Luciano D'Antoni

Biografia di un grande attore di Teatro


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di Mauro Ballerini

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Immagine 1, ritratto di Luciano D'Antoni

Noi uomini spesso ci illudiamo che la memoria sia capace di contenere tutto quello che di importante e di significativo è accaduto nelle nostre vite e nella storia umana e non ci accorgiamo, invece, che soltanto pochissimi dati vengono sottratti alla dimenticanza, secondo una selezione spesso sbagliata o quantomeno arbitraria.

Durante le mie ricerche di appassionato di storia del teatro, ho dovuto constatare infinite volte che tanti (troppi) attori che hanno reso grande il nome del teatro italiano – e che, per secoli, hanno recitato in ogni dove con grande merito e notevole rinomanza – sono stati poi cancellati dalla memoria non solo collettiva, ma persino da quella degli addetti ai lavori o dei loro stessi discendenti.

Io ho avuto il grande onore di nascere in una di quelle famiglie che per secoli ha calzato “il socco e il coturno” ma che, pur potendo vantare componenti di grande fama, non è riuscita a salvarsi dalla furiosa tempesta del tempo che tutto cancella e oscura.

Sono nato e cresciuto ascoltando mia nonna raccontare storie di attori, di attrici, di famiglie d’arte, tutti nomi che lei pronunciava con la sacralità con cui si recitano le orazioni. Nomi illustri, velati di mistero, divinità di un Olimpo innalzato in onore dei cosiddetti comici.

Sono cresciuto sentendomi ripetere centinaia di volte il nome della sua grande amica – ed eccellente attrice – Jole D’Antoni e di suo figlio Luciano (immagine n°1), considerato da mia nonna come una specie di figlio adottivo, o forse figlio elettivo, legato a tante vicende davvero indimenticabili per la loro poeticità e tragicità.

Nella mia testa di bambino, Jole e Luciano D’Antoni sono divenuti a poco a poco personaggi surreali, quasi frutto di invenzione, belli più di ogni realtà e dei quali è impossibile comprendere la vera natura.

Poi, crescendo, una volta che la grande narratrice era scomparsa dalla scena, ho sentito l’urgenza di dare a queste figure una consistenza storica. E così mi sono messo alla ricerca delle loro tracce: esili frammenti.

Ho cercato di riportare alla luce volti e storie oscurate dal buio, ho tentato di ricucire legami parentali e percorsi biografici che non erano più chiari neppure ai diretti interessati.

Ho tentato di ridare vita a vite che non possono, e non devono, essere dimenticate.

È da questa mia illusa speranza che è nato il presente contributo.

 

 

L’INFANZIA

 

Luciano D’Antoni nasce a Ferrara il 10 ottobre 1934.

A buon diritto può essere annoverato fra gli ultimi autentici “figli d’arte” del teatro italiano: sua madre, Jole Cavallari (immagine n°2), è discendente dai Salici e dai Colla, due celeberrime famiglie di marionettisti; mentre suo padre, Carlo D’Antoni (figlio di Romolo e nipote dell’omonimo Carlo), è erede della gens D’Antoni, rinomata nel teatro di prosa fin dall’Ottocento. Il suo, insomma, è uno di quei cognomi che hanno attraversato l’intera storia del teatro italiano.

Immagine 2, ritratto di Jole Cavallari, madre di Luciano

Immagine 2, ritratto di Jole Cavallari, madre di Luciano

All’età dei primi suoni articolati, è già sul palcoscenico a fianco dei genitori; con loro vaga per l’Italia settentrionale e centrale in un pellegrinaggio che non ha mai un punto d’arrivo, né un luogo verso cui tendere; è un viaggiare che come unica ragione ha il viaggio stesso, cifra distintiva dell’essere e dell’esistere di ogni attore italiano.

I D’Antoni appartengono, infatti, a quell’universo, oggi scomparso, dei comici girovaghi, rimasto pressoché immutato rispetto agli antichi progenitori cinquecenteschi (cfr. Mauro Ballerini, Il teatro, inarrestabile traversata, http://www.canino.info/inserti/interventi/teatranti/).

In questo eterno girovagare, al D’Antoni, come del resto a tutti i figli d’arte, è negata la possibilità di farsi una cultura scolastica: dovendo infatti cambiar “piazza” di mese in mese, risulta impossibile un percorso regolare di studi. D’altronde però, come tutti i figli d’arte, Luciano ha l’incredibile privilegio di poter avvicinare fin da bambino – e poi di continuo per tutta la propria esistenza – decine e centinaia di opere letterarie di straordinario valore artistico ed intellettuale che, col tempo, andranno a sedimentarsi nella sua memoria e ne garantiranno quella speciale forma di “acculturazione spontanea” che solo gli attori, in Italia, hanno potuto vantare.

Pochi sono i ricordi della sua infanzia; pochi, ma tutti indissolubilmente legati ad un'unica realtà: il teatro.

Ricorda di essersi considerato da sempre “fratello di latte” con Raffaello Marchesini, figlio di Sante e anch’egli erede di una illustre famiglia d’arte, attiva fin dal 1700; ricorda di essere rimasto nascosto per ore con questo suo “fratello” sotto le tavole del palcoscenico, mentre sopra di loro avveniva un vero e proprio dramma familiare: la madre di Raffaello stava litigando furiosamente con il vecchio marito Sante, perchè innamorata del fascinoso Oreste Cordiviola, prestante capocomico e primo attore, nonché impunito seduttore di ogni giovane attrice della propria compagnia.

Infine, una rara foto inizio anni ’40, immortala la famiglia D’Antoni al completo (Carlo, Jole e il piccolo Luciano) nella compagnia Gustavo Giorgi (immagine n°3)

Frammenti… esili frammenti un po’ sbiaditi e difficili da collocare su una chiara linea del tempo.

Limpida e netta si è stampata invece nel suo pensiero la magia di una sala cinematografica, con la proiezione dei film hollywoodiani di Deanna Durbin, personificazione di un mondo lontano, sensuale e così lussureggiante da rapire in sogno il piccolo Luciano, intento a raccogliere le cicche gettate sul pavimento dai soldati americani e fumate solo per metà.

Da un certo punto in poi, invece, i trucioli di memoria lasciano spazio ad una storia meglio definita nei suoi contorni, intessuta di episodi che ricompaiono fervidi e penetranti, quelli che nessuno di noi riesce mai a cancellare: sono gli eventi della tarda infanzia-prima adolescenza, vividi come vivida, a quell’età, è ogni fibra del nostro corpo e del nostro animo.

 

Immagine 3, la famiglia D'Antoni al completo (inizio anni '40)

 

 

 

 

 

Immagine 3, la famiglia D'Antoni al completo (inizio anni '40)

 

GIROVAGO CON I GUITTI

 

L’immagine più poetica ed indelebile è quella che Luciano D’Antoni conserva di Oberdan Nistri e a Elena Balestrelli (cfr. Mauro Ballerini, Elena Balestrelli. Vissi d’arte, vissi d’amore, http://www.canino.info/inserti/personaggi/balestrelli/index.htm).

Subito dopo la guerra, la famiglia D’Antoni viene scritturata per tre anni (1947-1950) dal capocomico Oberdan Nistri, battendo in un primo tempo i piccoli teatri della provincia toscana e laziale e, dal 1948, attraversando il centro Italia con un teatro mobile, il cosiddetto “Carro di Tespi” (cfr. Mauro Ballerini, I Carri di Tespi, http://www.canino.info/inserti/antropologia/tespi/).

mmagine 4, In compagnia, oltre al capocomico Nistri e alla sua compagna Elena Balestrelli, la loro figlia Neda, il vecchio attore Sante Marchesini con i suoi due figli, Emilio e Raffaello, e Manlio Nistri, fratello di Oberdan e grande interprete

Il repertorio della compagnia Nistri era quello tradizionale delle “formazioni di giro” coeve, per metà un repertorio “scelto” (Otello, Giulietta e Romeo, Francesca da Rimini, La figlia di Iorio, La fiaccola sotto il moggio, La Nemica, L’Urlo, Nozze di sangue, La cena delle beffe, Il Beffardo, Pia de’ Tolomei, Tosca, Il Cardinale, Morte civile, Il conte di Montecristo, Una lampada alla finestra) e per metà “popolare” (I due sergenti, Addio giovinezza, Le due orfanelle, La sepolta viva, Scampolo, I figli di nessuno, Santa Rita, Primo maggio, Senza patria).

I legami tra la famiglia Nistri e i D’Antoni si vanno intensificando dal momento in cui, nel 1948, il padre di Luciano, Carlo, muore all’improvviso a Grosseto.

Luciano si ritrova solo con sua madre, privo di una casa e di una meta. Per lui, che non ha né fratelli (ne aveva uno, ma è morto bambino) né zii né cugini, è lei l’unico suo riferimento e affetto. Jole D’Antoni è un donnone giunonico, rinomata in tutto l’ambiente teatrale per la sua mitezza e cordialità, e per essere del tutto aliena ai vezzi e ai vizi delle attrici. È da tutti considerata la migliore compagna d’arte: disponibile, tollerante, sempre al servizio di coloro che lei reputa appunto, più che colleghi, compagni, persone con cui “condividere il pane”, con cui sentirsi solidale in ogni vicenda della vita, secondo una logica di coappartenenza che mai separa dagli altri. Jole è, per suo figlio Luciano, un modello umano ed artistico, figura materna archetipica, sia nelle sue forme fisiche che nella tenerezza e protezione che incarna. Per lui – figlio unico e orfano di padre – lei diverrà, da ora in avanti, il nido, il porto in cui tornare quando si è esausti; rappresenterà l’assoluzione dalle colpe, l’orizzonte che ci abbraccia e ci contiene ovunque noi siamo.

 

Immagine 4, In compagnia, oltre al capocomico Nistri e alla sua compagna Elena Balestrelli, la loro figlia Neda, il vecchio attore Sante Marchesini con i suoi due figli, Emilio e Raffaello, e Manlio Nistri, fratello di Oberdan e grande interprete

Rimasto dunque sguarnito di una propria famiglia, Luciano, che a quest’epoca è solo un adolescente, inizia a percepire i Nistri come una seconda famiglia. Elena Balestrelli diviene la confidente e il sostegno per sua madre: insieme ridono, soffrono, in un’alchimia nella quale Jole controbilancia, con la sua dolce figura e con il suo carattere bonario, le impulsività e le intemperanze di Elena. Neppure sulla scena – cosa davvero insolita per due attrici coetanee – sembrano mai contendersi il ruolo o la parte.

La bionda e conturbante Neda Nistri, “attrice giovane” della compagnia, assume l’aspetto di un inconfessabile sogno erotico, capace di destare quelle pulsioni e quei desideri che Luciano, all’epoca, ancora ignorava, ma che, da lì a poco, avrebbero condizionato tante sue scelte, sempre volte ad un’inesausta ricerca dell’insidioso fascino femminile.

Il capocomico Oberdan Nistri, dal canto suo, con i suoi capelli biondi, gli occhi cerulei e la sua alta statura, si trasforma, per Luciano, in un insuperabile esempio di istrionismo e mattatorialità. Ogni pomeriggio, per ore e ore  – nel tempo infinito in cui il Nistri si trucca di fronte allo specchio, rigorosamente a dorso nudo in una posa statuaria assunta per sedurre le giovani attrici –   lo ascolta incantato mentre, con inesauribile arte affabulatoria, narra episodi della sua vita che, ogni giorno, si gonfiano e s’ingigantiscono, senza più sapere dove e quando andranno a finire.

Osservandolo poi sulla scena, Luciano s’impossessa, rubandole con gli occhi, di tutte le regole dell’arte attorica: dal timbro della voce alle variazioni d’intonazione, dallo studio dei personaggi alla passione ardente dell’interprete, fino a cogliere il furore sacro dell’artista drammatico.

Ma dal Nistri impara soprattutto una cosa: che l’attore non è un mestierante, ma è un sacerdote, un sacerdote che celebra un rito sacro che deve essere svolto secondo una precisa liturgia che mai può essere impoverita o venduta, per nessun prezzo. All’attore-sacerdote non serve un imponente edificio o un grande palcoscenico con un vasto pubblico, ma ogni luogo può esser idoneo a “metter su banco” fintanto che esista l’arte sacra dell’interprete. Niente più di un palchetto, con due sedie e quattro assi, e l’arte mimetica – e insieme meta-reale – del teatro può rinnovarsi di colpo e sempre nuova. È stata questa l’indiscussa verità su cui si è fondata la prosa italiana dal XVI  fino alla metà del XX secolo e il Nistri ne era ancora un geloso custode agli inizi degli anni Cinquanta.

Ormai diciassettenne (immagine n°5), nel triennio 1951-1954, Luciano D’Antoni, sempre insieme alla madre, lascia il Nistri e viene regolarmente scritturato (con tanto di contributi) come “attor giovane” nella compagnia Palmi-D’Origlia, una delle più rinomate dell’epoca, passaggio obbligato per la gran parte degli attori italiani attivi tra gli anni ‘30 e ‘50 del Novecento (di tale Compagnia ne ha fatto uno splendido affresco Carmelo Bene nel suo Sono apparso alla Madonna, pp. 26-37, Tascabili Bompiani 2005).

Appoggiata più o meno esplicitamente dalle autorità religiose locali, e fors’anche dal Vaticano stesso, la compagnia del cavalier Bruno Emmanuel Palmi calcava le scene dei più grande teatri d’Italia, vantando tra il suo pubblico, ogni sera, un gran numero di porporati.

La compagnia era nota a tutto l’ambiente teatrale per le sue scenografie faraoniche, la quantità sconfinata di abiti e suppellettili, il gran numero di figuranti presenti sulla scena, ma soprattutto per il repertorio di stampo religioso, basato per lo più sulle vite di santi e sante (Santa Caterina da Siena, Santa Bernardette, Santa Rita, Beata Maria Goretti, Santa Rosa da Viterbo, Santa Teresa di Lisieux, Sant’Antonio da Padova), nonché sulla riproposizione teatrale dell’intera vita di Cristo (Christus di Leburn) o della sua sola Passione (Passione di Nostro Signore Gesù Cristo). Lasciata la Palmi-D’Origlia, il D’Antoni fece numerose esperienze in varie compagnie “guitte”, tutte dotate di teatro viaggiante (cfr. Mauro Ballerini, I Guitti, http://www.canino.info/inserti/antropologia/guitti/).

 

Immagine 5, Luciano D'Antoni a 17 anni

Immagine 5, Luciano D'Antoni a 17 anni

Per l’anno 1954-55 (e per “anno” s’intende ovviamente l’anno comico, quello che iniziava con il primo giorno di quaresima e proseguiva fino all’ultimo giorno di carnevale dell’anno successivo), Luciano D’Antoni fu scritturato regolarmente come “attor giovane” nella compagnia di Enzo Rispoli. Al suo fianco, ancora sua madre e, a seguire, Angela Bolzoni (moglie del Rispoli), Ilda Bettelli, Aldo Pinelli, Giulio e Luciana Pinori, Vittorio e Ines Coriolato. Girovagando tra la zona del Valdarno e poi del parmense e del piacentino, la compagnia Rispoli, come si può evincere dal giornale L’Argante, Notiziario teatrale del sindacato artisti drammatici, compì le seguenti tappe: S. Mauro a Signa (febbraio-marzo 1954), Castelfranco di Sotto (aprile), Collecchio (matà aprile e maggio), Fidenza (giugno), Bettola (luglio), Potenzano (settembre), Felino (ottobre), Badia a Settimo (novembre e dicembre). San Pietro a Ponti (gennaio-febbraio 1955).

L’esperienza con Rispoli non durerà più di un anno.

D’Antoni è ormai uno dei più apprezzati e ricercati “primi attor giovani” e “primi attori” del teatro minore italiano e quindi non rischia certo di restare senza scrittura, nonostante i suoi capricci sentimentali lo portino spesso a migrare da una formazione all’altra. Ha dalla sua parte la giovinezza, una virilità mediterranea (fisicamente richiama alcuni divi dell’epoca, l’italiano Maurizio Arena e il britannico Dirk Bogarde) nonché il fascino del suo mestiere. E lui ne approfitta: in ogni paese che arrivi, lascia, al momento di ripartire, una ragazza pronta a scappare di casa pur di seguirlo; le giovani attrici, poi, sono le vittime designate: con loro organizza fughe d’amore, vive notti di pura passione, scrive lettere d’addio al mondo intero e poi, un mattino, loro si svegliano e lui le ha abbandonate per inseguire un’altra illusione d’amore. Il suo viso, dal bell’ovale e dai lineamenti morbidi, lo rende rassicurante; il tono di voce è carezzevole e ha un’innata capacità di sembrare un’innocua colomba. Ingannevole, come solo un attore sa esserlo. Luciano cavalca l’onda. Rischia di continuo il naufragio, ma ha vent’anni e, a vent’anni, è così. Deve essere così! La logica dei ragazzi è la follia dagli adulti.

Nell’anno 1955-56, Luciano D’Antoni, per la prima volta da solo e senza più il supporto di sua madre, emigra nella compagnia dello zio di Rispoli, Raimondo Rampini, anch’esso direttore di un Carro di Tespi. In compagnia con il D’Antoni agiscono, oltre al capocomico e a sua moglie (Antonietta Rampini), Emma Mollica, Carlo Cipolla e Liliana Grandi (sua moglie), Aligi De Rosa e signora, Rina Pinzauti, Tina Zambonini, Telemaco Cipolla (padre di Carlo) e Lia De Francisci. È ancora la Toscana ad essere battuta da tale compagnia: ben due mesi a Pisa (marzo e aprile 1955) e poi a seguire il Galluzzo (maggio-giugno e metà luglio), Brozzi (seconda metà di luglio), Ponte a Ema (settembre-ottobre).

 Il biennio 1956-1958 vede Luciano D’Antoni scritturato, ancora senza sua madre, nella compagnia Moretti-Consonni. Le zone da loro più battute erano la costa ligure (Oneglia, Imperia, Savona) e il nord della Toscana. Il repertorio non mostrava grandi novità rispetto a quello già conosciuto nelle altre compagnie: si inscenavano a maggioranza le opere di Dario Niccodemi, Sem Benelli, Gabriele D’Annunzio e Nino Berrini, concluse, come imponeva una tradizione plurisecolare, dalla farsa.

A riprova del pregiudizio che ormai circolava negli ambienti intellettuali su siffatte compagnie, D’Antoni ricorda il tono sprezzante con cui un cronista locale stimmatizzò l’erezione del Carro di Tespi di fronte al teatro Chiabrera di Savona, scrivendo: “non possiamo non stupirci di veder sorgere davanti alla mole imponente del teatro Chiabrera una baracca che ci ricorda quella dei campi di concentramento.”

Nonostante l’impari confronto con il teatro antistante, la compagnia Moretti-Consonni con la sua “baracca” riscosse comunque un grande e conclamato successo.

E fu proprio al Chiabrera, durante un matiné, che il D’Antoni vide recitare, per la prima volta, le sorelle Gramatica nell’opera Le medaglie della vecchia signora: primo attore Carlo Lombardo. Durante quello spettacolo, di fronte a quelle insuperate artiste, Luciano D’Antoni sentì nascere in sé l’aspirazione ad una carriera più luminosa, un desiderio vivo di solcare le scene dei grandi teatri italiani, al fianco di artisti unanimemente acclamati e riconosciuti. Per un attimo accarezzò l’illusione di potersi lasciare alle spalle il mondo delle baracche.

Eppure il microcosmo dei “guitti” doveva continuare ad essere ancora, per molti anni, il suo unico orizzonte.

Immagine 6, compagnia

L’anno 1958-59 vede il D’Antoni tornare, col ruolo di “primo attore”, nella compagnia “Teatro Viaggiante”, condotta da Raimondo Rampini (immagine n°6). Con lui, in compagnia, Tonino Orlando, Cesira Pinzauti, Alfredo Martini, Luigi Ferrarazzi e l’immancabile Jole D’antoni.

Il repertorio era immutato, immutate le condizioni di vita (alloggi improvvisati, camere in affitto, manifesti scritti a mano, il terrore del vuoto in sala) e identiche le dinamiche artistiche.

Nella Gazzetta dell’Emilia del venerdì 23 gennaio 1959, un lungo articolo tesseva le lodi di questa compagnia che, a Carpi, era stata capace di inscenare ben 110 opere diverse, registrando ogni sera un “tutto esaurito” e creando un vero  –  metonimico  –  fanatismo tra il pubblico.

Nonostante tutto sembri immutato, il tempo ha giocato però le sue carte: le vecchie compagnie tradizionali sembrano ogni giorno di più trasformarsi in strutture giurassiche, con repertori anacronistici. Esse sopravvivono a se stesse, ma ormai quasi solo di ricordi e di rimpianti. Il cinema e la televisione, di sera in sera, sottraggono loro gli spettatori e la loro arte si impoverisce insieme alle loro finanze. Un terremoto sta per travolgere i vecchi comici girovaghi.

Immagine 6, compagnia "Teatro Viaggiante"

Dal 1959 in avanti, Luciano D’Antoni inizierà ad incrociarsi, per motivi lavorativi e personali, ad una nota famiglia d’arte: i Carrara.

In un primo tempo, fu scritturato dalla compagnia Carrara-Laurini, condotta da Masi Carrara e sua moglie Argia Laurini. La loro collaborazione però non durò più di una stagione: per uno strano groviglio di amori e passioni, di contorte relazioni tra Luciano Argia Masi e una giovane attrice, per quell’inguaribile dongiovannismo di cui Luciano è affetto e che non può non creare vittime e nemici, crescerà una forte ostilità da parte del capocomico nei confronti del bel giovane, che si vide così costretto ad andarsene e a cercare “scrittura” altrove.

Quell’altrove, in verità, altro non fu che la compagnia “I Commedianti”, diretta da Nelly Carrara (sorella di Masi) e Vittorio Anselmi. Oltre ai due citati capocomici, Luciano in compagnia ritrova vecchie conoscenze: Carlo Cipolla e Liliana Grandi (sua moglie), Giusy Carrara (sorella di Masi e Nelly), suo marito Mundes Tieghi, Memi Bellettati, Ucci Tiso e l’immancabile Jole D’Antoni (immagine n°7). 

Apparentemente, fatta eccezione per i mutati compagni d’arte (ma anche questa in fondo non era che una routine per i comici girovaghi), non c’era nulla di nuovo sotto il sole. Apparentemente, appunto!  E invece Luciano, senza poterlo minimamente immaginare, aveva imboccato quella via che, da lì a pochi anni, lo avrebbe condotto in un contesto teatrale del tutto nuovo rispetto a quello dei vecchi comici.

La compagnia Carrara-Anselmi è di stampo tradizionale per quanto riguarda la mobilità e si sposta con il suo grosso padiglione ligneo nell’Italia del nord-est, vantando un vasto repertorio (all’incirca cento opere), innovativo rispetto a quello ormai trito e stantio delle altre formazioni.

Dopo aver attraversato Venezia, Muggia, Cividale del Friuli, Portogruaro, e molte altre città del Friuli e del Veneto, la compagnia Carrara-Anselmi giunse a Trieste e qui, contro ogni previsione, rimase in pianta stabile per almeno due anni, limitandosi a spostare il proprio padiglione tra le varie piazze della città, compresa Piazza dell’Unità (Punta del Forno).

Immagine 7, Carlo Cipolla e Liliana Grandi (sua moglie), Giusy Carrara (sorella di Masi e Nelly), suo marito Mundes Tieghi, Memi Bellettati, Ucci Tiso e l’immancabile Jole D’Antoni

Immagine 7, Carlo Cipolla e Liliana Grandi (sua moglie), Giusy Carrara (sorella di Masi e Nelly), suo marito Mundes Tieghi, Memi Bellettati, Ucci Tiso e l’immancabile Jole D’Antoni

Ma per comprendere veramente il successo che “I Commedianti” ottennero presso il pubblico triestino, non è sufficiente sottolineare la loro lunga permanenza in città, ma è necessario evidenziare almeno altri tre aspetti che confermano l’indiscusso gradimento di cui essi godevano.

In primo luogo il D’Antoni ricorda, con una punta d’orgoglio, come durante la settimana, quando era consuetudine per i vari attori dare la loro beneficiata (o serata d’onore), il pubblico li omaggiasse non solo di applausi fragorosi, ma addirittura di fiori, regali preziosi, gioielli, orologi…

L’orgoglio si trasforma poi in commozione mentre racconta che la stessa generosità, quel pubblico, la dimostrò quando la bora spaccò drammaticamente il tendone della compagnia, mettendo così in ginocchio gli attori, privati del loro unico mezzo di sostentamento. Gli spettatori più fedeli arrivarono al punto di promuovere addirittura una sottoscrizione pubblica per  dotare i loro beniamini di un nuovo tendone.

Tanto è alto il gradimento del pubblico triestino verso tali artisti che, per due inverni, venne loro concessa la direzione del teatro presso La Repubblica dei Ragazzi, a Palazzo Vivante.

Quello tra la Carrara-Anselmi e Trieste sembra essere divenuto un sodalizio così duraturo e inestirpabile, da risultare altamente pericoloso per il neonato Teatro Stabile che, ogni sera, vede buona parte del suo pubblico volgere i propri consensi verso quei “ciarlatani”. Eppure sono proprio quei ciarlatani a mettere in crisi l’austero e imponente Rossetti che, ben presto, si vide costretto, suo malgrado, a scendere a patti con loro.

 DA GIROVAGO A “STABILE”

Guardandoli agire sul palcoscenico, la direzione dello Stabile fiuta che tra di loro ci sono alcuni artisti di pregio che possono essere “sfruttati” a proprio vantaggio. Dopo varie considerazioni, dunque, decide di prelevarne alcuni e di inserirli nel proprio organico. Tra gli attori a cui toccò in sorte di esser pescati ci fu anche il nostro Luciano D’Antoni, insieme a Giusy Carrara, che comparirà al fianco di Luciano in ben diciassette spettacoli e rispettive stagioni teatrali.

Il D’Antoni si trovò così, alle soglie dei trent’anni,tato fuori da quel sistema teatrale che lo aveva nutrito e formato: il funzionamento dei teatri Stabili, infatti, era assai diverso rispetto alla vita degli “scavalcamontagne” e anche lo stile di vita, ad esso correlato, decisamente meno sfiancante e più dignitoso, nonostante – forse – meno magico e rocambolesco.

E con lui, fedele come solo una madre sa essere, “si fermò” anche Jole D’Antoni: dopo un’intera esistenza dedicata esclusivamente alla “traversata”,  decise di scegliere Trieste come sua fissa dimora, come luogo nel quale attendere pazientemente il ritorno del figlio. Non vi fu per lei alcun dubbio: guardando sé e Luciano, comprese che erano due creature sole e forti unicamente del loro reciproco amore. L’uno senza l’altra non sarebbero stati altro che dei sonnambuli in un’esistenza vuota e fredda d’abbracci. E tanta fedeltà al proprio ruolo di madre conferma – se mai ce ne fosse bisogno – che si è “femmine un giorno e poi madri per sempre, nella stagione che stagioni non sente”.

E così nel 1963 ebbe ufficialmente inizio quella collaborazione artistica tra Luciano e lo Stabile di Trieste che perdurerà ininterrotta per ben trent’anni, intessuta di prestigiose collaborazioni, assoluta fiducia e fedeltà reciproca. Luciano vide finalmente profilarsi all’orizzonte la possibilità di realizzare i propri sogni, quei sogni che a Savona, al Teatro Chiabrera, lo avevano rapito in estasi mentre ammirava l’arte sublime delle sorelle Gramatica.

Basterebbe scorrere  la “Cronologia degli spettacoli” posta in Appendice, per accorgersi che con  lo Stabile egli ha veramente realizzato il sogno di ogni attore: ha inscenato le opere dei più grandi drammaturghi d’ogni tempo (Shakespeare, Goldoni, Machiavelli, Ruzante, Dostoevskij, fino ai più recenti Pirandello, Pasolini, Svevo…); ha collaborato con i nomi più insigni della storia del teatro contemporaneo (a cominciare dall’arte creativa di Sergio D’Osmo, costumista scenografo e direttore artistico dello Stabile per decenni), per proseguire con i primi attori e le prime donne della prosa novecentesca (Gabriele Lavia, Mariangela Melato, Ugo Pagliai, Renato Rachel, Corrado Pani, Valeria Moriconi, Pina Cei, Mario Scaccia); con lui hanno lavorato attori di buon nome (Lea Padovani, Caterina Boratto, Leopoldo Mastelloni, Lino Toffolo, Renzo Montagnani, Ilaria Occhini); nella sua lunga carriera ha visto esordire tanti giovani artisti, tra cui Francesco Pannofino, Kaspar Capparoni e addirittura Paolo Rossi, in Karl Valentin Kabaret, con la regia di Pressburger; e, a proposito di regie, il D’Antoni ha avuto il raro privilegio di essere diretto dalle più prestigiose firme dell’ultimo mezzo secolo, da Giuseppe Patroni Griffi a Roberto Guicciardini, da Giorgio Pressburger a Franco Enriquez, da Francesco Macedonio a Sandro Bolchi ecc. Ma al di là di queste personalità di spicco, le figure a cui il D’Antoni è più legato, per affetto stima e memoria, sono quei “compagni d’arte” con i quali ha passato tante stagioni, non solo teatrali ma della propria esistenza, quegli attori che, da un anno all’altro, hanno nobilitato il nome dello Stabile del Friuli Venezia Giulia in tutta la penisola.

E mi riferisco agli artisti Lino Savorani, Giorgio Valletta, Mimmo Lo Vecchio, Orazio Bobbio, Elisabetta Bonino, Lidia Braico, Giusy Carrara, Franco Jesurum, Saverio Moriones, Ariella Reggio e Gianfranco Saletta. Questo gruppo diverrà da ora in avanti, nel mio racconto, il gruppo dei dodici.

Con la gran parte di loro, ora con l’uno ora con l’altro, il D’Antoni si trovò a recitare fin dal suo primo ingresso allo Stabile e dal 1963 al 1970 vi collaborò in uno o due allestimenti per stagione: saranno insieme ne Gli Ingannati, Accademici Intronati di Siena (1963-64), ne La breccia (1963-64), in Come vi piace (1964-65), in Romagnola (1964-65), ne Il martirio di Lorenzo (1965-66), in Sior Tonin Bellagrazia (1966-67), ne Il bugiardo (1967-68), ne La fiaba di Bertoldo (1968-69), in F. T. Marinetti e i Futuristi (1968-69), ne I nobili Ragusei (1969-70), e infine ne Il maggio francese (1969-70).

Solo in Canto e Controcanto (1966-67) di Furio Bordon, regia di Giovanni Poli, Luciano D’Antoni si trovò a recitare da solo rispetto ai suoi “stabili” compagni d’arte. Prima attrice Mariangela Melato. La critica fu concorde nel riconoscere l’ottima esecuzione degli interpreti e il loro affiatamento.

È degno di nota che nell’anno comico 1964-65, nelle due produzioni succitate di Come vi piace e Romagnola, tra gli attori scritturati risulti anche il vecchio Oreste Cordiviola, quell’inguaribile femminaro che il D’Antoni aveva conosciuto da bambino e poi incontrato tante volte in giro per l’Italia. La sua presenza allo Stabile indica, in modo inequivocabile, che il mondo dei guitti era stato messo definitivamente fuori gioco e che un intero sistema teatrale era stato costretto a convertirsi ad altro, pur di non rimanere schiacciato sotto il crollo dei propri teatri lignei. Persino un capocomico di antica tradizione come il Cordiviola, persino un istrione indomito e refrattario ad ogni regola come lui, si trovava ora costretto ad accettare scrittura presso dei padroni che di lui avrebbero potuto disporre a loro piacimento. E il Cordiviola non sarà l’unico incontro del D’Antoni con i vecchi compagni d’arte: nel 1966-67 passerà dallo Stabile un altro suo vecchio amico, Emilio Marchesini (interprete di Misura per Misura, con la regia di Luca Ronconi), fratello di Raffaello e compagno del D’Antoni nella compagnia di Oberdan Nistri; e infine nel ‘73-‘74 Luigi Carani (più noto come Bibi), anche lui figlio d’arte, discendente della dinastia artistica Croce-Carani, nipote del Cordiviola e per anni scritturato dal Nistri.

Questo breve quadro appena tratteggiato ci dimostra come il vecchio sistema teatrale fosse strutturato su dei veri e propri clan familiari che, per secoli, si tramandavano l’arte attorica, si incrociavano di continuo tra loro, restando sempre i medesimi, in un sistema dinastico chiuso e rigido. Ma con gli anni Sessanta del ‘900, tutto questo sistema venne spazzato via dalla modernità e la presenza dei vecchi comici in compagnie stabili diviene per noi il segno più palpabile che un’epoca teatrale, durata quattrocento anni, era per sempre e irreversibilmente tramontata.  Eppure, nonostante questi grandi rivolgimenti, ancora sul finire degli anni Sessanta non sembrano affatto attenuati i pregiudizi che, da sempre, avevano pesato sui comici, così diversi dalla società dei “normali” da venire, ora, esaltati e adorati ma, altre volte, denigrati ed infamati. In tal senso D’Antoni ricorda, con un sorriso in parte compiaciuto, un gemellaggio avvenuto tra lo Stabile triestino e il teatro de L’Aquila, con l’opera La fiaba di Bertoldo. Tale gemellaggio prevedeva vari debutti in molti altri teatri dell’Abruzzo e dell’Umbria. In un tardo pomeriggio invernale, col sole già tramontato dietro le montagne, immersi nel freddo dell’Appennino, a bordo di in un pulmino sgangherato, i dodici ebbero l’esigenza di fermarsi in un piccolo paese dalle vie semideserte. Dietro vetri fumanti e trasudati, gli attori se ne stavano raggomitolati nei loro cappotti e, sul fondo, Franco Jesurum e Franco Mezzera erano affogati sotto una coperta ruvida e pesante. Ad un tratto, una mano s’agitò dall’esterno dell’abitacolo e, strofinando i finestrini, cercò di toglier via la nebbia che li appannava: era un ragazzo sui sedici anni, un po’ tozzo, bruno e dal viso ruvido. Ficcò gli occhi dentro il pulmino, scrutò ad uno ad uno i visi rattrappiti degli attori e poi, fracassando l’aria con un richiamo ciclopico, radunò intorno a sé altri giovanotti del luogo, accorsi lì al grido di “accurrete accurrete… sono arrivati li froci e le puttane”. Erano passati ben venticinque secoli da quando Solone aveva stabilito la cacciata degli attori da Atene per immoralità; erano trascorsi quattrocento anni dalle invettive infuocate del cardinal Carlo Borromeo che li aveva addirittura identificati come emissari di Satana; e sembrava ormai lontano anni luce il tempo in cui ai comici non era neppure concessa la sepoltura in terra consacrata, eppure… eppure ancora in pieno Novecento, mentre negli USA in quello stesso 1969 si svolgeva a Woodstock il festival rock più trasgressivo della storia, il pregiudizio verso di loro, in certe regioni dell’Italia centro-meridionale, non sembrava esser cambiato poi molto. Segno di un’Italia ancora bambina, forse provinciale, ingenua e aggressiva allo stesso tempo e, come ben descrive D’Annunzio delle sue tragedie, legata ad ataviche tradizioni irrigidite dal tempo. Apparentemente immobile.

E invece qualcosa di tragicamente nuovo stava per investirla. Dalla terra d’Abruzzi ci spostiamo ora nella capitale lombarda, sul finire dello stesso 1969. È la sera del 12 dicembre e Luciano D’Antoni si trova al Lirico di Milano con Giulio Bosetti. Ad un tratto un’esplosione devastante fece tremare ogni strada, ogni vicolo e macchiò di sangue Piazza Fontana, Milano e l’Italia intera. I magnifici anni Sessanta si concludevano così con quell’evento che avrebbe inaugurato un lungo periodo di terrore e di violenza. Il sogno di un mondo di pace e di benessere veniva di colpo ad infrangersi. Per tutti.

Siamo ormai nel 1970: non erano passati che soli sette anni dalla sua rivoluzionaria conversione al teatro di Trieste, che Luciano D’Antoni si trova ad essere protagonista di un’altra rivoluzione, di un esperimento unico e del tutto innovativo nell’intero panorama teatrale nazionale. Nell’ottobre di quell’anno, Luciano D’Antoni, insieme agli altri undici, diviene  membro della Compagnia Stabile del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, firmatario addirittura di un contratto di assunzione a tempo indeterminato, con tredici mensilità, a cui si aggiungevano trasferte ferie e malattie retribuite, nonché l’accantonamento di una liquidazione. Benefici davvero inauditi per i lavoratori dello spettacolo! E così, ben presto e per tutti, tale gruppo di artisti divenne il gruppo dei dodici per antonomasia, benedetti da Dio quasi come i Dodici di biblica memoria.

La loro era una condizione lavorativa che aveva – ed ha tutt’oggi – un qualcosa di davvero stupefacente, ma tanto più per chi, come il D’Antoni, era cresciuto cercando scrittura di anno in anno, senza mai la certezza che il giorno a venire gli avrebbe garantito la sopravvivenza. Nel triennio d’oro 1970-73, i dodici inscenarono opere di grandissimo successo, composte dalle penne più celebri del teatro europeo: da La Mandragola di Nicolò Machiavelli (nella riduzione di Furio Bordon), al Parlamento Bilora del Ruzante; da Delitto e Castigo di Dostoevskij (nella riduzione di Dante Guardamagna), ad Avvenimento nella città di Goga del drammaturgo Slavko Grum.

Ma le due produzioni che più simboleggiarono questo triennio furono, nella stagione 1970-71, Le Maldobrie di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna e, degli stessi autori, ma due anni dopo, Noi delle vecchie provincie (immagine n°8), opere entrambe dirette da Francesco Macedonio. A quest’ultimo spettacolo partecipò, al fianco del figlio, anche Jole D’Antoni. Per comprendere il successo e il valore di questi due spettacoli basti dire che sono unanimemente ricordati come quelli che hanno registrato il maggior numero di presenze nei primi quarant’anni di vita dello Stabile. Un vero trionfo artistico, di pubblico e di critica (e queste tre cose non sempre coincidono!)

Il gruppo dei dodici insomma lavora bene, è affiatato e allestisce spettacoli di qualità e di successo. Il pubblico e la critica non sembrano aver nulla a che ridire e anche gli attori sono evidentemente soddisfatti (e non solo della loro insolita condizione contrattuale). Eppure da lì a poco, per loro, tutto sarebbe mutato.Parafrasando De Andrè, potremmo dire che anche questo straordinario esperimento, come tutte le cose belle della vita, non riuscì a vivere più di un giorno, bello e fragile proprio come le rose.

Nell’agosto 1973, infatti, il vento, finora in poppa, tornò avverso ai dodici. Contro di loro si levarono l’onnipotente eminenza di Guido Botteri e l’allora direttore organizzativo Enrico Rame.

Dopo tante riunioni straordinarie, dibattiti pubblici, manifestazioni di protesta e strumentalizzazioni politiche, il conclave dei potenti si concluse con una fumata nera: il consiglio di amministrazione deliberò – nonostante i dissensi della stampa, dell’intero mondo teatrale e la dura battaglia ingaggiata dai Sindacati – il licenziamento “per giusta causa” dei dodici attori che tornarono così a malincuore – e convinti di essere stati vittime di un “grave atto di repressione dei loro diritti sindacali” – ad un “normale” contratto di prestazione stagionale, rinnovabile di anno in anno, secondo le esigenze dello Stabile e decisamente più restrittivo rispetto al precedente.

Immagine 8, manifesto dell'opera

Immagine 8, manifesto dell'opera "Noi delle vecchie provincie

Finì così, in modo piuttosto polemico, ambiguo e rancoroso, un magnifico e irripetibile tentativo di costruire un teatro innovativo e finalmente garantista dei diritti più inviolabili del lavoratore.

Il D’Antoni si ritrovò così in quella condizione esistenziale di precarietà che aveva da sempre contraddistinto la sua vita e quella di tutti i suoi antenati. Non solo decadevano per lui tutti i diritti acquisti (ferie, malattia, liquidazione…) ma, cosa davvero pesante da sopportare, ricominciava quella ricerca stagionale di “scrittura”, quel vivere alla giornata, che non può mai fare progetti sul domani, perché il domani, per un attore, non esiste. Per l’attore esiste solo il nunc, nient’altro che il nunc.

Ad ogni autunno, il dado deve sempre essere rilanciato e il rischio che il lancio sia talvolta sfavorevole è altissimo. Basta un cambio di Direzione, oppure un regista che si muova già corredato di un proprio personale artistico, o qualunque altro minimo inciampo, ed ecco che il povero scritturato si può trovare sbalzato fuori dalla programmazione annuale e deve così andarsene ad elemosinare un contratto chissà dove e chissà a quali condizioni. Il concetto di stabile tornava così ad essere riferibile solo ed esclusivamente all’edificio teatrale e non certo alla condizione di coloro che vi avrebbero lavorato. Per loro, infatti, nulla era stabile: alle loro orecchie, quel termine “stabile” suonava crudelmente ironico, quasi come una goliardica beffa verso le loro traballanti esistenze.

In mezzo a tali e tante fluttuazioni, si presentò ben presto al D’Antoni un inquietante bivio, la più difficile tra le decisioni: scegliere l’assoluta incertezza (pur di dedicarsi con entusiastica passione all’arte recitativa, che si esalta in quell’applauso che a te solo è concesso, anche se poi ti costringe a mendicare un tozzo di pane) oppure accettare di retrocedere dalla ribalta e umilmente svolgere ogni mansione, pur di condurre in modo dignitoso la propria vita, senza troppi incanti né incubi?

Luciano, in tal senso, è un figlio della guerra, cresciuto in un’Italia devastata dal conflitto e allevato in quel mondo di guitti che, come lui sempre ama ripetere, non sapeva come fare a mettere insieme il pranzo con la cena. È figlio di quella “nobile miseria” dei comici dell’arte e, come tale, cosciente del valore del denaro. Ciò lo condurrà a compiere, senza troppi ripensamenti e senza vergogna, la propria scelta, una scelta dettata da un innato e acquisito pragmatismo che sa che di illusioni e di ideali si può anche morire.

E così, di anno in anno, di scrittura in scrittura, il D’Antoni si darà disponibile a ricoprire, oltre al ruolo di interprete, anche quello di suggeritore, amministratore… tutti compiti tutt’altro che secondari per la buona riuscita di uno spettacolo.

Che poi tutti questi ruoli lui li abbia svolti con grande professionalità ed indiscussa affidabilità, lo dimostra il fatto che, per trent’anni consecutivi, senza mai un rifiuto né un’eccezione, lo Stabile triestino si sia avvalso della sua competenza e professionalità. Basta infatti passare, anche solo rapidamente, in rassegna la cronistoria dettagliata degli spettacoli – posta in appendice – per accorgersi che l’unica presenza davvero “stabile” nella storia dello Stabile triestino è quella di Luciano D’Antoni. Prova inoppugnabile che, per quel teatro, il D’Antoni è stato, per trent’anni, figura insostituibile e indispensabile.

Immagine 9, Luciano D'Antoni in L'Austria era un paese ordinato

Riprendiamo però il filo rosso del racconto: il nostro intento infatti è quello di seguire l’artista D’Antoni attraverso la sua carriera d’attore e, come tale, lo ritroviamo nella stagione 1973-74 ne Il capitano di Kopenick con Renato Rachel, e l’anno successivo (1974-75) nell’opera di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, L’Austria era un paese ordinato (immagine n°9).

Nel 1974, tradendo la sua natura di artista da palcoscenico, parteciperà allo sceneggiato televisivo Rai in sei puntate, Anna Karenina, regia di Sandro Bolchi, accanto a figure artistiche di notevole pregio come Lea Massari, Pino Colizzi, Giancarlo Sbragia, Marina Dolfin, Mario Valgoi, Caterina Boratto.

Il 1975 si connota per il D’Antoni per due circostanze piuttosto particolari: per un verso, fu questa la prima e unica stagione della sua vita in cui non prese parte a nessuno spettacolo in veste di interprete; dall’altra, mentre era in una tournée internazionale con l’opera di Goldoni Sior Todero brontolon, ricevette dall’AGIS (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) una Medaglia d’Argento per i suoi 25 anni di attività e “per aver validamente contribuito all’affermazione ed allo sviluppo del teatro drammatico nazionale”. In quell’anno il D’Antoni aveva solo quarantuno anni ed era, senza dubbio, il più giovane attore italiano a poter vantare un tal riconoscimento.

Immagine 9, Luciano D'Antoni in "L'Austria era un paese ordinato"

Il 1976 è l’anno dello scisma. Il famigerato gruppo dei dodici che, nonostante i dissapori di tre anni prima, era rimasto saldamente ancorato allo Stabile del Friuli-.Venezia-Giulia, nel ’76, invece, si spacca: tre di loro – Ariella Reggio, Orazio Bobbio e Lidia Braico –, supportati dal regista Francesco Macedonio, fondarono il Teatro Popolare La Contrada (assurto poi a Teatro Stabile di Trieste), che divenne antagonista del Rossetti.

Fatta eccezione del succitato 1975, le stagioni che seguirono videro tutte il D’Antoni operativo sul palcoscenico:  nel 1976-77 prese parte a due spettacoli, il primo di Fulvio Tomizza, L’idealista (immagine n°10), a fianco di Corrado Pani, e il secondo Roulette, con la regia di Roberto Guicciardini.

Durante l’estate del ‘76, nel periodo di pausa dell’attività dello Stabile, il D’Antoni fu scritturato dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA), all’interno della magnifica cornice del teatro greco di Siracusa, per la messinscena de La fune, del commediografo latino Tito Maccio Plauto, con la regia di De Martino.

Nel ‘77-’78 lo Stabile inscenò una magnifica produzione dal titolo Storie del bosco viennese, con la regia di Franco Enriquez e un cast davvero d’eccezione (Valeria Moriconi, Corrado Pani, Pina Cei…). Dopo tre anni, e per la quarta volta, Luciano si trovò a recitare ancora a fianco di sua madre, anch’essa scritturata tra gli interpreti. Storie di un bosco viennese ebbe addirittura l’onore di essere inscenato nel celeberrimo Burgtheater di Vienna, uno dei teatri più all’avanguardia d’Europa, voluto nel ‘700 dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria e celebre per aver assistito a ben tre “prime” di W. A. Mozart. Al Burgtheater, gli attori dello Stabile triestino furono accolti con vere ovazioni dal pubblico viennese, pubblico raffinato, abituato a grandi messe in scena, e solitamente piuttosto freddo nelle proprie dimostrazioni di stima. Prova incontrovertibile della maestria dei nostri attori.

Gli anni Settanta si conclusero con una serie di spettacoli di notevole interesse intellettuale: nella stagione 1978-79, La coscienza di Zeno, del triestino Italo Svevo, con la regia di Franco Giraldi, e nel 1979-80 Calderon, di P.P. Pasolini, replicato l’anno successivo (1980-81) sempre sotto la direzione di Giorgio Pressburger che, in quello stesso anno, diresse anche Karl Valentin Kabaret, che si rivelò però un fiasco clamoroso.

Immagine 10, Luciano D'Antoni ne L'idealista

Immagine 10, Luciano D'Antoni ne "L'idealista"

Ed eccoci così arrivati ad un altro decennio: gli anni Ottanta. Dall’inizio del nostro viaggio sembrano passate davvero intere ere glaciali, tanto l’Italia è cambiata in questo breve intervallo di tempo: non solo è diventata uno dei paesi più ricchi del mondo, ma, come l’intero pianeta, ha subito trasformazioni radicali in ogni ambito.

Ma gli anni Ottanta, nel nostro racconto, saranno più che altro gli anni dell’addio alle scene, della tela che cala senza più riaprirsi. Nei primi anni Ottanta, si susseguiranno produzioni di cui il D’Antoni non conserva che una fioca memoria, quali Das Kapital (stagione 1981-82), L’Affare Danton e Bouvard e Pecuchet (entrambe nel 1982-83) e, infine, Romolo il grande (1983-84), con Mario Scaccia.

Dopo un ventennio di semi-sedentarietà, il D’Antoni è ormai penetrato in ogni piega della vita artistica triestina. Non solo è amico dei più grandi attori dello Stabile, primo fra tutti Lino Savorani,  ma con il tempo ha costruito una rete di rapporti che lo conducono ad importanti collaborazioni in molti altri settori, favorendo un’attività lavorativa così intensa da risultare impegnato dodici mesi all’anno, ogni giorno, dalla mattina fino alla tarda notte, assumendo gli incarichi più disparati.

Da quando per esempio , nel 1970, è entrato a far parte del gruppo dei dodici, Luciano, ogni mattina, per tre o quattro volte alla settimana, si reca nelle sedi triestine della RAI, per prestare la sua voce a sceneggiati e a programmi radiofonici per i ragazzi delle scuole (fiabe, leggende, mitolgia…), sotto la regia di Ruggero Winter e Ugo Amodeo. Con loro lavora ad una media di cento (centoventi) programmi all’anno che, moltiplicati per dodici annate, arrivano ad un numero davvero considerevole di produzioni. E in tutte queste narrazioni via radio, il volto del D’Antoni scompare e resta solo la sua voce, una voce robusta e calda.

Ed è sempre grazie alla sua voce che verrà insignito del titolo di maestro presso il teatro lirico Giuseppe Verdi. Ancora una volta, a partire dal 1970 (si metteva in scena Il paese dei campanelli), e per circa quindici anni, durante tutto il periodo estivo (tempo di inattività della prosa), il D’Antoni sarà maestro-suggeritore in pianta stabile nel Festival dell’Operetta di Trieste, festival rinomato in tutta Europa. Collaborerà per molte stagioni con il talento di Gino Landi e di Sandro Massimini, considerato il “re dell’operetta”, colui che l’aveva rivitalizzata, ripulendola delle volgarità e velocizzando la rappresentazione, tanto da accostarla, per certi versi, al musical.

E infine, nel 1982, il D’Antoni prenderà parte, con un piccolo ruolo, ad un film commedia di Pasquale Festa Campanile, con Renato Pozzetto, dal titolo, non troppo promettente, Porca vacca

Ma il millenovecentottantadue si caratterizzerà soprattutto per un’esperienza davvero eccezionale per l’epoca: la compagnia marionettistica I Piccoli di Podrecca, dello Stabile triestino, fu invitata nientemeno che  nella “grande madre Russia”, a spese del governo sovietico. D’Antoni risultava amministratore unico della compagnia. Siamo ancora in piena “guerra fredda” e i confini dell’URSS sono davvero invalicabili per la gran parte degli occidentali. Eppure l’arte è riuscita a oltrepassarli, grazie alla sua potenza comunicativa che è capace di scardinare ogni separazione, sociale e politica. D’Antoni si trovò immerso in una realtà lontana, diversa, intessuta di un’umanità accogliente e generosa, ma anche di una claustrofobica sorveglianza da parte del regime, con spie del KGB disseminate ovunque, magari sotto le vesti di magnifiche e insospettabili ragazze bionde. Un mondo quasi fiabesco, sospeso in fumide atmosfere nordiche, ma anche spettrale per il clima inquisitoriale nel quale galleggiava. Ma di questo suo soggiorno al di là della cortina di ferro, D’Antoni conserva più che altro l’immagine nitida di una giovane studentessa, Natalia, sdraiata sul letto della sua cameretta, arredata con due sole mensole e su di esse una guida turistica di Firenze. In sottofondo, i suoni carezzevoli e struggenti delle canzoni di Edith Piaf. Notti di passione, di champagne e caviale; notti di baci insaziabili e di candida tenerezza. Poi però l’aereo si rialza in volo… e anche il volto di Natalia s’invola.

Seguirono due stagioni teatrali (1984-85/1985-86) che – forse perché sotto la direzione di due sue vecchie conoscenze nonché due illustri firme della regia teatrale italiana, quali Roberto Guicciardini e Giorgio Pressburger – segnarono altre due importanti tappe nella carriera umana ed artistica del D’Antoni. Attraverso i villaggi di Peter Handke, nella traduzione di Roberto Zorzi (immagine n°11) ed Eroe di scena, fantasma d’amore (Moissi), dello stesso Pressburger, si stamparono indelebili nella sua memoria.

Immagine 11, Luciano D'Antoni ne

Eh sì, la memoria… una memoria che talvolta però tradisce, fallisce, cilecca. Nel Moissi (immagine n°12) Luciano D’Antoni era, contemporaneamente, interprete e amministratore dello spettacolo. Costretto a starsene nel botteghino fino all’attimo prima dell’apertura del sipario, doveva poi correre dietro le quinte per cambiarsi d’abito ed entrare in scena. Nello spettacolo impersonava Max Reinhardt, noto regista e attore austriaco. Non una lunga parte, la sua, ma comunque un ruolo intenso.

Claudio Gora dal canto suo, uno degli interpreti principali dello spettacolo, data la sua anzianità e qualche vuoto di memoria, aveva imposto al regista un suo personale suggeritore, l’unico di cui si fidasse davvero: Luciano D’Antoni. Gora si era addirittura rifiutato di salire in palcoscenico se, tra le quinte, non avesse visto Luciano, pronto a dargli l’imbeccata qualora gli fosse sopraggiunta un’amnesia. E Luciano non aveva avuto il coraggio di deludere quel suo vecchio collega: confidava nelle proprie forze, pur cosciente di sottoporle ad un ulteriore e pesante carico. Ma questa volta si illuse, sbagliò.

Immagine 12, manifesto dell'opera

Immagine 11, Luciano D'Antoni ne "Attraverso i villaggi"

Immagine 12, manifesto dell'opera "Eroe di scena fantasma d'amore"

Una sera, mentre sulla scena era stato allestito il vagone di un treno che correva rapido fendendo la notte,  D’Antoni nei panni di Reinhardt avrebbe dovuto sostenere un lungo dialogo con Carlo Simoni (Moissi). Ad un tratto… il vuoto, il silenzio, il nulla: la memoria di D’Antoni aveva cancellato ogni battuta, ogni frase e il suggeritore aveva ora bisogno di essere lui stesso suggerito. Simoni lo guardò attonito e, immediatamente, capì. Capì la fatica di quel suo collega che ogni sera svolgeva tanti, troppi, ruoli. Capì e lo soccorse… Una battuta, poi un’altra e un’altra ancora e, a poco a poco, le tenebre nella mente del D’Antoni lasciarono di nuovo il posto alla luce…  Il copione cominciò a riscriversi dentro di lui e quella scena, su quel treno immerso nel buio della notte, acquistò una poeticità tutta nuova e irripetibile.

Da narratore onnisciente, posso anticipare al lettore che la carriera artistica del D’Antoni è ormai vicina a concludersi, è prossima ad un evento che squarcerà il velo del tempio e farà calare una notte buia sulla sua vita. Prima dell’epilogo, però, ci saranno ad attenderlo ancora tre importanti produzioni, che vedranno la messa in scena de “Il Teatro nel Teatro di Pirandello”, un ciclo di spettacoli in onore del genio siciliano nel cinquantesimo della sua morte.

Nel triennio 1986-1989, sotto l’egida di Giuseppe Patroni Griffi, lo Stabile di Trieste sarà completamente assorbito in questo ambizioso progetto sulla trilogia pirandelliana: Stasera si recita a soggetto, Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo.   

Luciano prenderà parte all’intera trilogia con l’orgoglio di chi è cosciente di partecipare ad un grande progetto culturale, ad una rilettura moderna e rinnovata del sempiterno teatro pirandelliano, con le sue atmosfere oniriche, le sue inquietanti presenze, con le sue contorsioni mentali e con quei  personaggi che, prima evaporano, per poi rimaterializzarsi di nuovo di fronte allo sguardo attonito dello spettatore.

Intanto però la vita da eterno girovago è divenuta per lui una condizione usurante, nonostante il suo sapore picaresco. Sì, perché il D’Antoni, da quando è nato, non ha mai smesso un solo giorno di girovagare: prima al seguito delle compagnie itineranti che, ogni quindici giorni, cambiavano piazza e paese, senza mai la speranza di un porto ultimo in cui approdare; poi al seguito delle tournée dello Stabile che, di anno in anno, realizzava dei “gemellaggi” artistici con gli altri  teatri Stabili d’Italia e d’oltralpe. L’unica compagna veramente fedele della sua vita sembrava essere stata la valigia, l’unica sola presenza che ricompare in ogni tappa della sua esistenza e in ogni suo ricordo. E insieme alla valigia, gli altri grandi coprotagonisti erano stati la strada, l’albergo e la trattoria: tutti simboli inequivocabili di una vita sradicata, di una vita che non conosce né il tepore né i suoni né gli odori consueti di una casa.

Certo, da quando è scritturato dallo Stabile triestino, ad accogliere il D’Antoni ci sono teatri di fama nazionale, locandine prestampate, alberghi prenotati e confortevoli, viaggi che iniziano già sapendo il risultato del partire; ad applaudirlo troverà centinaia di persone, di medio-alta cultura; sa che di lui e dei suoi compagni scriverà certamente la stampa e che, alla fine, sarà ben remunerato di tutto questo faticoso viavai. Senza dubbio, questo modo di viaggiare è ben più agevole rispetto alla disperata ricerca di una piazza degli scavalcamontagne, ai loro forni, alla paga che non arrivava mai puntuale, alle fredde atmosfere del teatro viaggiante o ai miseri pranzi preparati nel retro della baracca… È diverso, è vero: eppure l’eterna odissea a cui l’arte lo ha sottoposto, con il tempo, si è fatta sempre più difficile da sopportare. E il D’Antoni si sente logoro e sfiancato.

Forse… si sente pure deluso: nonostante abbia conosciuto gli interpreti più celebrati del Novecento, a confronto con l’eroe della sua infanzia, Oberdan Nistri, sembrano solo degli impiegatucci dell’arte drammatica, con la fretta di timbrare l’uscita, mercenari del teatro e non certo sacerdoti, interessati a vendere la loro arte al miglior offerente e fintamente generosi con un pubblico he, però, non hanno mai imparato a conoscere e rispettare fino in fondo. Imprestati alle scene, talvolta sembrano persino incapaci di imparare un testo a memoria anche dopo mesi e mesi di prove. Quanta nostalgia per i vecchi comici della sua infanzia!

A tale logorio, a tanta disillusione, andò a sommarsi poi un evento che svuotò di senso la sua vita.

Nel 1989 accade infatti quello che mai sarebbe dovuto accadere, quello che mai dovrebbe accadere a nessun figlio: dopo una vita passata insieme – sposi amanti e figli l’uno dell’altro – muore a Trieste, ottantenne, Jole D’Antoni. Una notte senza stelle cala di colpo sulla vita di Luciano: privato della madre – suo unico affetto e legame – si trova ora solo e sperso, senza più nessuno da cui tornare per ritemprarsi dalle proprie fatiche. Senza più un seno sul quale poggiare la testa. Ed allora tutto è davvero inutile. Tutto è vano.

 

L’ULTIMA STAGIONE

 

L’uomo dimentica. Si dice che ciò è opera del tempo;

ma troppe cose buone, e troppe ardue opere, si sogliono

attribuire al tempo, cioè ad un essere che non esiste.

No: quella dimenticanza non è opera del tempo;

è opera nostra che vogliamo dimenticare e dimentichiamo

 (Benedetto Croce)

 

E così, dopo una vita in cui altro non aveva visto né vissuto eccetto il teatro, Luciano D’Antoni, a soli cinquantacinque anni, decide di lasciare le scene. Il passato per lui deve divenire definitivamente passato.

Presa questa decisione, il D’Antoni si isolò dai suoi vecchi compagni d’arte, si ritirò ad una vita lontana da ogni mondanità; serrò per sempre i cassetti della memoria, i bauli del ricordo finirono in stanze deserte, e i tanti volti incontrati e le innumerevoli parole apprese fin da bambino evaporarono via, sempre più impalpabili, sempre più evanescenti. È come se, scomparsa sua madre, Luciano sentisse l’esigenza di scomparire lui stesso: nessuno infatti può più esser se stesso dopo che ha perso la persona che ama come se stesso.

La tela calò ed è rimasta chiusa per lunghi venti anni, senza che nessuno più rispolverasse quei vecchi ricordi o cercasse di sbirciarvi dentro. A poco a poco, come canta Leo Ferrè nel magnifico testo Col Tempo, Luciano D’Antoni prese a sentirsi deluso dalla vita, tradito dagli anni perduti e, come inaridito, smise di rovistare tra vetrine di morte, per non sentire la solitudine di troppi sabati rimasti senza compagnia. E di lui nulla sarebbe rimasto se quel ventre, che lo aveva contenuto prima di veder la luce, non si fosse fatto, col tempo, contenitore anche della sua memoria, unica luce capace di vincere le tenebre del nulla.

Sì perché, con un’opera paziente e meticolosa, sua madre per decenni ha raccolto ogni suo successo, conservandone le carte, le recensioni, le locandine, le fotografie… Forse senza neppure saperlo, Jole lo ha partorito per una seconda volta. Di nuovo – e questa volta per sempre – lo ha amato sottraendolo alla seconda e definitiva morte: l’oblio.

È ora che entro in scena io, nella veste di amico, biografo, ma soprattutto di appassionato delle vite altrui. Ho incontrato Luciano D’Antoni seduto su una panchina di Trieste… in attesa… L’ho ascoltato per ore raccontare, raccontarsi… e, di colpo, tutti i brandelli di ricordo, inariditi e sparsi, hanno cominciato a ricomporsi, ad inseguirsi, a riannodarsi… L’ho visto seduto sul suo letto e lì a fianco, su un altro lettuccio vuoto, tutti i suoi abiti ben piegati, ma mai riposti nell’armadio… Per terra: una valigia… in attesa.

Sono io ora ad essere seduto nel suo salottino, arredato tanti anni prima da sua madre e rimasto immutato da allora.

È un caldo pomeriggio d’estate: nella penombra di persiane socchiuse, mentre io guardo avido le innumerevoli fotografie e le locandine rimaste dimenticate da decenni dentro cassetti bui, lui è in piedi di fronte a me e, con gli occhi ludici di commozione e la voce sinceramente tremante da anziano signore, prende a dirmi:

 

Allora, mamma… ascoltate…sì… riprendete con me una conversazione lontana, perduta, dimenticata… una conversazione col vostro bimbo…. Ve ne supplico… Non foss’altro che per curiosità… ascoltatemi un momento, un minuto… e se sono ridicolo, non ci badate, mamma… Avevo, forse, nove anni e una sera ero solo con voi, qui in questa stessa stanza, ai vostri piedi davanti a questa stessa poltrona… su questo stesso cuscino… Ecco… così… esattamente…

Guardavo le figure di un gran libro… Ad un tratto, per una di quelle irresistibili curiosità infantili, vi domandai: “Mamma, perché mi vuoi bene?...” Voi mi avete presa la testa tra le mani, mi avete guardato in silenzio, lungamente, con uno sguardo che è sempre il mio più gran ricordo, e mi avete detto: “Piccolo, ti voglio bene perché…” Vi siete fermata lì, e io molto soddisfatto, probabilmente, mi sono rimesso lì a guardare le figure… Mamma, gli anni sono passati lenti e duri su di voi, lo so… la mia infanzia è lontana come una felicità perduta… ma io sono sempre qui, ai vostri piedi, vi guardo con lo stesso amore e vi domando con la stessa curiosità: “Mamma, perché non mi vuoi più bene?”

Sarà stato forse per lo stordimento dell’emozione, o forse per l’intensità di quelle frasi pronunciate con tanta tenerezza, ma confesso che mi ci volle un po’ prima di capire che quelle non erano parole sue, ma le battute di Roberto ne La Nemica di Niccodemi, imparate dal D’Antoni sessant’anni prima.

Di fronte a me era appena avvenuto un miracolo: dopo vari decenni, nella sua memoria erano ricomparsi quei versi, nuovi come se lui li avesse appena ascoltati, letti o studiati. Era come se il tempo – da noi talvolta considerato come un qualcosa di oggettivo e definito – si fosse annullato. E Jole, quasi come un personaggio pirandelliano, in quell’evocazione, si era materializzata all’improvviso in quella stanza e l’aveva riempita della sua misteriosa presenza.

La barriera del tempo si era sgretolata.

Ho ripreso poi ad ascoltarlo: ora ripensa alle sue fughe d’amore, ai baci non dati, alle ragazze conosciute appena e per le quali valeva la pena perderci un secolo in più; ripensa ai compagni di viaggio, agli occhi mai più rivisti; si incupisce per “quel rodere sordo che cambia io faccio e lo fa diventare io ricordo”. Poi guarda in una foto in bianco e nero la propria giovinezza e… non vi si riconosce.

Troppo rapida è passata la vita! Troppa vita gli è sfuggita tra le mani: chi era in fondo suo padre? E dove è iniziata la storia artistica della sua gente? Chi c’era prima di lui?... Non lo sa! Davvero troppe sono le vite che non ci è dato di vivere. E quante vite non ci sono più: sua madre, suo padre, suo fratello; tanti suoi amici dello Stabile, da Mimmo Lo Vecchio a Franco Mezzera a Orazio Bobbio, sono morti. Morti Oberdan ed Elena.

Ecco: cerca di mettere a fuoco il volto di Oberdan e di Elena rimasti, nella sua immaginazione, eternamente giovani ma… i loro contorni si dissolvono sbiaditi. Quanta vita si dissolve in un troppo vago ricordo!

D’Antoni oggi siede e… attende. La valigia è sul pavimento… attende. Ancora attende di partire; ancora attende che passi a prelevarlo, sulla piazza di Trieste, un teatro viaggiante…

Ma ogni giorno che passa, ogni tramonto che si consuma, comprende che nessuno più passerà e  “muore malato di malinconia”.

 

Appendice

 

CRONISTORIA DELL’ATTIVITÀ DI

LUCIANO D’ANTONI ALLO STABILE DI TRIESTE

 

(tratta dal libro di Paolo Quazzolo, Il Teatro Stabile del Friuli-Venezia-Giulia,

Edizioni Ricerche 1995)

 

Stagione 1963-64

 

Dal 15 novembre 1963 all’8 dicembre 1963: Gli Ingannati, Accademici Intronati di Siena

Regia di Fulvio Tolusso

Interpreti: Dario Penne, Adriana Innocenti, Giorgio Valletta, Lino Savorani, Nicoletta Rizzi, Mimmo Lo Vecchio, Egisto Marcucci, Marisa Fabbri, Franco Mezzera, Vittorio Franceschi, Oreste Rizzini, Sonia Gessner, Massimo De Vita, Carlo Gamba, Roberto Paoletti, Gilfranco Baroni, Luciano D’Antoni

 

Dal 17 dicembre 1963 al 12 gennaio 1964: La breccia (di Dante Guardamagna e Marisì Codecasa)

Regia di Ruggero Jacobbi

Interpreti principali: Giorgio Valletta, Oreste Rizzini, Nicoletta Rizzi, Egisto Marcucci, Mimmo Lo Vecchio, Roberto Paoletti, Lino Savorani, Franco Mezzera, Massimo De Vita, Vittorio Franceschi, Luciano D’Antoni, Carlo Gamba, Aldo Pressel, Sonia Gessner, Marisa Fabbri, Gilfranco Baroni, Dario Penne

 

Stagione 1964-65

 

Dal 13 dicembre 1964 al 17 gennaio 1965: Come vi piace (di William Shakespeare)

Regia di Eriprando Visconti

Interpreti principali: Lino Savorani, Raimondo Penne, Franco Mezzera, Mimmo Lo Vecchio, Carlo Gamba, Oreste Cordiviola, Oreste Rizzini, Mario Giovannini, Luciano D’Antoni, Sergio Pieri, Egisto Marcucci, Dario Mazzoli, Giorgio Valletta, Licio Carrara, Vittorio Franceschi, Mundes Tieghi, Roberto Paoletti, Massimo De Vita, Gilfranco Baroni, Marisa Fabbri, Nicoletta Rizzi, Sonia Gessner, Adriana Innocenti, Carlo Gamba, Orazio Bobbio, Franco Arrigo.

 

Dal 6 febbraio 1965 al 28 febbraio 1965: Romagnola (di Luigi Squarzina)

Regia di Eriprando Visconti

Interpreti principali: Roberto Paoletti, Nicoletta Rizzi, Dario Mazzoli, Vittorio Franceschi, Giorgio Renar, Oreste Rizzini, Franco Jesurum, Eliana De Vida, Franco Mezzera, Egisto Marcucci, Luciano D’Antoni, Giorgio Valletta, Umberto Troni, Aldo Pressel, Adriana Innocenti, Lidia Braico, Vincenzo Ferro, Lino Savorani, Werner Di Donato, Orazio Bobbio, Oreste Cordiviola, Massimo De Vita, Luciano Del Mestri, Dario Penne, Licio Carrara, Mundes Tieghi, Mimmo Lo Vecchio, Carlo Gamba, Raimondo Penne, Sergio Pieri, Fulvia Gasser, Franco Arrigo

 

Stagione 1965-66

 

Dal 5 aprile 1966 al 17 aprile 1966 Il martirio di Lorenzo (di David Maria Turoldo)

Regia Giuseppe Maffioli

Interpreti: Egisto Marcucci, Enrico D’Amato, Werner Di Donato, Vittorio Franceschi, Antonio Pavan, Omera Lazzari, Lidia Braico, Ezio Biondi, Francesco Gasperlin, Viviana Toniolo, Nicoletta Rizzi, Lidia Lagonegro, Oreste Rizzini, Giorgio Valletta,  Mimmo Lo Vecchio, Luciano D’Antoni, Lida Toniolo, Laura Leban, Roberto Paoletti, Lino Savorani, Carlo Gamba

 

Stagione 1966-67

 

Dal 18 novembre 1966 al 5 dicembre 1966: Sior Tonin Bellagrazia (il frappatore) (di Carlo Goldoni)

Regia di G. Maffioli

Interpreti principali: Giampiero Becherelli, Lino Toffolo, Bruno Slaviero, Mariangela Melato, Fulvia Gasser, Clara Zavianoff, Mimmo Lo Vecchio, Giorgio Valletta, Ariella Reggio, Lino Savorani, Mariasandra Calacione, Guido Coderin, Luciano D’Antoni, Francesco Gasperlin, Gianfranco Saletta

 

Dal 2 maggio 1967 al 21 maggio 1967: Canto e controcanto (di Furio Bordon)

Regia Giovanni Poli

Interpreti principali: Mariangela Melato, Oreste Rizzini, Werner di Donato, Germana Paoleri, Luciano D’Antoni, Mariella Terragni, Edda Valente, Roberto Paoletti

 

Stagione 1967-68

 

Dal 18 ottobre 1967 al 19 novembre 1967: Il Bugiardo (di Carlo Goldoni)

Regia di Gianfranco De Bosio

Interpreti: Giulio Oppi, Paola Bacci, Elisabetta Bonino, Leda Palma, Gabriele Lavia, Mario Valgoi, Silvio Anselmo, Carlo Bagno, Giulio Bosetti, Franco Jesurum, Claudio Cassinelli, Javier Moriones, Bruna Seresetti, Giusy Carrara, Orazio Bobbio, Gianfranco Saletta, Luciano D’Antoni, Edmondo Tieghi

 

Stagione 1968-69

 

Dal 2 febbraio 1969 al 9 febbraio 1969: La fiaba di Bertoldo (di Fulvio Tomizza, da Giulio Cesare Croce)

Regia Giovanni Poli

Interpreti: Franco Mezzera, Lino Savorani, Marina Bonfigli, Giusy Carrara, Franco Jesurum, Mimmo Lo Vecchio, Giorgio Valletta, Gianfranco Saletta, Rosetta Salata, Orazio Bobbio, Luciano D’Antoni,Edmondo Tieghi, Ariella Reggio, Lidia Braico, Paola Kramar, Fulvia Gasser

 

Nelle sere del 7  e 8 marzo 1969: F. T. Marinetti e i Futuristi (a cura di Furio Bordon). Interpreti: Paola Bacci, Alvise Battain, Orazio Bobbio, Giusy Carrara, Luciano D’Antoni, Massimo De Francovich, Maria Grazia Francia, Ariella Reggio, Gianfranco Saletta, Edmondo Tieghi, Giorgio Valletta

 

Stagione 1969-70

 

Dall’8 ottobre 1969 al 26 ottobre 1969 I nobili Ragusei (di Marino Darsa, versione italiana di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna)

Regia Kosta Spaic

Interpreti: Giampiero Becherelli, Franco Mezzera, Giorgio Biavati, Lino Savorani, Gianni Musy, Franca Alboni, Saverio Moriones, Giusy Carrara, Nicoletta Rizzi, Donatella Ceccarello, Giancarlo Cajo, Gianrico Tedeschi, Cip Barcellini, Franco Jesurum, Mimmo Lo Vecchio, Orazio Bobbio, Giorgio Del Bene, Gianfranco Saletta, Luciano D’Antoni, Giorgio Valletta, Ezio Biondi, Alberto Milos, Riccardo Canali

 

Nelle sere del 22, 23 e 24 gennaio 1970: Il maggio francese (documentario teatrale a cura di Furio Bordon)

Interpreti: Cip Barcellini, Alfio Bertoni, Orazio Bobbio, Giancarlo Cajo, Ernesto Colli, Luciano D’Antoni, Marinella Làszlò, Mimmo Lo Vecchio, Ariella Reggio, Giampiero Becherelli, Giusy Carrara, Gianfranco Saletta, Lino Savorani, Giorgio Valletta

 

Stagione 1970-71

 

Dal 23 ottobre 1970 all’8 novembre 1970 e 14-16 maggio 1971: Le Maldobrie (di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna)

Regia Francesco Macedonio

Interpreti: Lino Savorani, Lidia Braico, Ariella Reggio, Giorgio Valletta, Riccardo Canali, Mimmo Lo Vecchio, Alberto Ricca, Gianfranco Saletta, Elisabetta Bonino, Saverio Moriones, Giusy Carrara, Orazio Bobbio, Franco Jesurum, Luciano D’Antoni, Massimo Dainese, Germano Moratelli, Gabriella Tesi, Mario Pirolo

 

Dal 20 dicembre 1970 al 17 gennaio 1971: Le avventure di Fiordinando (di Furio Bordon)

Regia Francesco Macedonio

Interpreti: Giorgio Valletta, Luciano D’Antoni, Lino Savorani, Orazio Bobbio, Elisabetta Bonino, Giusy Carrara, Gianfranco Saletta, Mimmo Lo Vecchio, Saverio Moriones, Franco Jesurum, Lidia Braico, Ella Reggiani

 

Stagione 1971-72

 

Dal 5 gennaio 1972 al 23 gennaio 1972: Avvenimento nella città di Goga (di Slavko Grum, traduzione di Sergio e Liciania Pacor)

Regia Francesco Macedonio

Interpreti: Mimmo Lo Vecchio, Elisabetta Bonino, Gianfranco Saletta, Giorgio Valletta, Gabriele Lavia, Ariella Reggio, Giusy Carrara, Luisa Crismani, Riccardo Canali, Orazio Bobbio, Franco Jesurum, Franca Nuti, Gina Sammarco, Franco Mezzera, Saverio Moriones, Lidia Braico,  Aura Grisi, Jole D’Antoni, Luciano D’Antoni

 

Dal 22 al 24 febbraio 1972 e dal 22 al 28 maggio 1972: La Mandragola (di Nicolò Machiavelli, riduzione di Furio Bordon) e Parlamento Bilora (di Angelo Beolco detto Ruzante)

Regia di Francesco Macedonio

Interpreti de La Mandragola: Giorgio Valletta, Lidia Braico, Luciano D’Antoni, Orazio Bobbio, Saverio Moriones, Franco Jesurum, Giusy Carrara, Giorgio Valletta, Ariella Reggio, Elisabetta Bonino

Interpreti de Il Parlamento Bilora: Ariella Reggio, Orazio Bobbio, Gianfranco Saletta, Mimmo Lo Vecchio, Lidia Braico, Luciano D’Antoni

 

Dal 10 marzo 1972 al 4 aprile 1972: L’ultimo de carneval (di Antonio Ricciardini)

Regia Francesco Macedonio

Interpreti: Lino Savorani, Lidia Braico, Mimmo Lo Vecchio, Franco Jesurum, Orazio Bobbio, Ariella Reggio, Virgilio Masè, Giusy Carrara, Giorgio Valletta, Elisabetta Bonino, Saverio Moriones, Gianfranco Saletta, Riccardo Canali, Luciano D’Antoni, Jole D’Antoni, Edvige Stolfa, Germano Moratelli, Massimo Dainese, Gianni Gnesutta

 

Stagione 1972-73

 

Dal 24 ottobre 1972 al 5 novembre 1972: Noi delle vecchie province (di Lino Carpinteri e Mariano Faragura)

Regia di Francesco Macedonio

Interpreti: Lino Savorani, Ariella Reggio, Orazio Bobbio, Giorgio Valletta, Tonino Pavan, Mimmo Lo Vecchio, Franco Jesurum, Riccardo Canali, Giusy Carrara, Lidia Braico, Gianfranco Saletta, Saverio Moriones, Luciano D’Antoni (nei ruoli di un boxer cinese, secondo armatore, ufficiale dei giannizzeri), Mario Pirolo, Elisabetta Bonino, Lilia Carini, Luisa Crismani, Massimo Dainese, Antonio Devetag, Jole D’Antoni, Germano Moratelli, Maria Bianchi, Eliana De Vida

 

Dal 20 febbraio 1973 al 4 marzo 1973: Delitto e Castigo (di Fedor Dostoevskij, riduzione di Dante Guardamagna)

Regia Sandro Bolchi

Interpreti: Ugo Pagliai, Giorgio Valletta, Orazio Bobbio, Saverio Moriones, Lino Savorani, Giusy Carrara, Angiola Baggi, Mimmo Lo Vecchio, Gianfranco Saletta, Elisabetta Bonino, Mario Feliciani, Franco Jesurum, Tonino Pavan, Lidia Braico, Luciano D’Antoni, Lilia Carini, Franco Zucca, Riccardo Canali, Ariella Reggio, Mirella Luccioli, Edvige Stolfa, Fabio Dogani, Mario Fabi, Aldo Minut, Eliana De Vida, Piero Padovani, Tania Angi, Patrizia Longo, Marino Masè, Arrigo Angi, Giuliana Favento, Cinzia Favento

 

Dal 30 marzo 1973 all’8 aprile 1973: L’egoista (di Carlo Bertolazzi)

Regia di Fulvio Tolusso

Interpreti: Mario Feliciani, Mimmo lo Vecchio, Mino Bellei, Piero Padovan, Angiola Baggi, Elisabetta Bonino, Giusy Carrara, Lino Savorani, Gianfranco Saletta, Orazio Bobbio, Luciano D’Antoni, Saverio Moriones, Giorgio Valletta, Eliana De Vida

 

Stagione 1973-74

 

Dal 18 ottobre al 4 novembre 1973: Il capitano di Kopenick (di Carl Zuckmayer, versione italiana Lino Carpinteri e Mariano Faraguna)

Regia Sandro Bolchi

Interpreti: Renato Rachel, Orazio Bobbio, Carlo Montini, Saverio Moriones, Giorgio Valletta, Mimmo Lo Vecchio, Vittorio Anselmi, Tonino Pavan, Lidia Braico, Luciano D’Antoni, Franco Zucca, Luigi Carani, Gianfranco Saletta, Giovanni Vannini, Piero Padovan, Franco Jesurum, Elio Crovetto, Nino Pavese, Giusy Carrara, Lino Savorani, Ariella Reggio, Elisabetta Bonino, Cesare Polacco, Edwige Solfa, Enrico d’Ercole, Flavio Dogani

 

Stagione 1974-75

 

Dal 23 ottobre 1974 al 17 novembre 1974: L’Austria era un paese ordinato (di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna)

Regia di Francesco Macedonio

Interpreti: Lino Savorani, Giorgio Valletta, Mimmo lo Vecchio, Lilia Carini, Lidia Braico, Alessio Pregarc, Ariella Reggio, Orazio Bobbio, Giusy Carrara, Riccardo Canali, Saverio Moriones, Tonino Pavan, Giglio Boemo, Elisabetta Bonino, Franco Jesurum, Luciano D’Antoni,.Mario Pirolo, Jole D’Antoni, Franco Zucca, Germano Moratelli, Edwige Stolfa, Marco Censki

 

 

Stagione 1976-77

 

Dal 19 novembre 1976 all’8 dicembre 1976: L’idealista (di Fulvio Tomizza),

Regia di Francesco Macedonio

Interpreti: Corrado Pani, Leda Negroni, Carlo Cataneo, Nestor Garay, Miriam Bartolini, Anna Canzi, Umberto Raho, Giorgio Valletta, Roberto Paoletti, Lilia Carini, Lidia Braico, Iole D’Antoni, Mimmo Lo Vecchio, Daniele Griggio, Giarcarlo Condè, Riccardo Canali, Luciano D’Antoni, Clara Gatto, Adolfo Bonomo, Giorgio Giustincic

 

Dal 25 febbraio 1977 al 6 marzo 1977: Roulette (di Pavel Kohout, versione italiana di Giorgio Pressburger)

Regia di Roberto Guicciardini

Interpreti: Lorenza Guerrieri, Paolo Graziosi, Giorgio Valletta, Mimmo Lo Vecchio, Regina Bianchi, Daniele Griggio, Clara Gatto, Anna Canzi, Giovanna Fregonese, Stefanella Marrama, Giovanna Bardi, Tonino Pavan, Ruggero Seriani,  Luciano D’Antoni, Flavio Dogani, Alberto Godena

 

Stagione 1977-78

 

Dal 28 ottobre 1977 al 13 novembre 1977 e dal 5 al 7 giugno 1978: Storie del bosco viennese (di Odon von Horvath, traduzione di Emilio Castellani e Umberto Gandini),

Regia di Franco Enriquez

Interpreti principali: Valeria Moriconi, Corrado Pani, Mario Adorf, Pina Cei, Micaela Esdra, Nestor Garay, Giorgio Valletta, Umi Raho, Giusy Carrara, Alberto Di Stasio, Anna Canzi, Paolo Picozzi, Lilia Carini, Stefano Lescovelli, Danilo Turk, Giovanna Fragonese, Jole D’Antoni, Gianfranco Saletta, Adelaide Zaccaria, Luciano D’Antoni, Caterina Manganella, Elisabetta Olivo, Gaia Franchetti, Bruno Bruni, Alberto Godena, Franco Ponti, Lidia Braico

 

Stagione 1978-79

 

Dal 18 ottobre 1978 al 5 novembre 1978: La coscienza di Zeno (Tullio Kezich da Italo Svevo) Regia: Franco Giraldi

Interpreti: Renzo Montagnani, Gianni Galavotti, Lidia Braico, Attilio Cucari, Enrico Ardizzone, Luciano D’Antoni, Franco Jerusum, Emilio Balducci, Antonio Pavan, Gianni Rossi, Danilo Turk, Lilia Cravino, Marina Dolfin, Veronica Zinny, Elisabetta Carta, Francesca Archibugi, Martino Masè, Giusy Carrara, Bianca Maria Toso, Giusi Securo, Patrizia Melega

 

Stagione 1979-80

 

Dal 16 aprile 1980 al 27 aprile 1980: Calderon (di Pier Paolo Pasolini)r

Regia Giorgio Pressburger

Interpreti: Paolo Bonacelli, Francesca Muzio, Carmen Scarpitta, Marina Dolfin, Gianni Galavotti, Franco Jesurum, Lidia Braico, Giorgia Vignoli, Walter Mramor, Gianfranco Saletta, Luciano D’Antoni, Diletta Renni, Roberto Mosetti, Ambra Zopp, Gianpaolo Andreutti, Adelia Spetti

 

Stagione 1980-81

 

Dal 2 dicembre 1980 al 5 dicembre 1980: Calderon (di Pier Paolo Pasolini)

Regia Giorgio Pressburger

Interpreti: Paolo Bonacelli, Francesca Muzio, Carmen Scarpitta, Marina Dolfin, Gianni Galavotti, Franco Jesurum, Lidia Braico, Giorgia Vignoli, Walter Mramor, Gianfranco Saletta, Luciano D’Antoni, Diletta Renni, Roberto Mosetti, Liliana Salvador, Gianpaolo Andreutti, Anna Penta

 

Dal 19 febbraio 1981 al 22 marzo 1981: Karl Valentin Kabaret, vita di un attore comico (di Karl Valentin, traduzione Giorgio Pressburger)

Regia Giorgio Pressburger

Interpreti: Vittorio Caprioli, Gianni Gavallotti, Francesca Muzio, Jole Silvani, Franco Jesurum, Isabelle Attali, Luciano D’Antoni, Paolo Rossi, Pietro Ubaldi, Adriano Giraldi

 

Stagione 1981-82

 

Dal 24 novembre 1981 al 6 dicembre 1981: Das Kapital (di Curzio Malaparte, traduzione e adattamento di Mario Maranzana)

Regia di Franco Giraldi

Interpreti: Mario Maranzana, Margherita Guzzinati, Vittorio Franceschi, Carlo De Melo, Maria Teresa Sonni, Walter Manfrè, Adolfo Bonomo, Romina De Rubis, Roberta De Rubis, Donatella Calamita, Lilia Cravino, Roberta Fregonese, Paolo Hermanin, Luciano D’Antoni, Pietro Bartolini, Angelo Curti

 

Stagione 1982-83

 

Dal 28 ottobre 1982 al 14 novembre 1982: L’affare Danton (di Stanislawa Przbyszewska, versione italiana di Giovanni Pampiglione)

Regia Andrej Wajda e Maciej Karpinski

Interpreti: Mario Maranzana, Almerica Schiano, Luca Del Fabbro, Stelio Candelli, Edoardo Florio, Lorenzo Piani, Riccardo Plati, Gianfranco Saletta, Vittorio Franceschi, Donatella Calamita, Pietro Valsecchi, Vittorio Ristagno, Walter Manfrè, Amedeo Di Furio, Maurizio Mosetti, Gianfranco Freisteiner, Tarcisio Branca, Roberto Pagotto, Lamberto Maria Dorigo, Francesco Pannofino, Vittorio Gaudiani, Lino Ristani, Franco Jesurum, Pasquale Anselmo, Gian Luigi Pizzetti, Luciano D’Antoni, Claudio Misculin, Anna Lisa Lanza, Roberta Fragonese, Alessandro Marinuzzi, Alceste Ferrari

 

Dal 3 maggio 1983 al 15 maggio 1983: Bouvard e Pecuchet (di Tullio Kezich e Luigi Squarzina, dal romanzo di Gustave Flaubert)

Regia Giovanni Pampiglione

Interpreti: Mario Maranzana, Vittorio Franceschi, Edoardo Florio, Carla Cassola, Gianfranco Saletta, Riccardo Plati, Betty Chiapatti, Walter Manfrè, Pasquale Anselmo, Donatella Calamita, Stelio Candelli, Claudio Misculin, Francesco Pannofino, Roberto Pagotto, Luciano D’Antoni, Lidia Braico, Tarcisio Branca, Valentina Magnani

 

Stagione 1983-84

 

Dal 13 dicembre 1983 al 30 dicembre 1983: Romolo il grande (di Friedrich Durrenmatt, traduzione di Aloisio Rendi)

Regia: Giovanni Pampiglione

Interpreti: Mario Scaccia, Ginella Bertacchi, Lidia Koslovic, Edoardo Sala, Carla Cassola, Pino Patti, Roberto Pescara, Vittorio Ciorcalo, Gianpaolo Saccarola, Oliviero Corbetta, Aldo Turco, Jerzy Stuhr, Roberto Mantovani, Giacomo Quattromini, Luciano D’Antoni

 

Stagione 1984-85

 

Dal 26 febbraio 1985 al 10 marzo 1985: Attraverso i villaggi (Peter Handke, traduzione di Roberto Zorzi)

Regia di Roberto Guicciardini

Interpreti: Marisa Fabbri, Giancarlo Dettori, Lidia Braico, Giulio Brogi, Giuampiero Becherelli, Luciano D’Antoni, Adriano Giraldi, Ivan Milic, Anna Teresa Rossini, Regina Bianchi, Raffaella Quaia

 

Stagione 1985-86

 

Dal 28 gennaio 1986 al 9 febbraio 1986: Eroe di scena, fantasma d’amore (Giorgio Pressburger).

Regia di: Giorgio Pressburger

Interpreti: Claudio Gora, Lea Padovani, Carlo Simoni, Lidia Koslovich, Filippo Degara, Carlo Simoni, Mattia Machiavelli, Gianpaolo Poddighe, Aldo Reggiani, Gianni Todescato, Nestor Saied, Maura Catalan, Luciano D’Antoni, Luca Giordana, Mauro Serio

 

Stagione 1986-87

 

Il 6 gennaio 1987 e dai dal 24 marzo 1987 al 5 aprile 1987: Questa sera si recita a soggetto (di Luigi Pirandello)

Regia: Giuseppe Patroni Griffi

Interpreti: Mariano Rigillo, Paola Bacci, Leopoldo Mastelloni, Laura Marinoni, Gea Lionello, Rossella Testa, Mascia Musy, Gianna Grippa, Alessandro Giglio, Marcello Donati, Totò Onnis, Alessandro Ragazzini, Kaspar Capparoni, Ursula von Baechler, Maria Rosaria Longobardi, Alessia Cermely, Adriano Giraldi, Alceste Ferrari, Lino Avendola, Mario Patanè, Andrea Seminara, Flavio Dogani, Luciano D’Antoni, Paolo Canciani

 

Stagione 1987-88

 

Dal 27 aprile 1988 all’8 maggio 1988: Sei personaggi in cerca d’autore (di Luigi Pirandello)

Regia: Giuseppe Patroni Griffi

Interpreti: Mariano Rigillo, Ilaria Occhini, Laura Marinoni, Giovanni Crippa, Andrea Seminara, Caterina Boratto, Vittorio Caprioli, Mascia Musy, Totò Onnis, Rossella Testa, Patrizia Battaglia, Kaspar Capparoni, Marcello Donati, Lino Avendola, Paolo Canciani, Elio Pica, Livio Cecchelin, Fabio Rusca, Luciano D’Antoni, Roberto Rizzoni, Flavio Dogani, Pierpaolo Rebec

 

Stagione 1988-89

 

Dal 18 ottobre 1988 al 30 ottobre 1988 e il 26 maggio 1989: Ciascuno a suo modo (di Luigi Pirandello)

Regia: Giuseppe Patroni Griffi

Interpreti: Ilaria Occhini, Giovanni Crippa, Caterina Boratto, Marcello Donati, Mariano Rigillo, Vittorio Caprioli, Kaspar Capparoni, Lino Avendola, Elio Pica, Roberto Rizzoni, Danilo Nigrelli, Rosella Testa, Monica Samassa, Fabio Rusca, Paolo Canciani, Pierpaolo Rebec, Roberto Perossa, Laura Marinoni, Totò Onnis, Enzo Giraldo, Luciano D’Antoni, Laura Visconti, Luisa Vermiglio, Giuseppina Soprani, Mary Grace Thompson

 

Nelle sere del 27 e 28 maggio 1989: Questa sera si recita a soggetto (di Luigi Pirandello)

Regia: Giuseppe Patroni Griffi

Interpreti: Mariano Rigillo, Ilaria Occhini, Vittorio Caprioli Laura Marinoni, Rosella Testa, Mary Grace Thompson, Giovanni Crippa, Danilo Nigrelli, Marcello Donati, Totò Onnis, Pierpaolo Rebec, Kaspar Capparoni, Laura Visconti, Roberto Rizzoni, Elio Pica, Lino Avendola, Fabio Rusca, Enzo Giraldo, Flavio Dogani, Luciano D’Antoni, Paolo Canciani

 

 

 

 

 

 

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