Questo reportage è stato
interamente realizzato nella settimana in cui New York era investita – per la
gran parte dei media “devastata” – dall’uragano Sandy. Tutti abbiamo seguito in
diretta l’evolversi del minaccioso uragano che sembrava volersi mangiare la
Grande Mela; tutti abbiamo ammirato le gesta di impavidi inviati televisivi che,
ricoperti da incerate, microfono alla mano si esponevano alla pioggia e al
vento.
A giudicare da queste foto
tuttavia non sembra che i newyorkesi ne abbiano particolarmente risentito,
almeno quelli che abitano nella parte alta di Manhattan. Lo scoiattolino di
Central Park era sempre lì, in posa, a rimpinzarsi di noccioline con non meno
avidità dei piccioni di Venezia; Time Square di notte riluceva delle sue mille
luci, come sempre affollata di turisti e residenti. Qui e là qualche albero
abbattuto o qualche grande vaso di arredo urbano rovesciato stavano pur sempre a
significare che qualcosa era accaduto, ma fornivano più che altro ai turisti il
pretesto per qualche foto ricordo.
Certo più si scendeva verso
Lower Manhattan
più le cose si complicavano: il micidiale intreccio di avenues e streets, da
percorrere a piedi per il blocco dei mezzi pubblici, era tale da sfiancare il
turista più volenteroso; anche la Statua della Libertà la potevi ammirare solo
dalle banchine di Battery Park, perché il mare era mosso e i traghetti non
circolavano.
Nel complesso New York “al
tempo di Sandy” appariva come una città schizofrenica: dalla ventinovesima
strada in giù tutto chiuso e spento; oltre la ventinovesima, in su, era la New
York di sempre, o quasi. L’autore di queste foto alloggiava proprio sullo
spartiacque, in un hotel sulla ventinovesima strada e affacciandosi alla
finestra della sua stanza poteva vedere all’insù i semafori funzionare e le auto
circolare; mentre lui doveva farsi a piedi, per mancanza di elettricità, i nove
piani necessari per raggiungere la sua stanza; doveva lavarsi – se voleva
lavarsi – con l’acqua gelida del rubinetto o della vasca e difendersi sotto un
piumone dal freddo implacabile della notte newyorkese. E tutto questo non per
poche ore, ma per uno, due, tre, quattro, cinque giorni consecutivi! “L’energia
elettrica è ritornata il giorno prima della nostra partenza!” ci ha raccontato
disilluso e frastornato.
Ecco, questo è un punto sul
quale vorrei ricondurre la vostra attenzione: cosa sarebbe successo se una cosa
del genere fosse avvenuta un Italia? Un black out lungo quasi una settimana?
Possiamo ben immaginare la pioggia di interrogazioni parlamentari, le
dichiarazioni sdegnate dei politici, le interviste accorate ai pensionati al
buio, i collegamenti live dei talk show con gli inviati, circondati di gente
infreddolita, che proclamano banalità del tipo “Vedi Michele, qui la gente è
completamente al buio...”. La magistratura avrebbe aperto un’inchiesta, le tv e
i giornali avrebbero rilanciato con enfasi il nome degli indagati, sarebbe stato
istruito un processo e dopo qualche anno i responsabili dei danni dell’uragano -
perché qualcuno sicuramente avrebbe dovuto prevenire, avvertire, evacuare,
evitare... - sarebbero stati condannati in primo grado. Sindacalisti ed
editorialisti avrebbero espresso la loro soddisfazione; i politici – pur con
qualche distinguo – si sarebbero allineati; gli avvocati avrebbero dichiarato di
ricorrere in appello “dopo l’attenta lettura delle motivazioni”...
Niente di tutto
questo a New York. Gli americani sono al tempo stesso ottimisti e fatalisti.
Quel che deve succedere succeda. I newyorchesi hanno visto mille volte al cinema
la loro città – ombelico mediatico del mondo – abbattuta da terremoti, affondata
da tsunami, assiderata da ere glaciali di ritorno, attaccata da mostri,
extraterresti, alieni. Poi c’è stato lo shock autentico dell’undici settembre...
figuriamoci se si fanno impressionare da una Sandy qualsiasi. I newyorkesi sono
disciplinati e pazienti: prima o poi la luce tornerà, la metro riprenderà a
correre, i teatri riapriranno.
E Sandy
andrà a soffiare da un’altra parte.
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