolo lo abbia reso all’improvviso una creatura anacronistica, un estraneo al suo stesso ambiente. Si percepisce come un escluso, un sopravvissuto.

 

Cola muore nel febbraio 1911 a Firenze, in via Faenza 53a, a soli sessant’anni. Il suo corpo viene sepolto nel cimitero di Trespiano, non lontano da quello della madre e del padre.

L’intero mondo teatrale diserta i suoi funerali. Per lui non sono spese né parole di commiato, né innalzate lapidi commemorative. Tutti lo hanno già dimenticato da anni.

Eppure Cola, per tutta la sua vita, non ha conosciuto altro che teatri e teatranti, e copioni e sipari, fischi e applausi, in un grande gioco che imita, nasconde e sublima la realtà. Ma l’arte ha la memoria breve ed è talvolta madre crudele con i suoi stessi figli.

 

Sfogliando le pagine de «La Scena di Prosa», nella quarta settimana del mese di febbraio 1911, su un minuscolo trafiletto quasi invisibile, si leggono queste uniche parole sulla sua scomparsa: “morte di un vecchio attore. Ricevo da Firenze la notizia che dopo lunga e penosa malattia è morto l’attore Carlo Cola.

Altro non viene aggiunto. Un’intera esistenza spesa per l’arte, trova in queste due righe il proprio triste suggello.