L’INFANZIA
Luciano D’Antoni nasce a Ferrara
il 10 ottobre 1934.
A buon diritto può essere
annoverato fra gli ultimi autentici “figli d’arte” del teatro
italiano: sua madre, Jole Cavallari (immagine n°2), è
discendente dai Salici e dai Colla, due celeberrime famiglie di
marionettisti; mentre suo padre, Carlo D’Antoni (figlio di
Romolo e nipote dell’omonimo Carlo), è erede della gens
D’Antoni, rinomata nel teatro di prosa fin dall’Ottocento. Il
suo, insomma, è uno di quei cognomi che hanno attraversato
l’intera storia del teatro italiano.

Immagine 2, ritratto di Jole Cavallari, madre di Luciano |
All’età dei primi suoni
articolati, è già sul palcoscenico a fianco dei
genitori; con loro vaga per l’Italia settentrionale e
centrale in un pellegrinaggio che non ha mai un punto
d’arrivo, né un luogo verso cui tendere; è un viaggiare
che come unica ragione ha il viaggio stesso, cifra
distintiva dell’essere e dell’esistere di
ogni attore italiano.
I D’Antoni appartengono,
infatti, a quell’universo, oggi scomparso, dei comici
girovaghi, rimasto pressoché immutato rispetto agli
antichi progenitori cinquecenteschi (cfr. Mauro
Ballerini, Il teatro, inarrestabile traversata,
http://www.canino.info/inserti/interventi/teatranti/).
In questo eterno
girovagare, al D’Antoni, come del resto a tutti i figli
d’arte, è negata la possibilità di farsi una cultura
scolastica: dovendo infatti cambiar “piazza” di mese in
mese, risulta impossibile un percorso regolare di studi.
D’altronde però, come tutti i figli d’arte, Luciano ha
l’incredibile privilegio di poter avvicinare fin da
bambino – e poi di continuo per tutta la propria
esistenza – decine e centinaia di opere letterarie di
straordinario valore artistico ed intellettuale che, col
tempo, andranno a sedimentarsi nella sua memoria e ne
garantiranno quella speciale forma di “acculturazione
spontanea” che solo gli attori, in Italia, hanno potuto
vantare.
Pochi sono i ricordi
della sua infanzia; pochi, ma tutti indissolubilmente
legati ad un'unica realtà: il teatro. |
Ricorda di essersi considerato da
sempre “fratello di latte” con Raffaello Marchesini, figlio di
Sante e anch’egli erede di una illustre famiglia d’arte, attiva
fin dal 1700; ricorda di essere rimasto nascosto per ore con
questo suo “fratello” sotto le tavole del palcoscenico, mentre
sopra di loro avveniva un vero e proprio dramma familiare: la
madre di Raffaello stava litigando furiosamente con il vecchio
marito Sante, perchè innamorata del fascinoso Oreste Cordiviola,
prestante capocomico e primo attore, nonché impunito seduttore
di ogni giovane attrice della propria compagnia.
Infine, una rara foto inizio anni
’40, immortala la famiglia D’Antoni al completo (Carlo, Jole e
il piccolo Luciano) nella compagnia Gustavo Giorgi (immagine
n°3)
Frammenti… esili frammenti un po’
sbiaditi e difficili da collocare su una chiara linea del tempo.
Limpida e netta si è stampata
invece nel suo pensiero la magia di una sala cinematografica,
con la proiezione dei film hollywoodiani di Deanna Durbin,
personificazione di un mondo lontano, sensuale e così
lussureggiante da rapire in sogno il piccolo Luciano, intento a
raccogliere le cicche gettate sul pavimento dai soldati
americani e fumate solo per metà.
Da un certo punto in poi, invece,
i trucioli di memoria lasciano spazio ad una storia meglio
definita nei suoi contorni, intessuta di episodi che ricompaiono
fervidi e penetranti, quelli che nessuno di noi riesce mai a
cancellare: sono gli eventi della tarda infanzia-prima
adolescenza, vividi come vivida, a quell’età, è ogni fibra del
nostro corpo e del nostro animo.
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Immagine 3, la
famiglia D'Antoni al completo (inizio anni '40) |
GIROVAGO CON I GUITTI
L’immagine
più poetica ed indelebile è quella che Luciano D’Antoni conserva
di Oberdan Nistri e a Elena Balestrelli (cfr. Mauro
Ballerini, Elena Balestrelli. Vissi d’arte, vissi d’amore,
http://www.canino.info/inserti/personaggi/balestrelli/index.htm).
Subito
dopo la guerra, la famiglia D’Antoni viene scritturata per tre
anni (1947-1950) dal capocomico Oberdan Nistri, battendo in un
primo tempo i piccoli teatri della provincia toscana e laziale
e, dal 1948, attraversando il centro Italia con un teatro
mobile, il cosiddetto “Carro di Tespi” (cfr. Mauro
Ballerini, I Carri di Tespi,
http://www.canino.info/inserti/antropologia/tespi/).
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Il repertorio della compagnia
Nistri era quello tradizionale delle “formazioni di giro” coeve,
per metà un repertorio “scelto” (Otello, Giulietta e
Romeo, Francesca da Rimini, La
figlia di Iorio, La fiaccola
sotto il moggio, La Nemica,
L’Urlo, Nozze di sangue, La cena
delle beffe, Il Beffardo, Pia de’ Tolomei,
Tosca, Il Cardinale, Morte civile, Il conte
di Montecristo, Una lampada alla finestra) e per metà
“popolare” (I due sergenti, Addio giovinezza,
Le due orfanelle, La sepolta viva,
Scampolo, I figli di nessuno, Santa Rita,
Primo maggio, Senza patria).
I legami tra la famiglia Nistri e
i D’Antoni si vanno intensificando dal momento in cui, nel 1948,
il padre di Luciano, Carlo, muore all’improvviso a Grosseto.
Luciano si ritrova solo con sua
madre, privo di una casa e di una meta. Per lui, che non ha né
fratelli (ne aveva uno, ma è morto bambino) né zii né cugini, è
lei l’unico suo riferimento e affetto. Jole D’Antoni è un
donnone giunonico, rinomata in tutto l’ambiente teatrale per la
sua mitezza e cordialità, e per essere del tutto aliena ai vezzi
e ai vizi delle attrici. È da tutti considerata la migliore
compagna d’arte: disponibile, tollerante, sempre al servizio di
coloro che lei reputa appunto, più che colleghi, compagni,
persone con cui “condividere il pane”, con cui sentirsi solidale
in ogni vicenda della vita, secondo una logica di coappartenenza
che mai separa sé dagli altri. Jole è, per suo
figlio Luciano, un modello umano ed artistico, figura materna
archetipica, sia nelle sue forme fisiche che nella tenerezza e
protezione che incarna. Per lui – figlio unico e orfano di padre
– lei diverrà, da ora in avanti, il nido, il porto in cui
tornare quando si è esausti; rappresenterà l’assoluzione dalle
colpe, l’orizzonte che ci abbraccia e ci contiene ovunque noi
siamo.
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Immagine 4, In compagnia, oltre al capocomico
Nistri e alla sua compagna Elena Balestrelli, la loro figlia
Neda, il vecchio attore Sante Marchesini con i suoi due figli,
Emilio e Raffaello, e Manlio Nistri, fratello di Oberdan e
grande interprete |
Rimasto dunque sguarnito di una
propria famiglia, Luciano, che a quest’epoca è solo un
adolescente, inizia a percepire i Nistri come una seconda
famiglia. Elena Balestrelli diviene la confidente e il sostegno
per sua madre: insieme ridono, soffrono, in un’alchimia nella
quale Jole controbilancia, con la sua dolce figura e con il suo
carattere bonario, le impulsività e le intemperanze di Elena.
Neppure sulla scena – cosa davvero insolita per due attrici
coetanee – sembrano mai contendersi il ruolo o la parte.
La bionda e conturbante Neda
Nistri, “attrice giovane” della compagnia, assume l’aspetto di
un inconfessabile sogno erotico, capace di destare quelle
pulsioni e quei desideri che Luciano, all’epoca, ancora
ignorava, ma che, da lì a poco, avrebbero condizionato tante sue
scelte, sempre volte ad un’inesausta ricerca dell’insidioso
fascino femminile.
Il capocomico Oberdan Nistri, dal
canto suo, con i suoi capelli biondi, gli occhi cerulei e la sua
alta statura, si trasforma, per Luciano, in un insuperabile
esempio di istrionismo e mattatorialità. Ogni pomeriggio, per
ore e ore – nel tempo infinito in cui il Nistri si trucca di
fronte allo specchio, rigorosamente a dorso nudo in una posa
statuaria assunta per sedurre le giovani attrici – lo ascolta
incantato mentre, con inesauribile arte affabulatoria, narra
episodi della sua vita che, ogni giorno, si gonfiano e
s’ingigantiscono, senza più sapere dove e quando andranno a
finire.
Osservandolo poi sulla scena,
Luciano s’impossessa, rubandole con gli occhi, di tutte le
regole dell’arte attorica: dal timbro della voce alle variazioni
d’intonazione, dallo studio dei personaggi alla passione ardente
dell’interprete, fino a cogliere il furore sacro dell’artista
drammatico.
Ma dal Nistri impara soprattutto
una cosa: che l’attore non è un mestierante, ma è un
sacerdote, un sacerdote che celebra un rito sacro che
deve essere svolto secondo una precisa liturgia che mai
può essere impoverita o venduta, per nessun prezzo.
All’attore-sacerdote non serve un imponente edificio o un grande
palcoscenico con un vasto pubblico, ma ogni luogo può esser
idoneo a “metter su banco” fintanto che esista l’arte sacra
dell’interprete. Niente più di un palchetto, con due
sedie e quattro assi, e l’arte mimetica – e insieme meta-reale –
del teatro può rinnovarsi di colpo e sempre nuova. È stata
questa l’indiscussa verità su cui si è fondata la prosa italiana
dal XVI fino alla metà del XX secolo e il Nistri ne era ancora
un geloso custode agli inizi degli anni Cinquanta.
Ormai diciassettenne (immagine
n°5), nel triennio 1951-1954, Luciano D’Antoni, sempre insieme
alla madre, lascia il Nistri e viene regolarmente scritturato
(con tanto di contributi) come “attor giovane” nella compagnia
Palmi-D’Origlia, una delle più rinomate dell’epoca, passaggio
obbligato per la gran parte degli attori italiani attivi tra gli
anni ‘30 e ‘50 del Novecento (di tale Compagnia ne ha fatto uno
splendido affresco Carmelo Bene nel suo Sono apparso alla
Madonna, pp. 26-37, Tascabili Bompiani 2005).
Appoggiata più o meno
esplicitamente dalle autorità religiose locali, e fors’anche dal
Vaticano stesso, la compagnia del cavalier Bruno Emmanuel Palmi
calcava le scene dei più grande teatri d’Italia, vantando tra il
suo pubblico, ogni sera, un gran numero di porporati.
La compagnia era nota a tutto
l’ambiente teatrale per le sue scenografie faraoniche, la
quantità sconfinata di abiti e suppellettili, il gran numero di
figuranti presenti sulla scena, ma soprattutto per il repertorio
di stampo religioso, basato per lo più sulle vite di santi e
sante (Santa Caterina da Siena, Santa Bernardette,
Santa Rita, Beata Maria Goretti, Santa Rosa da
Viterbo, Santa Teresa di Lisieux, Sant’Antonio da
Padova), nonché sulla riproposizione teatrale dell’intera
vita di Cristo (Christus di Leburn) o della sua sola
Passione (Passione di Nostro Signore Gesù Cristo). Lasciata la Palmi-D’Origlia, il
D’Antoni fece numerose esperienze in varie compagnie “guitte”,
tutte dotate di teatro viaggiante (cfr. Mauro Ballerini,
I Guitti,
http://www.canino.info/inserti/antropologia/guitti/).
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Immagine 5, Luciano D'Antoni a 17 anni |
Per l’anno 1954-55 (e per “anno”
s’intende ovviamente l’anno comico, quello che iniziava
con il primo giorno di quaresima e proseguiva fino all’ultimo
giorno di carnevale dell’anno successivo), Luciano D’Antoni fu
scritturato regolarmente come “attor giovane” nella compagnia di
Enzo Rispoli. Al suo fianco, ancora sua madre e, a seguire,
Angela Bolzoni (moglie del Rispoli), Ilda Bettelli, Aldo Pinelli,
Giulio e Luciana Pinori, Vittorio e Ines Coriolato. Girovagando
tra la zona del Valdarno e poi del parmense e del piacentino, la
compagnia Rispoli, come si può evincere dal giornale L’Argante,
Notiziario teatrale del sindacato artisti drammatici, compì
le seguenti tappe: S. Mauro a Signa (febbraio-marzo 1954),
Castelfranco di Sotto (aprile), Collecchio (matà aprile e
maggio), Fidenza (giugno), Bettola (luglio), Potenzano
(settembre), Felino (ottobre), Badia a Settimo (novembre e
dicembre). San Pietro a Ponti (gennaio-febbraio 1955).
L’esperienza con Rispoli non
durerà più di un anno.
D’Antoni è ormai uno dei più
apprezzati e ricercati “primi attor giovani” e “primi attori”
del teatro minore italiano e quindi non rischia certo di
restare senza scrittura, nonostante i suoi capricci
sentimentali lo portino spesso a migrare da una formazione
all’altra. Ha dalla sua parte la giovinezza, una virilità
mediterranea (fisicamente richiama alcuni divi dell’epoca,
l’italiano Maurizio Arena e il britannico Dirk Bogarde) nonché
il fascino del suo mestiere. E lui ne approfitta: in ogni paese
che arrivi, lascia, al momento di ripartire, una ragazza pronta
a scappare di casa pur di seguirlo; le giovani attrici, poi,
sono le vittime designate: con loro organizza fughe d’amore,
vive notti di pura passione, scrive lettere d’addio al mondo
intero e poi, un mattino, loro si svegliano e lui le ha
abbandonate per inseguire un’altra illusione d’amore. Il suo
viso, dal bell’ovale e dai lineamenti morbidi, lo rende
rassicurante; il tono di voce è carezzevole e ha un’innata
capacità di sembrare un’innocua colomba. Ingannevole, come solo
un attore sa esserlo. Luciano cavalca l’onda. Rischia di
continuo il naufragio, ma ha vent’anni e, a vent’anni, è così.
Deve essere così! La logica dei ragazzi è la follia dagli
adulti.
Nell’anno 1955-56, Luciano D’Antoni,
per la prima volta da solo e senza più il supporto di sua madre,
emigra nella compagnia dello zio di Rispoli, Raimondo Rampini,
anch’esso direttore di un Carro di Tespi. In compagnia con il D’Antoni
agiscono, oltre al capocomico e a sua moglie (Antonietta
Rampini), Emma Mollica, Carlo Cipolla e Liliana Grandi (sua
moglie), Aligi De Rosa e signora, Rina Pinzauti, Tina Zambonini,
Telemaco Cipolla (padre di Carlo) e Lia De Francisci. È ancora
la Toscana ad essere battuta da tale compagnia: ben due mesi a
Pisa (marzo e aprile 1955) e poi a seguire il Galluzzo
(maggio-giugno e metà luglio), Brozzi (seconda metà di luglio),
Ponte a Ema (settembre-ottobre).
Il biennio 1956-1958 vede Luciano
D’Antoni scritturato, ancora senza sua madre, nella compagnia
Moretti-Consonni. Le zone da loro più battute erano la costa
ligure (Oneglia, Imperia, Savona) e il nord della Toscana. Il
repertorio non mostrava grandi novità rispetto a quello già
conosciuto nelle altre compagnie: si inscenavano a maggioranza
le opere di Dario Niccodemi, Sem Benelli, Gabriele D’Annunzio e
Nino Berrini, concluse, come imponeva una tradizione
plurisecolare, dalla farsa.
A riprova del pregiudizio che
ormai circolava negli ambienti intellettuali su siffatte
compagnie, D’Antoni ricorda il tono sprezzante con cui un
cronista locale stimmatizzò l’erezione del Carro di Tespi di
fronte al teatro Chiabrera di Savona, scrivendo: “non possiamo
non stupirci di veder sorgere davanti alla mole imponente del
teatro Chiabrera una baracca che ci ricorda quella dei campi di
concentramento.”
Nonostante l’impari confronto con
il teatro antistante, la compagnia Moretti-Consonni con la sua
“baracca” riscosse comunque un grande e conclamato successo.
E fu proprio al Chiabrera,
durante un matiné, che il D’Antoni vide recitare, per la
prima volta, le sorelle Gramatica nell’opera Le medaglie
della vecchia signora: primo attore Carlo Lombardo. Durante
quello spettacolo, di fronte a quelle insuperate artiste,
Luciano D’Antoni sentì nascere in sé l’aspirazione ad una
carriera più luminosa, un desiderio vivo di solcare le scene dei
grandi teatri italiani, al fianco di artisti unanimemente
acclamati e riconosciuti. Per un attimo accarezzò l’illusione di
potersi lasciare alle spalle il mondo delle baracche.
Eppure il microcosmo dei “guitti”
doveva continuare ad essere ancora, per molti anni, il suo unico
orizzonte.
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L’anno 1958-59 vede il D’Antoni
tornare, col ruolo di “primo attore”, nella compagnia “Teatro
Viaggiante”, condotta da Raimondo Rampini (immagine n°6). Con
lui, in compagnia, Tonino Orlando, Cesira Pinzauti, Alfredo
Martini, Luigi Ferrarazzi e l’immancabile Jole D’antoni.
Il repertorio era immutato,
immutate le condizioni di vita (alloggi improvvisati, camere in
affitto, manifesti scritti a mano, il terrore del vuoto in sala)
e identiche le dinamiche artistiche.
Nella Gazzetta dell’Emilia
del venerdì 23 gennaio 1959, un lungo articolo tesseva le lodi
di questa compagnia che, a Carpi, era stata capace di inscenare
ben 110 opere diverse, registrando ogni sera un “tutto esaurito”
e creando un vero – metonimico – fanatismo tra il pubblico.
Nonostante tutto sembri
immutato, il tempo ha giocato però le sue carte: le vecchie
compagnie tradizionali sembrano ogni giorno di più trasformarsi
in strutture giurassiche, con repertori anacronistici. Esse
sopravvivono a se stesse, ma ormai quasi solo di ricordi e di
rimpianti. Il cinema e la televisione, di sera in sera,
sottraggono loro gli spettatori e la loro arte si impoverisce
insieme alle loro finanze. Un terremoto sta per travolgere i
vecchi comici girovaghi. |
Immagine 6, compagnia
"Teatro Viaggiante" |
Dal 1959 in avanti, Luciano D’Antoni
inizierà ad incrociarsi, per motivi lavorativi e personali, ad
una nota famiglia d’arte: i Carrara.
In un primo tempo, fu scritturato
dalla compagnia Carrara-Laurini, condotta da Masi Carrara e sua
moglie Argia Laurini. La loro collaborazione però non durò più
di una stagione: per uno strano groviglio di amori e passioni,
di contorte relazioni tra Luciano Argia Masi e una giovane
attrice, per quell’inguaribile dongiovannismo di cui Luciano è
affetto e che non può non creare vittime e nemici, crescerà una
forte ostilità da parte del capocomico nei confronti del bel
giovane, che si vide così costretto ad andarsene e a cercare
“scrittura” altrove.
Quell’altrove, in verità,
altro non fu che la compagnia “I Commedianti”, diretta da Nelly
Carrara (sorella di Masi) e Vittorio Anselmi. Oltre ai due
citati capocomici, Luciano in compagnia ritrova vecchie
conoscenze: Carlo Cipolla e Liliana Grandi (sua moglie), Giusy
Carrara (sorella di Masi e Nelly), suo marito Mundes Tieghi,
Memi Bellettati, Ucci Tiso e l’immancabile Jole D’Antoni
(immagine n°7).
Apparentemente, fatta eccezione
per i mutati compagni d’arte (ma anche questa in fondo non era
che una routine per i comici girovaghi), non c’era nulla
di nuovo sotto il sole. Apparentemente, appunto! E invece
Luciano, senza poterlo minimamente immaginare, aveva imboccato
quella via che, da lì a pochi anni, lo avrebbe condotto in un
contesto teatrale del tutto nuovo rispetto a quello dei vecchi
comici.
La compagnia Carrara-Anselmi è di
stampo tradizionale per quanto riguarda la mobilità e si sposta
con il suo grosso padiglione ligneo nell’Italia del nord-est,
vantando un vasto repertorio (all’incirca cento opere),
innovativo rispetto a quello ormai trito e stantio delle altre
formazioni.
Dopo aver attraversato Venezia,
Muggia, Cividale del Friuli, Portogruaro, e molte altre città
del Friuli e del Veneto, la compagnia Carrara-Anselmi giunse a
Trieste e qui, contro ogni previsione, rimase in pianta stabile
per almeno due anni, limitandosi a spostare il proprio
padiglione tra le varie piazze della città, compresa Piazza
dell’Unità (Punta del Forno).
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Immagine 7, Carlo Cipolla
e Liliana Grandi (sua moglie), Giusy Carrara (sorella di
Masi e Nelly), suo marito Mundes Tieghi,
Memi Bellettati, Ucci Tiso e l’immancabile Jole D’Antoni
|
Ma per comprendere veramente il
successo che “I Commedianti” ottennero presso il pubblico
triestino, non è sufficiente sottolineare la loro lunga
permanenza in città, ma è necessario evidenziare almeno altri
tre aspetti che confermano l’indiscusso gradimento di cui essi
godevano.
In primo luogo il D’Antoni
ricorda, con una punta d’orgoglio, come durante la settimana,
quando era consuetudine per i vari attori dare la loro
beneficiata (o serata d’onore), il pubblico li omaggiasse
non solo di applausi fragorosi, ma addirittura di fiori, regali
preziosi, gioielli, orologi…
L’orgoglio si trasforma poi in
commozione mentre racconta che la stessa generosità, quel
pubblico, la dimostrò quando la bora spaccò drammaticamente il
tendone della compagnia, mettendo così in ginocchio gli
attori, privati del loro unico mezzo di sostentamento. Gli
spettatori più fedeli arrivarono al punto di promuovere
addirittura una sottoscrizione pubblica per dotare i loro
beniamini di un nuovo tendone.
Tanto è alto il gradimento del
pubblico triestino verso tali artisti che, per due inverni,
venne loro concessa la direzione del teatro presso La Repubblica
dei Ragazzi, a Palazzo Vivante.
Quello tra la Carrara-Anselmi e
Trieste sembra essere divenuto un sodalizio così duraturo e
inestirpabile, da risultare altamente pericoloso per il
neonato Teatro Stabile che, ogni sera, vede buona parte del
suo pubblico volgere i propri consensi verso quei “ciarlatani”.
Eppure sono proprio quei
ciarlatani a mettere in crisi l’austero e imponente Rossetti
che, ben presto, si vide costretto, suo malgrado, a scendere a
patti con loro.
DA GIROVAGO A “STABILE”
Guardandoli agire sul
palcoscenico, la direzione dello Stabile fiuta che tra di loro
ci sono alcuni artisti di pregio che possono essere “sfruttati”
a proprio vantaggio. Dopo varie considerazioni, dunque, decide
di prelevarne alcuni e di inserirli nel proprio organico. Tra
gli attori a cui toccò in sorte di esser pescati ci fu
anche il nostro Luciano D’Antoni, insieme a Giusy Carrara, che
comparirà al fianco di Luciano in ben diciassette spettacoli e
rispettive stagioni teatrali.
Il D’Antoni si trovò così, alle
soglie dei trent’anni,tato fuori da quel sistema
teatrale che lo aveva nutrito e formato: il funzionamento dei
teatri Stabili, infatti, era assai diverso rispetto alla vita
degli “scavalcamontagne” e anche lo stile di vita, ad esso
correlato, decisamente meno sfiancante e più dignitoso,
nonostante – forse – meno magico e rocambolesco.
E con lui, fedele come solo una
madre sa essere, “si fermò” anche Jole D’Antoni: dopo un’intera
esistenza dedicata esclusivamente alla “traversata”, decise di
scegliere Trieste come sua fissa dimora, come luogo nel quale
attendere pazientemente il ritorno del figlio. Non vi fu per lei
alcun dubbio: guardando sé e Luciano, comprese che erano due
creature sole e forti unicamente del loro reciproco amore. L’uno
senza l’altra non sarebbero stati altro che dei sonnambuli in
un’esistenza vuota e fredda d’abbracci. E tanta fedeltà al
proprio ruolo di madre conferma – se mai ce ne fosse bisogno –
che si è “femmine un giorno e poi madri per sempre, nella
stagione che stagioni non sente”.
E così nel 1963 ebbe
ufficialmente inizio quella collaborazione artistica tra Luciano
e lo Stabile di Trieste che perdurerà ininterrotta per ben
trent’anni, intessuta di prestigiose collaborazioni, assoluta
fiducia e fedeltà reciproca. Luciano vide finalmente
profilarsi all’orizzonte la possibilità di realizzare i propri
sogni, quei sogni che a Savona, al Teatro Chiabrera, lo avevano
rapito in estasi mentre ammirava l’arte sublime delle sorelle
Gramatica.
Basterebbe scorrere la
“Cronologia degli spettacoli” posta in Appendice, per accorgersi
che con lo Stabile egli ha veramente realizzato il sogno di
ogni attore: ha inscenato le opere dei più grandi drammaturghi
d’ogni tempo (Shakespeare, Goldoni, Machiavelli, Ruzante,
Dostoevskij, fino ai più recenti Pirandello, Pasolini, Svevo…);
ha collaborato con i nomi più insigni della storia del teatro
contemporaneo (a cominciare dall’arte creativa di Sergio D’Osmo,
costumista scenografo e direttore artistico dello Stabile per
decenni), per proseguire con i primi attori e le prime donne
della prosa novecentesca (Gabriele Lavia, Mariangela Melato, Ugo
Pagliai, Renato Rachel, Corrado Pani, Valeria Moriconi, Pina
Cei, Mario Scaccia); con lui hanno lavorato attori di buon nome
(Lea Padovani, Caterina Boratto, Leopoldo Mastelloni, Lino
Toffolo, Renzo Montagnani, Ilaria Occhini); nella sua lunga
carriera ha visto esordire tanti giovani artisti, tra cui
Francesco Pannofino, Kaspar Capparoni e addirittura Paolo Rossi,
in Karl Valentin Kabaret, con la regia di Pressburger; e,
a proposito di regie, il D’Antoni ha avuto il raro privilegio di
essere diretto dalle più prestigiose firme dell’ultimo mezzo
secolo, da Giuseppe Patroni Griffi a Roberto Guicciardini, da
Giorgio Pressburger a Franco Enriquez, da Francesco Macedonio a
Sandro Bolchi ecc. Ma al di là di queste personalità
di spicco, le figure a cui il D’Antoni è più legato, per affetto
stima e memoria, sono quei “compagni d’arte” con i quali ha
passato tante stagioni, non solo teatrali ma della
propria esistenza, quegli attori che, da un anno all’altro,
hanno nobilitato il nome dello Stabile del Friuli Venezia Giulia
in tutta la penisola.
E mi riferisco agli artisti Lino
Savorani, Giorgio Valletta, Mimmo Lo Vecchio, Orazio Bobbio,
Elisabetta Bonino, Lidia Braico, Giusy Carrara, Franco Jesurum,
Saverio Moriones, Ariella Reggio e Gianfranco Saletta. Questo
gruppo diverrà da ora in avanti, nel mio racconto, il gruppo dei
dodici.
Con la gran parte di loro, ora
con l’uno ora con l’altro, il D’Antoni si trovò a recitare fin
dal suo primo ingresso allo Stabile e dal 1963 al 1970 vi
collaborò in uno o due allestimenti per stagione: saranno
insieme ne Gli Ingannati, Accademici Intronati di Siena
(1963-64), ne La breccia (1963-64), in Come vi piace
(1964-65), in Romagnola (1964-65), ne Il
martirio di Lorenzo (1965-66), in Sior Tonin
Bellagrazia (1966-67), ne Il bugiardo (1967-68),
ne La fiaba di Bertoldo (1968-69), in F. T.
Marinetti e i Futuristi (1968-69), ne I nobili
Ragusei (1969-70), e infine ne Il maggio francese
(1969-70).
Solo in Canto e Controcanto
(1966-67) di Furio Bordon, regia di Giovanni Poli,
Luciano D’Antoni si trovò a recitare da solo rispetto ai suoi
“stabili” compagni d’arte. Prima attrice Mariangela Melato. La
critica fu concorde nel riconoscere l’ottima esecuzione degli
interpreti e il loro affiatamento.
È degno di nota che nell’anno comico 1964-65, nelle due
produzioni succitate di Come vi piace e Romagnola,
tra gli attori scritturati risulti anche il vecchio Oreste
Cordiviola, quell’inguaribile femminaro che il D’Antoni
aveva conosciuto da bambino e poi incontrato tante volte in giro
per l’Italia. La sua presenza allo Stabile indica, in modo
inequivocabile, che il mondo dei guitti era stato messo
definitivamente fuori gioco e che un intero sistema teatrale era
stato costretto a convertirsi ad altro, pur di non
rimanere schiacciato sotto il crollo dei propri teatri lignei.
Persino un capocomico di antica tradizione come il Cordiviola,
persino un istrione indomito e refrattario ad ogni regola come
lui, si trovava ora costretto ad accettare scrittura
presso dei padroni che di lui avrebbero potuto disporre a loro
piacimento. E il Cordiviola non sarà l’unico incontro del
D’Antoni con i vecchi compagni d’arte: nel
1966-67 passerà dallo Stabile un
altro suo vecchio amico, Emilio Marchesini (interprete di
Misura per Misura, con la regia di Luca Ronconi), fratello
di Raffaello e compagno del D’Antoni nella compagnia di Oberdan
Nistri; e infine nel ‘73-‘74 Luigi Carani (più noto come Bibi),
anche lui figlio d’arte, discendente della dinastia artistica
Croce-Carani, nipote del Cordiviola e per anni scritturato dal
Nistri.
Questo breve quadro appena
tratteggiato ci dimostra come il vecchio sistema teatrale fosse
strutturato su dei veri e propri clan familiari che, per
secoli, si tramandavano l’arte attorica, si incrociavano di
continuo tra loro, restando sempre i medesimi, in un sistema
dinastico chiuso e rigido. Ma con gli anni Sessanta del ‘900,
tutto questo sistema venne spazzato via dalla modernità e la
presenza dei vecchi comici in compagnie stabili
diviene per noi il
segno più palpabile che un’epoca teatrale, durata quattrocento
anni, era per sempre –
e irreversibilmente –
tramontata.
Eppure, nonostante questi grandi rivolgimenti, ancora sul finire
degli anni Sessanta non sembrano affatto attenuati i pregiudizi
che, da sempre, avevano pesato sui comici, così diversi
dalla società dei “normali” da venire, ora, esaltati e adorati
ma, altre volte, denigrati ed infamati. In tal senso D’Antoni
ricorda, con un sorriso in parte compiaciuto, un gemellaggio
avvenuto tra lo Stabile triestino e il teatro de L’Aquila, con
l’opera La fiaba di Bertoldo. Tale gemellaggio prevedeva
vari debutti in molti altri teatri dell’Abruzzo e dell’Umbria.
In un tardo pomeriggio invernale, col sole già tramontato dietro
le montagne, immersi nel freddo dell’Appennino, a bordo di in un
pulmino sgangherato, i dodici ebbero l’esigenza di
fermarsi in un piccolo paese dalle vie semideserte. Dietro vetri
fumanti e trasudati, gli attori se ne stavano raggomitolati nei
loro cappotti e, sul fondo, Franco Jesurum e Franco Mezzera
erano affogati sotto una coperta ruvida e pesante. Ad un tratto,
una mano s’agitò dall’esterno dell’abitacolo e, strofinando i
finestrini, cercò di toglier via la nebbia che li appannava: era
un ragazzo sui sedici anni, un po’ tozzo, bruno e dal viso
ruvido. Ficcò gli occhi dentro il pulmino, scrutò ad uno ad uno
i visi rattrappiti degli attori e poi, fracassando l’aria con un
richiamo ciclopico, radunò intorno a sé altri giovanotti del
luogo, accorsi lì al grido di “accurrete accurrete… sono
arrivati li froci e le puttane”. Erano passati ben
venticinque secoli da quando Solone aveva stabilito la cacciata
degli attori da Atene per immoralità; erano trascorsi
quattrocento anni dalle invettive infuocate del cardinal Carlo
Borromeo che li aveva addirittura identificati come emissari di
Satana; e sembrava ormai lontano anni luce il tempo in cui ai
comici non era neppure concessa la sepoltura in terra
consacrata, eppure… eppure ancora in pieno Novecento, mentre
negli USA in quello stesso 1969 si svolgeva a Woodstock il
festival rock più trasgressivo della storia, il pregiudizio
verso di loro, in certe regioni dell’Italia centro-meridionale,
non sembrava esser cambiato poi molto. Segno di un’Italia ancora
bambina, forse provinciale, ingenua e aggressiva allo stesso
tempo e, come ben descrive D’Annunzio delle sue tragedie, legata
ad ataviche tradizioni irrigidite dal tempo. Apparentemente
immobile.
E invece qualcosa di tragicamente
nuovo stava per investirla. Dalla terra d’Abruzzi ci spostiamo
ora nella capitale lombarda, sul finire dello stesso 1969. È la
sera del 12 dicembre e Luciano D’Antoni si trova al Lirico di
Milano con Giulio Bosetti. Ad un tratto un’esplosione devastante
fece tremare ogni strada, ogni vicolo e macchiò di sangue Piazza
Fontana, Milano e l’Italia intera. I magnifici anni Sessanta si
concludevano così con quell’evento che avrebbe inaugurato un
lungo periodo di terrore e di violenza. Il sogno di un mondo di
pace e di benessere veniva di colpo ad infrangersi. Per tutti.
Siamo ormai nel 1970: non erano
passati che soli sette anni dalla sua rivoluzionaria
conversione al teatro di Trieste, che Luciano D’Antoni si trova
ad essere protagonista di un’altra rivoluzione, di un
esperimento unico e del tutto innovativo nell’intero panorama
teatrale nazionale. Nell’ottobre di quell’anno,
Luciano D’Antoni, insieme agli altri undici, diviene
membro della Compagnia Stabile del Teatro Stabile del
Friuli-Venezia Giulia, firmatario addirittura di un contratto di
assunzione a tempo indeterminato, con tredici mensilità, a cui
si aggiungevano trasferte ferie e malattie retribuite, nonché
l’accantonamento di una liquidazione. Benefici davvero inauditi
per i lavoratori dello spettacolo! E così, ben presto e per
tutti, tale gruppo di artisti divenne il gruppo dei dodici
per antonomasia, benedetti da Dio quasi come i Dodici di biblica
memoria.
La loro era una condizione
lavorativa che aveva – ed ha tutt’oggi – un qualcosa di davvero
stupefacente, ma tanto più per chi, come il D’Antoni, era
cresciuto cercando scrittura di anno in anno, senza mai la
certezza che il giorno a venire gli avrebbe garantito la
sopravvivenza. Nel triennio d’oro 1970-73, i
dodici inscenarono opere di grandissimo successo, composte
dalle penne più celebri del teatro europeo: da La Mandragola
di Nicolò Machiavelli (nella riduzione di Furio Bordon), al
Parlamento Bilora del Ruzante; da Delitto e Castigo
di Dostoevskij (nella riduzione di Dante Guardamagna), ad
Avvenimento nella città di Goga del drammaturgo Slavko Grum.
Ma le due produzioni che più
simboleggiarono questo triennio furono, nella stagione 1970-71,
Le Maldobrie di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna e,
degli stessi autori, ma due anni dopo, Noi delle vecchie
provincie (immagine n°8), opere entrambe dirette da
Francesco Macedonio. A quest’ultimo spettacolo partecipò, al
fianco del figlio, anche Jole D’Antoni. Per comprendere il successo e il
valore di questi due spettacoli basti dire che sono unanimemente
ricordati come quelli che hanno registrato il maggior numero di
presenze nei primi quarant’anni di vita dello Stabile. Un vero
trionfo artistico, di pubblico e di critica (e queste tre cose
non sempre coincidono!)
Il gruppo dei dodici
insomma lavora bene, è affiatato e allestisce spettacoli di
qualità e di successo. Il pubblico e la critica non sembrano
aver nulla a che ridire e anche gli attori sono evidentemente
soddisfatti (e non solo della loro insolita condizione
contrattuale). Eppure da lì a poco, per loro, tutto sarebbe
mutato.Parafrasando De Andrè, potremmo
dire che anche questo straordinario esperimento, come tutte le
cose belle della vita, non riuscì a vivere più di un giorno,
bello e fragile proprio come le rose.
Nell’agosto 1973, infatti, il
vento, finora in poppa, tornò avverso ai dodici. Contro di loro si levarono
l’onnipotente eminenza di Guido Botteri e l’allora direttore
organizzativo Enrico Rame.
Dopo tante riunioni
straordinarie, dibattiti pubblici, manifestazioni di protesta e
strumentalizzazioni politiche, il conclave dei potenti si
concluse con una fumata nera: il consiglio di amministrazione
deliberò – nonostante i dissensi della stampa, dell’intero mondo
teatrale e la dura battaglia ingaggiata dai Sindacati – il
licenziamento “per giusta causa” dei dodici attori che tornarono
così a malincuore – e convinti di essere stati vittime di un “grave
atto di repressione dei loro diritti sindacali” – ad un
“normale” contratto di prestazione stagionale, rinnovabile di
anno in anno, secondo le esigenze dello Stabile e decisamente
più restrittivo rispetto al precedente.
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Immagine 8, manifesto dell'opera "Noi delle vecchie
provincie |
Finì così, in modo piuttosto
polemico, ambiguo e rancoroso, un magnifico e irripetibile
tentativo di costruire un teatro innovativo e finalmente
garantista dei diritti più inviolabili del lavoratore.
Il D’Antoni si ritrovò così in
quella condizione esistenziale di precarietà che aveva da sempre
contraddistinto la sua vita e quella di tutti i suoi antenati.
Non solo decadevano per lui tutti i diritti acquisti (ferie,
malattia, liquidazione…) ma, cosa davvero pesante da sopportare,
ricominciava quella ricerca stagionale di “scrittura”, quel
vivere alla giornata, che non può mai fare progetti sul domani,
perché il domani, per un attore, non esiste. Per l’attore esiste
solo il nunc, nient’altro che il nunc.
Ad ogni autunno, il dado deve
sempre essere rilanciato e il rischio che il lancio sia talvolta
sfavorevole è altissimo. Basta un cambio di Direzione, oppure un
regista che si muova già corredato di un proprio personale
artistico, o qualunque altro minimo inciampo, ed ecco che il
povero scritturato si può trovare sbalzato fuori dalla
programmazione annuale e deve così andarsene ad elemosinare
un contratto chissà dove e chissà a quali condizioni. Il concetto di stabile
tornava così ad essere riferibile solo ed esclusivamente
all’edificio teatrale e non certo alla condizione di coloro che
vi avrebbero lavorato. Per loro, infatti, nulla era stabile:
alle loro orecchie, quel termine “stabile” suonava
crudelmente ironico, quasi come una goliardica beffa verso le
loro traballanti esistenze.
In mezzo a tali e tante
fluttuazioni, si presentò ben presto al D’Antoni un inquietante
bivio, la più difficile tra le decisioni: scegliere l’assoluta
incertezza (pur di dedicarsi con entusiastica passione all’arte
recitativa, che si esalta in quell’applauso che a te solo è
concesso, anche se poi ti costringe a mendicare un tozzo di
pane) oppure accettare di retrocedere dalla ribalta e umilmente
svolgere ogni mansione, pur di condurre in modo dignitoso la
propria vita, senza troppi incanti né incubi?
Luciano, in tal senso, è un
figlio della guerra, cresciuto in un’Italia devastata dal
conflitto e allevato in quel mondo di guitti che, come
lui sempre ama ripetere, non sapeva come fare a
mettere insieme il pranzo con la cena. È figlio di quella
“nobile miseria” dei comici dell’arte e, come tale, cosciente
del valore del denaro. Ciò lo condurrà a compiere, senza troppi
ripensamenti e senza vergogna, la propria scelta, una scelta
dettata da un innato e acquisito pragmatismo che sa che di
illusioni e di ideali si può anche morire.
E così, di anno in anno, di
scrittura in scrittura, il D’Antoni si darà disponibile a
ricoprire, oltre al ruolo di interprete, anche quello di
suggeritore, amministratore… tutti compiti tutt’altro che
secondari per la buona riuscita di uno spettacolo.
Che poi tutti questi ruoli lui li
abbia svolti con grande professionalità ed indiscussa
affidabilità, lo dimostra il fatto che, per trent’anni
consecutivi, senza mai un rifiuto né un’eccezione, lo Stabile
triestino si sia avvalso della sua competenza e professionalità.
Basta infatti passare, anche solo rapidamente, in rassegna la
cronistoria dettagliata degli spettacoli – posta in appendice –
per accorgersi che l’unica presenza davvero “stabile” nella
storia dello Stabile triestino è quella di Luciano D’Antoni.
Prova inoppugnabile che, per quel teatro, il D’Antoni è stato,
per trent’anni, figura insostituibile e indispensabile.
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Riprendiamo però il filo rosso
del racconto: il nostro intento infatti è quello di seguire
l’artista D’Antoni attraverso la sua carriera d’attore e, come
tale, lo ritroviamo nella stagione 1973-74 ne Il capitano di
Kopenick con Renato Rachel, e l’anno successivo
(1974-75) nell’opera di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna,
L’Austria era un paese ordinato (immagine n°9).
Nel 1974, tradendo la sua natura
di artista da palcoscenico, parteciperà allo sceneggiato
televisivo Rai in sei puntate, Anna Karenina,
regia di Sandro Bolchi, accanto a figure artistiche di notevole
pregio come Lea Massari, Pino Colizzi, Giancarlo Sbragia, Marina
Dolfin, Mario Valgoi, Caterina Boratto.
Il 1975 si connota per il
D’Antoni per due circostanze piuttosto particolari: per un
verso, fu questa la prima e unica stagione della sua vita in cui
non prese parte a nessuno spettacolo in veste di interprete;
dall’altra, mentre era in una tournée internazionale con
l’opera di Goldoni Sior Todero brontolon,
ricevette dall’AGIS (Associazione Generale Italiana dello
Spettacolo) una Medaglia d’Argento per i suoi 25 anni di
attività e “per aver validamente contribuito all’affermazione
ed allo sviluppo del teatro drammatico nazionale”. In
quell’anno il D’Antoni aveva solo quarantuno anni ed era, senza
dubbio, il più giovane attore italiano a poter vantare un tal
riconoscimento. |
Immagine 9, Luciano D'Antoni in "L'Austria era un paese
ordinato" |
Il 1976 è l’anno dello scisma.
Il famigerato gruppo dei dodici che, nonostante i
dissapori di tre anni prima, era rimasto saldamente ancorato
allo Stabile del Friuli-.Venezia-Giulia, nel ’76, invece, si
spacca: tre di loro –
Ariella Reggio, Orazio Bobbio e Lidia Braico –, supportati dal
regista Francesco Macedonio, fondarono il Teatro Popolare
La
Contrada
(assurto poi a Teatro Stabile di Trieste), che
divenne antagonista del Rossetti.
Fatta eccezione del succitato
1975, le stagioni che seguirono videro tutte il D’Antoni
operativo sul palcoscenico: nel 1976-77 prese parte a due
spettacoli, il primo di
Fulvio Tomizza, L’idealista (immagine
n°10), a fianco di Corrado Pani, e il secondo
Roulette, con la regia di Roberto
Guicciardini.
Durante l’estate del ‘76, nel
periodo di pausa dell’attività dello Stabile, il D’Antoni fu
scritturato dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA),
all’interno della magnifica cornice del teatro greco di
Siracusa, per la messinscena de La fune, del
commediografo latino Tito Maccio Plauto, con la regia di De
Martino.
Nel ‘77-’78 lo Stabile inscenò
una magnifica produzione dal titolo Storie del bosco viennese,
con la regia di Franco Enriquez e un cast davvero d’eccezione
(Valeria Moriconi, Corrado Pani, Pina Cei…). Dopo tre anni, e
per la quarta volta, Luciano si trovò a recitare ancora a fianco
di sua madre, anch’essa scritturata tra gli interpreti.
Storie di un bosco viennese
ebbe addirittura l’onore di essere inscenato nel celeberrimo
Burgtheater di Vienna, uno dei teatri più all’avanguardia
d’Europa, voluto nel ‘700 dall’imperatrice Maria Teresa
d’Austria e celebre per aver assistito a ben tre “prime” di W.
A. Mozart. Al Burgtheater, gli attori dello Stabile triestino
furono accolti con vere ovazioni dal pubblico viennese, pubblico
raffinato, abituato a grandi messe in scena, e solitamente
piuttosto freddo nelle proprie dimostrazioni di stima. Prova
incontrovertibile della maestria dei nostri attori.
Gli anni Settanta si conclusero
con una serie di spettacoli di notevole interesse intellettuale:
nella stagione 1978-79, La coscienza di Zeno, del
triestino Italo Svevo, con la regia di Franco Giraldi, e nel
1979-80 Calderon, di P.P. Pasolini, replicato l’anno
successivo (1980-81) sempre sotto la direzione di Giorgio
Pressburger che, in quello stesso anno, diresse anche
Karl Valentin Kabaret,
che si rivelò però un fiasco clamoroso. |
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Immagine 10, Luciano D'Antoni ne "L'idealista" |
Ed eccoci così arrivati ad un
altro decennio: gli anni Ottanta. Dall’inizio del nostro viaggio
sembrano passate davvero intere ere glaciali, tanto l’Italia è
cambiata in questo breve intervallo di tempo: non solo è
diventata uno dei paesi più ricchi del mondo, ma, come l’intero
pianeta, ha subito trasformazioni radicali in ogni ambito.
Ma gli anni Ottanta, nel nostro
racconto, saranno più che altro gli anni dell’addio alle scene,
della tela che cala senza più riaprirsi. Nei primi anni Ottanta, si
susseguiranno produzioni di cui il D’Antoni non conserva che una
fioca memoria, quali Das Kapital (stagione 1981-82),
L’Affare Danton e Bouvard e Pecuchet (entrambe nel
1982-83) e, infine, Romolo il grande (1983-84), con Mario
Scaccia.
Dopo un ventennio di
semi-sedentarietà, il D’Antoni è ormai penetrato in ogni piega
della vita artistica triestina. Non solo è amico dei più grandi
attori dello Stabile, primo fra tutti Lino Savorani, ma con il
tempo ha costruito una rete di rapporti che lo conducono ad
importanti collaborazioni in molti altri settori, favorendo
un’attività lavorativa così intensa da risultare impegnato
dodici mesi all’anno, ogni giorno, dalla mattina fino alla tarda
notte, assumendo gli incarichi più disparati.
Da quando per esempio , nel 1970,
è entrato a far parte del gruppo dei dodici, Luciano,
ogni mattina, per tre o quattro volte alla settimana, si reca
nelle sedi triestine della RAI, per prestare la sua voce a
sceneggiati e a programmi radiofonici per i ragazzi delle scuole
(fiabe, leggende, mitolgia…), sotto la regia di Ruggero Winter e
Ugo Amodeo. Con loro lavora ad una media di cento (centoventi)
programmi all’anno che, moltiplicati per dodici annate, arrivano
ad un numero davvero considerevole di produzioni. E in tutte
queste narrazioni via radio, il volto del D’Antoni scompare e
resta solo la sua voce, una voce robusta e calda.
Ed è sempre grazie alla sua
voce che verrà insignito del titolo di maestro presso
il teatro lirico Giuseppe Verdi. Ancora una volta, a partire dal
1970 (si metteva in scena Il paese dei campanelli), e per
circa quindici anni, durante tutto il periodo estivo (tempo di
inattività della prosa), il D’Antoni sarà maestro-suggeritore
in pianta stabile nel Festival dell’Operetta di Trieste,
festival rinomato in tutta Europa. Collaborerà per molte
stagioni con il talento di Gino Landi e di Sandro Massimini,
considerato il “re dell’operetta”, colui che l’aveva
rivitalizzata,
ripulendola delle volgarità e velocizzando la rappresentazione,
tanto da accostarla, per certi versi, al musical.
E infine, nel 1982, il D’Antoni
prenderà parte, con un piccolo ruolo, ad un film commedia di
Pasquale Festa Campanile, con Renato Pozzetto, dal titolo, non
troppo promettente, Porca vacca.
Ma il millenovecentottantadue si
caratterizzerà soprattutto per un’esperienza davvero eccezionale
per l’epoca: la compagnia marionettistica I Piccoli di Podrecca,
dello Stabile triestino, fu invitata nientemeno che nella
“grande madre Russia”, a spese del governo sovietico. D’Antoni
risultava amministratore unico della compagnia. Siamo ancora in
piena “guerra fredda” e i confini dell’URSS sono davvero
invalicabili per la gran parte degli occidentali. Eppure l’arte
è riuscita a oltrepassarli, grazie alla sua potenza comunicativa
che è capace di scardinare ogni separazione, sociale e politica.
D’Antoni si trovò immerso in una realtà lontana, diversa,
intessuta di un’umanità accogliente e generosa, ma anche di una
claustrofobica sorveglianza da parte del regime, con spie del
KGB disseminate ovunque, magari sotto le vesti di magnifiche e
insospettabili ragazze bionde. Un mondo quasi fiabesco, sospeso
in fumide atmosfere nordiche, ma anche spettrale per il clima
inquisitoriale nel quale galleggiava. Ma di questo suo soggiorno
al di là della cortina di ferro, D’Antoni conserva più che altro
l’immagine nitida di una giovane studentessa, Natalia, sdraiata
sul letto della sua cameretta, arredata con due sole mensole e
su di esse una guida turistica di Firenze. In sottofondo, i
suoni carezzevoli e struggenti delle canzoni di Edith Piaf.
Notti di passione, di champagne e caviale; notti di baci
insaziabili e di candida tenerezza. Poi però l’aereo si rialza
in volo… e anche il volto di Natalia s’invola.
Seguirono due stagioni teatrali
(1984-85/1985-86) che – forse perché sotto la direzione di due
sue vecchie conoscenze nonché due illustri firme della regia
teatrale italiana, quali Roberto Guicciardini e Giorgio
Pressburger – segnarono altre due importanti tappe nella
carriera umana ed artistica del D’Antoni. Attraverso i
villaggi di Peter Handke, nella traduzione di Roberto Zorzi
(immagine n°11) ed Eroe di scena, fantasma d’amore (Moissi),
dello stesso Pressburger, si stamparono indelebili nella sua
memoria.
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Eh sì, la memoria… una memoria
che talvolta però tradisce, fallisce, cilecca. Nel
Moissi (immagine n°12) Luciano D’Antoni era,
contemporaneamente, interprete e amministratore dello
spettacolo. Costretto a starsene nel botteghino fino all’attimo
prima dell’apertura del sipario, doveva poi correre dietro le
quinte per cambiarsi d’abito ed entrare in scena. Nello
spettacolo impersonava Max Reinhardt, noto regista e attore
austriaco. Non una lunga parte, la sua, ma comunque un ruolo
intenso.
Claudio Gora dal canto suo, uno
degli interpreti principali dello spettacolo, data la sua
anzianità e qualche vuoto di memoria, aveva imposto al regista
un suo personale suggeritore, l’unico di cui si fidasse davvero:
Luciano D’Antoni. Gora si era addirittura rifiutato di salire in
palcoscenico se, tra le quinte, non avesse visto Luciano, pronto
a dargli l’imbeccata qualora gli fosse sopraggiunta un’amnesia.
E Luciano non aveva avuto il coraggio di deludere quel suo
vecchio collega: confidava nelle proprie forze, pur cosciente di
sottoporle ad un ulteriore e pesante carico. Ma questa volta si
illuse, sbagliò.
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Immagine 11, Luciano D'Antoni ne "Attraverso i villaggi" |
Immagine 12, manifesto dell'opera "Eroe di scena
fantasma d'amore" |
Una sera, mentre sulla scena era
stato allestito il vagone di un treno che correva rapido
fendendo la notte, D’Antoni nei panni di Reinhardt avrebbe
dovuto sostenere un lungo dialogo con Carlo Simoni (Moissi). Ad
un tratto… il vuoto, il silenzio, il nulla: la memoria di
D’Antoni aveva cancellato ogni battuta, ogni frase e il
suggeritore aveva ora bisogno di essere lui stesso
suggerito. Simoni lo guardò attonito e, immediatamente,
capì. Capì la fatica di quel suo collega che ogni sera svolgeva
tanti, troppi, ruoli. Capì e lo soccorse… Una battuta, poi
un’altra e un’altra ancora e, a poco a poco, le tenebre nella
mente del D’Antoni lasciarono di nuovo il posto alla luce… Il
copione cominciò a riscriversi dentro di lui e quella scena, su
quel treno immerso nel buio della notte, acquistò una poeticità
tutta nuova e irripetibile.
Da narratore onnisciente, posso
anticipare al lettore che la carriera artistica del D’Antoni è
ormai vicina a concludersi, è prossima ad un evento che
squarcerà il velo del tempio e farà calare una notte buia
sulla sua vita. Prima dell’epilogo, però, ci
saranno ad attenderlo ancora tre importanti produzioni, che
vedranno la messa in scena de “Il Teatro nel Teatro di
Pirandello”, un ciclo di spettacoli in onore del genio siciliano
nel cinquantesimo della sua morte.
Nel triennio 1986-1989, sotto
l’egida di Giuseppe Patroni Griffi, lo Stabile di Trieste sarà
completamente assorbito in questo ambizioso progetto sulla
trilogia pirandelliana: Stasera si recita a soggetto,
Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo.
Luciano prenderà parte all’intera
trilogia con l’orgoglio di chi è cosciente di partecipare ad un
grande progetto culturale, ad una rilettura moderna e rinnovata
del sempiterno teatro pirandelliano, con le sue atmosfere
oniriche, le sue inquietanti presenze, con le sue contorsioni
mentali e con quei personaggi che, prima evaporano, per poi
rimaterializzarsi di nuovo di fronte allo sguardo attonito dello
spettatore.
Intanto però la vita da eterno
girovago è divenuta per lui una condizione usurante, nonostante
il suo sapore picaresco. Sì, perché il D’Antoni, da quando è
nato, non ha mai smesso un solo giorno di girovagare: prima al
seguito delle compagnie itineranti che, ogni quindici giorni,
cambiavano piazza e paese, senza mai la speranza di un porto
ultimo in cui approdare; poi al seguito delle tournée
dello Stabile che, di anno in anno, realizzava dei “gemellaggi”
artistici con gli altri teatri Stabili d’Italia e d’oltralpe.
L’unica compagna veramente fedele della sua vita sembrava essere
stata la valigia, l’unica sola presenza che ricompare in ogni
tappa della sua esistenza e in ogni suo ricordo. E insieme alla
valigia, gli altri grandi coprotagonisti erano stati la strada,
l’albergo e la trattoria: tutti simboli inequivocabili di una
vita sradicata, di una vita che non conosce né il tepore
né i suoni né gli odori consueti di una casa.
Certo, da quando è scritturato
dallo Stabile triestino, ad accogliere il D’Antoni ci sono
teatri di fama nazionale, locandine prestampate, alberghi
prenotati e confortevoli, viaggi che iniziano già sapendo il
risultato del partire; ad applaudirlo troverà centinaia di
persone, di medio-alta cultura; sa che di lui e dei suoi
compagni scriverà certamente la stampa e che, alla fine, sarà
ben remunerato di tutto questo faticoso viavai. Senza dubbio,
questo modo di viaggiare è ben più agevole rispetto alla
disperata ricerca di una piazza degli scavalcamontagne,
ai loro forni, alla paga che non arrivava mai puntuale,
alle fredde atmosfere del teatro viaggiante o ai miseri pranzi
preparati nel retro della baracca… È diverso, è vero: eppure
l’eterna odissea a cui l’arte lo ha sottoposto, con il tempo, si
è fatta sempre più difficile da sopportare. E il D’Antoni si
sente logoro e sfiancato.
Forse… si sente pure deluso:
nonostante abbia conosciuto gli interpreti più celebrati del
Novecento, a confronto con l’eroe della sua infanzia, Oberdan
Nistri, sembrano solo degli impiegatucci dell’arte
drammatica, con la fretta di timbrare l’uscita, mercenari del
teatro e non certo sacerdoti, interessati a vendere la loro arte
al miglior offerente e fintamente generosi con un pubblico he,
però, non hanno mai imparato a conoscere e rispettare fino in
fondo. Imprestati alle scene, talvolta sembrano persino incapaci
di imparare un testo a memoria anche dopo mesi e mesi di prove.
Quanta nostalgia per i vecchi comici della sua infanzia!
A tale logorio, a tanta
disillusione, andò a sommarsi poi un evento che svuotò di senso
la sua vita.
Nel 1989 accade infatti quello
che mai sarebbe dovuto accadere, quello che mai dovrebbe
accadere a nessun figlio: dopo una vita passata insieme – sposi
amanti e figli l’uno dell’altro – muore a Trieste, ottantenne,
Jole D’Antoni. Una notte senza stelle cala di
colpo sulla vita di Luciano: privato della madre – suo unico
affetto e legame – si trova ora solo e sperso, senza più nessuno
da cui tornare per ritemprarsi dalle proprie fatiche. Senza più
un seno sul quale poggiare la testa. Ed allora tutto è davvero
inutile. Tutto è vano.
L’ULTIMA STAGIONE
L’uomo dimentica. Si dice che ciò
è opera del tempo;
ma troppe cose buone, e troppe
ardue opere, si sogliono
attribuire al tempo, cioè ad un
essere che non esiste.
No: quella dimenticanza non è
opera del tempo;
è opera nostra che vogliamo
dimenticare e dimentichiamo
(Benedetto
Croce)
E così, dopo una vita in cui
altro non aveva visto né vissuto eccetto il teatro,
Luciano D’Antoni, a soli cinquantacinque anni, decide di
lasciare le scene. Il passato per lui deve divenire
definitivamente passato.
Presa questa decisione, il
D’Antoni si isolò dai suoi vecchi compagni d’arte, si ritirò ad
una vita lontana da ogni mondanità; serrò per sempre i cassetti
della memoria, i bauli del ricordo finirono in stanze deserte, e
i tanti volti incontrati e le innumerevoli parole apprese fin da
bambino evaporarono via, sempre più impalpabili, sempre più
evanescenti. È come se, scomparsa sua madre,
Luciano sentisse l’esigenza di scomparire lui stesso: nessuno
infatti può più esser se stesso dopo che ha perso la persona che
ama come se stesso.
La tela calò ed è rimasta chiusa
per lunghi venti anni, senza che nessuno più rispolverasse quei
vecchi ricordi o cercasse di sbirciarvi dentro. A poco a poco,
come canta Leo Ferrè nel magnifico testo Col Tempo,
Luciano D’Antoni prese a sentirsi deluso dalla vita, tradito
dagli anni perduti e, come inaridito, smise di rovistare tra
vetrine di morte, per non sentire la solitudine di troppi sabati
rimasti senza compagnia. E di lui nulla sarebbe rimasto se
quel ventre, che lo aveva contenuto prima di veder la
luce, non si fosse fatto, col tempo, contenitore anche della sua
memoria, unica luce capace di vincere le tenebre del nulla.
Sì perché, con un’opera paziente
e meticolosa, sua madre per decenni ha raccolto ogni suo
successo, conservandone le carte, le recensioni, le locandine,
le fotografie… Forse senza neppure saperlo, Jole
lo ha partorito per una seconda volta. Di nuovo – e questa volta per
sempre – lo ha amato sottraendolo alla seconda e definitiva
morte: l’oblio.
È ora che entro in scena io,
nella veste di amico, biografo, ma soprattutto di appassionato
delle vite altrui. Ho incontrato Luciano D’Antoni
seduto su una panchina di Trieste… in attesa… L’ho ascoltato per ore
raccontare, raccontarsi… e, di colpo, tutti i brandelli di
ricordo, inariditi e sparsi, hanno cominciato a ricomporsi, ad
inseguirsi, a riannodarsi… L’ho visto seduto sul suo letto e
lì a fianco, su un altro lettuccio vuoto, tutti i suoi abiti ben
piegati, ma mai riposti nell’armadio… Per terra: una valigia… in
attesa.
Sono io ora ad essere seduto nel
suo salottino, arredato tanti anni prima da sua madre e rimasto
immutato da allora.
È un caldo pomeriggio d’estate:
nella penombra di persiane socchiuse, mentre io guardo avido le
innumerevoli fotografie e le locandine rimaste dimenticate da
decenni dentro cassetti bui, lui è in piedi di fronte a me e,
con gli occhi ludici di commozione e la voce sinceramente
tremante da anziano signore, prende a dirmi:
Allora, mamma… ascoltate…sì…
riprendete con me una conversazione lontana, perduta,
dimenticata… una conversazione col vostro bimbo…. Ve ne
supplico… Non foss’altro che per curiosità… ascoltatemi un
momento, un minuto… e se sono ridicolo, non ci badate, mamma…
Avevo, forse, nove anni e una sera ero solo con voi, qui in
questa stessa stanza, ai vostri piedi davanti a questa stessa
poltrona… su questo stesso cuscino… Ecco… così… esattamente…
Guardavo le figure di un gran
libro… Ad un tratto, per una di quelle irresistibili curiosità
infantili, vi domandai: “Mamma, perché mi vuoi bene?...” Voi mi
avete presa la testa tra le mani, mi avete guardato in silenzio,
lungamente, con uno sguardo che è sempre il mio più gran
ricordo, e mi avete detto: “Piccolo, ti voglio bene perché…” Vi
siete fermata lì, e io molto soddisfatto, probabilmente, mi sono
rimesso lì a guardare le figure… Mamma, gli anni sono passati
lenti e duri su di voi, lo so… la mia infanzia è lontana come
una felicità perduta… ma io sono sempre qui, ai vostri piedi, vi
guardo con lo stesso amore e vi domando con la stessa curiosità:
“Mamma, perché non mi vuoi più bene?”
Sarà stato forse per lo
stordimento dell’emozione, o forse per l’intensità di quelle
frasi pronunciate con tanta tenerezza, ma confesso che mi ci
volle un po’ prima di capire che quelle non erano parole sue, ma
le battute di Roberto ne La Nemica di Niccodemi, imparate
dal D’Antoni sessant’anni prima.
Di fronte a me era appena
avvenuto un miracolo: dopo vari decenni, nella sua memoria erano
ricomparsi quei versi, nuovi come se lui li avesse appena
ascoltati, letti o studiati. Era come se il tempo – da noi
talvolta considerato come un qualcosa di oggettivo e definito –
si fosse annullato. E Jole, quasi come un personaggio
pirandelliano, in quell’evocazione, si era materializzata
all’improvviso in quella stanza e l’aveva riempita della sua
misteriosa presenza.
La barriera del tempo si era
sgretolata.
Ho ripreso poi ad ascoltarlo: ora
ripensa alle sue fughe d’amore, ai baci non dati, alle ragazze
conosciute appena e per le quali valeva la pena perderci un
secolo in più; ripensa ai compagni di viaggio, agli occhi mai
più rivisti; si incupisce per “quel rodere sordo che cambia
io faccio e lo fa diventare io ricordo”. Poi guarda in una
foto in bianco e nero la propria giovinezza e… non vi si
riconosce.
Troppo rapida è passata la vita! Troppa vita gli è sfuggita tra le
mani: chi era in fondo suo padre? E dove è iniziata la storia
artistica della sua gente? Chi c’era prima di lui?... Non lo sa!
Davvero troppe sono le vite che non ci è dato di vivere. E quante vite non ci sono più:
sua madre, suo padre, suo fratello; tanti suoi amici dello
Stabile, da Mimmo Lo Vecchio a Franco Mezzera a Orazio Bobbio,
sono morti. Morti Oberdan ed Elena.
Ecco: cerca di mettere a fuoco il
volto di Oberdan e di Elena rimasti, nella sua immaginazione,
eternamente giovani ma… i loro contorni si dissolvono sbiaditi.
Quanta vita si dissolve in un
troppo vago ricordo!
D’Antoni oggi siede e… attende. La valigia è sul pavimento…
attende. Ancora attende di partire; ancora
attende che passi a prelevarlo, sulla piazza di Trieste, un
teatro viaggiante…
Ma ogni giorno che passa, ogni
tramonto che si consuma, comprende che nessuno più passerà e
“muore malato di malinconia”.
Appendice
CRONISTORIA DELL’ATTIVITÀ DI
LUCIANO D’ANTONI ALLO STABILE
DI TRIESTE
(tratta dal libro di Paolo
Quazzolo, Il Teatro Stabile del Friuli-Venezia-Giulia,
Edizioni Ricerche 1995)
Stagione 1963-64
Dal 15
novembre 1963 all’8 dicembre 1963:
Gli Ingannati,
Accademici Intronati di Siena
Regia di
Fulvio Tolusso
Interpreti: Dario Penne, Adriana Innocenti, Giorgio Valletta,
Lino Savorani, Nicoletta Rizzi, Mimmo Lo Vecchio, Egisto
Marcucci, Marisa Fabbri, Franco Mezzera, Vittorio Franceschi,
Oreste Rizzini, Sonia Gessner, Massimo De Vita, Carlo Gamba,
Roberto Paoletti, Gilfranco Baroni, Luciano D’Antoni
Dal 17
dicembre 1963 al 12 gennaio 1964: La breccia (di
Dante Guardamagna e Marisì Codecasa)
Regia di
Ruggero Jacobbi
Interpreti principali: Giorgio Valletta, Oreste Rizzini,
Nicoletta Rizzi, Egisto Marcucci, Mimmo Lo Vecchio, Roberto
Paoletti, Lino Savorani, Franco Mezzera, Massimo De Vita,
Vittorio Franceschi, Luciano D’Antoni, Carlo
Gamba, Aldo Pressel, Sonia Gessner, Marisa Fabbri, Gilfranco
Baroni, Dario Penne
Stagione 1964-65
Dal 13 dicembre 1964 al 17
gennaio 1965: Come vi piace (di William
Shakespeare)
Regia di Eriprando Visconti
Interpreti principali: Lino
Savorani, Raimondo Penne, Franco Mezzera, Mimmo Lo Vecchio,
Carlo Gamba, Oreste Cordiviola, Oreste Rizzini, Mario
Giovannini, Luciano D’Antoni, Sergio Pieri, Egisto
Marcucci, Dario Mazzoli, Giorgio Valletta, Licio Carrara,
Vittorio Franceschi, Mundes Tieghi, Roberto Paoletti, Massimo De
Vita, Gilfranco Baroni, Marisa Fabbri, Nicoletta Rizzi, Sonia
Gessner, Adriana Innocenti, Carlo Gamba, Orazio Bobbio, Franco
Arrigo.
Dal 6 febbraio 1965 al 28
febbraio 1965: Romagnola (di Luigi Squarzina)
Regia di Eriprando Visconti
Interpreti principali: Roberto
Paoletti, Nicoletta Rizzi, Dario Mazzoli, Vittorio Franceschi,
Giorgio Renar, Oreste Rizzini, Franco Jesurum, Eliana De Vida,
Franco Mezzera, Egisto Marcucci, Luciano D’Antoni,
Giorgio Valletta, Umberto Troni, Aldo Pressel, Adriana
Innocenti, Lidia Braico, Vincenzo Ferro, Lino Savorani, Werner
Di Donato, Orazio Bobbio, Oreste Cordiviola, Massimo De Vita,
Luciano Del Mestri, Dario Penne, Licio Carrara, Mundes Tieghi,
Mimmo Lo Vecchio, Carlo Gamba, Raimondo Penne, Sergio Pieri,
Fulvia Gasser, Franco Arrigo
Stagione 1965-66
Dal 5 aprile 1966 al 17 aprile
1966 Il martirio di Lorenzo (di David Maria
Turoldo)
Regia Giuseppe Maffioli
Interpreti: Egisto Marcucci,
Enrico D’Amato, Werner Di Donato, Vittorio Franceschi, Antonio
Pavan, Omera Lazzari, Lidia Braico, Ezio Biondi, Francesco
Gasperlin, Viviana Toniolo, Nicoletta Rizzi, Lidia Lagonegro,
Oreste Rizzini, Giorgio Valletta, Mimmo Lo Vecchio, Luciano
D’Antoni, Lida Toniolo, Laura Leban, Roberto Paoletti, Lino
Savorani, Carlo Gamba
Stagione 1966-67
Dal 18 novembre 1966 al 5
dicembre 1966: Sior Tonin Bellagrazia (il frappatore)
(di Carlo Goldoni)
Regia di G. Maffioli
Interpreti principali: Giampiero
Becherelli, Lino Toffolo, Bruno Slaviero, Mariangela Melato,
Fulvia Gasser, Clara Zavianoff, Mimmo Lo Vecchio, Giorgio
Valletta, Ariella Reggio, Lino Savorani, Mariasandra Calacione,
Guido Coderin, Luciano D’Antoni, Francesco Gasperlin,
Gianfranco Saletta
Dal 2 maggio 1967 al 21 maggio
1967: Canto e controcanto (di Furio Bordon)
Regia Giovanni Poli
Interpreti principali: Mariangela
Melato, Oreste Rizzini, Werner di Donato, Germana Paoleri,
Luciano D’Antoni, Mariella Terragni, Edda Valente, Roberto
Paoletti
Stagione 1967-68
Dal 18 ottobre 1967 al 19
novembre 1967: Il Bugiardo (di Carlo Goldoni)
Regia di Gianfranco De Bosio
Interpreti: Giulio Oppi, Paola
Bacci, Elisabetta Bonino, Leda Palma, Gabriele Lavia, Mario
Valgoi, Silvio Anselmo, Carlo Bagno, Giulio Bosetti, Franco
Jesurum, Claudio Cassinelli, Javier Moriones, Bruna Seresetti,
Giusy Carrara, Orazio Bobbio, Gianfranco Saletta, Luciano
D’Antoni, Edmondo Tieghi
Stagione 1968-69
Dal 2 febbraio 1969 al 9 febbraio
1969: La fiaba di Bertoldo (di Fulvio Tomizza, da
Giulio Cesare Croce)
Regia Giovanni Poli
Interpreti: Franco Mezzera, Lino
Savorani, Marina Bonfigli, Giusy Carrara, Franco Jesurum, Mimmo
Lo Vecchio, Giorgio Valletta, Gianfranco Saletta, Rosetta
Salata, Orazio Bobbio, Luciano D’Antoni,Edmondo
Tieghi, Ariella Reggio, Lidia Braico, Paola Kramar, Fulvia
Gasser
Nelle sere del 7 e 8 marzo 1969:
F. T. Marinetti e i Futuristi (a cura di Furio
Bordon). Interpreti: Paola Bacci, Alvise Battain, Orazio Bobbio,
Giusy Carrara, Luciano D’Antoni, Massimo De Francovich,
Maria Grazia Francia, Ariella Reggio, Gianfranco Saletta,
Edmondo Tieghi, Giorgio Valletta
Stagione 1969-70
Dall’8 ottobre 1969 al 26 ottobre
1969 I nobili Ragusei (di Marino Darsa, versione
italiana di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna)
Regia Kosta Spaic
Interpreti: Giampiero Becherelli,
Franco Mezzera, Giorgio Biavati, Lino Savorani, Gianni Musy,
Franca Alboni, Saverio Moriones, Giusy Carrara, Nicoletta Rizzi,
Donatella Ceccarello, Giancarlo Cajo, Gianrico Tedeschi, Cip
Barcellini, Franco Jesurum, Mimmo Lo Vecchio, Orazio Bobbio,
Giorgio Del Bene, Gianfranco Saletta, Luciano D’Antoni,
Giorgio Valletta, Ezio Biondi, Alberto Milos, Riccardo Canali
Nelle sere del 22, 23 e 24
gennaio 1970: Il maggio francese (documentario
teatrale a cura di Furio Bordon)
Interpreti: Cip Barcellini, Alfio
Bertoni, Orazio Bobbio, Giancarlo Cajo, Ernesto Colli,
Luciano D’Antoni, Marinella Làszlò, Mimmo Lo Vecchio,
Ariella Reggio, Giampiero Becherelli, Giusy Carrara, Gianfranco
Saletta, Lino Savorani, Giorgio Valletta
Stagione 1970-71
Dal 23 ottobre 1970 all’8
novembre 1970 e 14-16 maggio 1971: Le Maldobrie
(di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna)
Regia Francesco Macedonio
Interpreti: Lino Savorani, Lidia
Braico, Ariella Reggio, Giorgio Valletta, Riccardo Canali, Mimmo
Lo Vecchio, Alberto Ricca, Gianfranco Saletta, Elisabetta
Bonino, Saverio Moriones, Giusy Carrara, Orazio Bobbio, Franco
Jesurum, Luciano D’Antoni, Massimo Dainese, Germano
Moratelli, Gabriella Tesi, Mario Pirolo
Dal 20 dicembre 1970 al 17
gennaio 1971: Le avventure di Fiordinando (di
Furio Bordon)
Regia Francesco Macedonio
Interpreti: Giorgio Valletta,
Luciano D’Antoni, Lino Savorani, Orazio Bobbio, Elisabetta
Bonino, Giusy Carrara, Gianfranco Saletta, Mimmo Lo Vecchio,
Saverio Moriones, Franco Jesurum, Lidia Braico, Ella Reggiani
Stagione 1971-72
Dal 5 gennaio 1972 al 23 gennaio
1972: Avvenimento nella città di Goga (di Slavko
Grum, traduzione di Sergio e Liciania Pacor)
Regia Francesco Macedonio
Interpreti: Mimmo Lo Vecchio,
Elisabetta Bonino, Gianfranco Saletta, Giorgio Valletta,
Gabriele Lavia, Ariella Reggio, Giusy Carrara, Luisa Crismani,
Riccardo Canali, Orazio Bobbio, Franco Jesurum, Franca Nuti,
Gina Sammarco, Franco Mezzera, Saverio Moriones, Lidia Braico,
Aura Grisi, Jole D’Antoni, Luciano D’Antoni
Dal 22 al 24 febbraio 1972 e dal
22 al 28 maggio 1972: La Mandragola (di Nicolò
Machiavelli, riduzione di Furio Bordon) e Parlamento
Bilora (di Angelo Beolco detto Ruzante)
Regia di Francesco Macedonio
Interpreti de La Mandragola:
Giorgio Valletta, Lidia Braico, Luciano D’Antoni,
Orazio Bobbio, Saverio Moriones, Franco Jesurum, Giusy Carrara,
Giorgio Valletta, Ariella Reggio, Elisabetta Bonino
Interpreti de Il Parlamento
Bilora: Ariella Reggio, Orazio Bobbio, Gianfranco Saletta,
Mimmo Lo Vecchio, Lidia Braico, Luciano
D’Antoni
Dal 10 marzo 1972 al 4 aprile
1972: L’ultimo de carneval (di Antonio
Ricciardini)
Regia Francesco Macedonio
Interpreti: Lino Savorani, Lidia
Braico, Mimmo Lo Vecchio, Franco Jesurum, Orazio Bobbio, Ariella
Reggio, Virgilio Masè, Giusy Carrara, Giorgio Valletta,
Elisabetta Bonino, Saverio Moriones, Gianfranco Saletta,
Riccardo Canali, Luciano D’Antoni, Jole D’Antoni, Edvige
Stolfa, Germano Moratelli, Massimo Dainese, Gianni Gnesutta
Stagione 1972-73
Dal 24 ottobre 1972 al 5 novembre
1972: Noi delle vecchie province (di Lino
Carpinteri e Mariano Faragura)
Regia di Francesco Macedonio
Interpreti: Lino Savorani,
Ariella Reggio, Orazio Bobbio, Giorgio Valletta, Tonino Pavan,
Mimmo Lo Vecchio, Franco Jesurum, Riccardo Canali, Giusy
Carrara, Lidia Braico, Gianfranco Saletta, Saverio Moriones,
Luciano D’Antoni (nei ruoli di un boxer cinese, secondo
armatore, ufficiale dei giannizzeri), Mario Pirolo, Elisabetta
Bonino, Lilia Carini, Luisa Crismani, Massimo Dainese, Antonio
Devetag, Jole D’Antoni, Germano Moratelli, Maria Bianchi, Eliana
De Vida
Dal 20 febbraio 1973 al 4 marzo
1973: Delitto e Castigo (di Fedor Dostoevskij,
riduzione di Dante Guardamagna)
Regia Sandro Bolchi
Interpreti: Ugo Pagliai, Giorgio
Valletta, Orazio Bobbio, Saverio Moriones, Lino Savorani, Giusy
Carrara, Angiola Baggi, Mimmo Lo Vecchio, Gianfranco Saletta,
Elisabetta Bonino, Mario Feliciani, Franco Jesurum, Tonino
Pavan, Lidia Braico, Luciano D’Antoni, Lilia Carini,
Franco Zucca, Riccardo Canali, Ariella Reggio, Mirella Luccioli,
Edvige Stolfa, Fabio Dogani, Mario Fabi, Aldo Minut, Eliana De
Vida, Piero Padovani, Tania Angi, Patrizia Longo, Marino Masè,
Arrigo Angi, Giuliana Favento, Cinzia Favento
Dal 30 marzo 1973 all’8 aprile
1973: L’egoista (di Carlo Bertolazzi)
Regia di Fulvio Tolusso
Interpreti: Mario Feliciani,
Mimmo lo Vecchio, Mino Bellei, Piero Padovan, Angiola Baggi,
Elisabetta Bonino, Giusy Carrara, Lino Savorani, Gianfranco
Saletta, Orazio Bobbio, Luciano D’Antoni, Saverio
Moriones, Giorgio Valletta, Eliana De Vida
Stagione 1973-74
Dal 18 ottobre al 4 novembre
1973: Il capitano di Kopenick (di Carl Zuckmayer,
versione italiana Lino Carpinteri e Mariano Faraguna)
Regia Sandro Bolchi
Interpreti: Renato Rachel, Orazio
Bobbio, Carlo Montini, Saverio Moriones, Giorgio Valletta, Mimmo
Lo Vecchio, Vittorio Anselmi, Tonino Pavan, Lidia Braico,
Luciano D’Antoni, Franco Zucca, Luigi Carani, Gianfranco
Saletta, Giovanni Vannini, Piero Padovan, Franco Jesurum, Elio
Crovetto, Nino Pavese, Giusy Carrara, Lino Savorani, Ariella
Reggio, Elisabetta Bonino, Cesare Polacco, Edwige Solfa, Enrico
d’Ercole, Flavio Dogani
Stagione 1974-75
Dal 23 ottobre 1974 al 17
novembre 1974: L’Austria era un paese ordinato (di
Lino Carpinteri e Mariano Faraguna)
Regia di Francesco Macedonio
Interpreti: Lino Savorani,
Giorgio Valletta, Mimmo lo Vecchio, Lilia Carini, Lidia Braico,
Alessio Pregarc, Ariella Reggio, Orazio Bobbio, Giusy Carrara,
Riccardo Canali, Saverio Moriones, Tonino Pavan, Giglio Boemo,
Elisabetta Bonino, Franco Jesurum, Luciano D’Antoni,.Mario
Pirolo, Jole D’Antoni, Franco Zucca, Germano Moratelli, Edwige
Stolfa, Marco Censki
Stagione 1976-77
Dal 19 novembre 1976 all’8
dicembre 1976: L’idealista (di Fulvio Tomizza),
Regia di Francesco Macedonio
Interpreti: Corrado Pani, Leda
Negroni, Carlo Cataneo, Nestor Garay, Miriam Bartolini, Anna
Canzi, Umberto Raho, Giorgio Valletta, Roberto Paoletti, Lilia
Carini, Lidia Braico, Iole D’Antoni, Mimmo Lo Vecchio, Daniele
Griggio, Giarcarlo Condè, Riccardo Canali, Luciano D’Antoni,
Clara Gatto, Adolfo Bonomo, Giorgio Giustincic
Dal 25 febbraio 1977 al 6 marzo
1977: Roulette (di Pavel Kohout, versione italiana
di Giorgio Pressburger)
Regia di Roberto Guicciardini
Interpreti: Lorenza Guerrieri,
Paolo Graziosi, Giorgio Valletta, Mimmo Lo Vecchio, Regina
Bianchi, Daniele Griggio, Clara Gatto, Anna Canzi, Giovanna
Fregonese, Stefanella Marrama, Giovanna Bardi, Tonino Pavan,
Ruggero Seriani, Luciano D’Antoni, Flavio Dogani,
Alberto Godena
Stagione 1977-78
Dal 28 ottobre 1977 al 13
novembre 1977 e dal 5 al 7 giugno 1978: Storie del bosco
viennese (di Odon von Horvath, traduzione di Emilio
Castellani e Umberto Gandini),
Regia di Franco Enriquez
Interpreti principali: Valeria
Moriconi, Corrado Pani, Mario Adorf, Pina Cei, Micaela Esdra,
Nestor Garay, Giorgio Valletta, Umi Raho, Giusy Carrara, Alberto
Di Stasio, Anna Canzi, Paolo Picozzi, Lilia Carini, Stefano
Lescovelli, Danilo Turk, Giovanna Fragonese, Jole D’Antoni,
Gianfranco Saletta, Adelaide Zaccaria, Luciano D’Antoni,
Caterina Manganella, Elisabetta Olivo, Gaia Franchetti, Bruno
Bruni, Alberto Godena, Franco Ponti, Lidia Braico
Stagione 1978-79
Dal 18 ottobre 1978 al 5 novembre
1978: La coscienza di Zeno (Tullio Kezich da Italo
Svevo) Regia: Franco Giraldi
Interpreti: Renzo Montagnani,
Gianni Galavotti, Lidia Braico, Attilio Cucari, Enrico
Ardizzone, Luciano D’Antoni, Franco Jerusum, Emilio
Balducci, Antonio Pavan, Gianni Rossi, Danilo Turk, Lilia
Cravino, Marina Dolfin, Veronica Zinny, Elisabetta Carta,
Francesca Archibugi, Martino Masè, Giusy Carrara, Bianca Maria
Toso, Giusi Securo, Patrizia Melega
Stagione 1979-80
Dal 16 aprile 1980 al 27 aprile
1980: Calderon (di Pier Paolo Pasolini)r
Regia Giorgio Pressburger
Interpreti: Paolo Bonacelli,
Francesca Muzio, Carmen Scarpitta, Marina Dolfin, Gianni
Galavotti, Franco Jesurum, Lidia Braico, Giorgia Vignoli, Walter
Mramor, Gianfranco Saletta, Luciano D’Antoni, Diletta
Renni, Roberto Mosetti, Ambra Zopp, Gianpaolo Andreutti, Adelia
Spetti
Stagione 1980-81
Dal 2 dicembre 1980 al 5 dicembre
1980: Calderon (di Pier Paolo Pasolini)
Regia Giorgio Pressburger
Interpreti: Paolo Bonacelli,
Francesca Muzio, Carmen Scarpitta, Marina Dolfin, Gianni
Galavotti, Franco Jesurum, Lidia Braico, Giorgia Vignoli, Walter
Mramor, Gianfranco Saletta, Luciano D’Antoni, Diletta
Renni, Roberto Mosetti, Liliana Salvador, Gianpaolo Andreutti,
Anna Penta
Dal 19 febbraio 1981 al 22 marzo
1981: Karl Valentin Kabaret, vita di un attore comico
(di Karl Valentin, traduzione Giorgio Pressburger)
Regia Giorgio Pressburger
Interpreti: Vittorio Caprioli,
Gianni Gavallotti, Francesca Muzio, Jole Silvani, Franco
Jesurum, Isabelle Attali, Luciano D’Antoni, Paolo Rossi,
Pietro Ubaldi, Adriano Giraldi
Stagione 1981-82
Dal 24 novembre 1981 al 6
dicembre 1981: Das Kapital (di Curzio Malaparte,
traduzione e adattamento di Mario Maranzana)
Regia di Franco Giraldi
Interpreti: Mario Maranzana,
Margherita Guzzinati, Vittorio Franceschi, Carlo De Melo, Maria
Teresa Sonni, Walter Manfrè, Adolfo Bonomo, Romina De Rubis,
Roberta De Rubis, Donatella Calamita, Lilia Cravino, Roberta
Fregonese, Paolo Hermanin, Luciano D’Antoni, Pietro
Bartolini, Angelo Curti
Stagione 1982-83
Dal 28 ottobre 1982 al 14
novembre 1982: L’affare Danton (di Stanislawa
Przbyszewska, versione italiana di Giovanni Pampiglione)
Regia Andrej Wajda e Maciej
Karpinski
Interpreti: Mario Maranzana,
Almerica Schiano, Luca Del Fabbro, Stelio Candelli, Edoardo
Florio, Lorenzo Piani, Riccardo Plati, Gianfranco Saletta,
Vittorio Franceschi, Donatella Calamita, Pietro Valsecchi,
Vittorio Ristagno, Walter Manfrè, Amedeo Di Furio, Maurizio
Mosetti, Gianfranco Freisteiner, Tarcisio Branca, Roberto
Pagotto, Lamberto Maria Dorigo, Francesco Pannofino, Vittorio
Gaudiani, Lino Ristani, Franco Jesurum, Pasquale Anselmo, Gian
Luigi Pizzetti, Luciano D’Antoni, Claudio Misculin, Anna
Lisa Lanza, Roberta Fragonese, Alessandro Marinuzzi, Alceste
Ferrari
Dal 3 maggio 1983 al 15 maggio
1983: Bouvard e Pecuchet (di Tullio Kezich e Luigi
Squarzina, dal romanzo di Gustave Flaubert)
Regia Giovanni Pampiglione
Interpreti: Mario Maranzana,
Vittorio Franceschi, Edoardo Florio, Carla Cassola, Gianfranco
Saletta, Riccardo Plati, Betty Chiapatti, Walter Manfrè,
Pasquale Anselmo, Donatella Calamita, Stelio Candelli, Claudio
Misculin, Francesco Pannofino, Roberto Pagotto, Luciano
D’Antoni, Lidia Braico, Tarcisio Branca, Valentina Magnani
Stagione 1983-84
Dal 13 dicembre 1983 al 30
dicembre 1983: Romolo il grande (di Friedrich
Durrenmatt, traduzione di Aloisio Rendi)
Regia: Giovanni Pampiglione
Interpreti: Mario Scaccia,
Ginella Bertacchi, Lidia Koslovic, Edoardo Sala, Carla Cassola,
Pino Patti, Roberto Pescara, Vittorio Ciorcalo, Gianpaolo
Saccarola, Oliviero Corbetta, Aldo Turco, Jerzy Stuhr, Roberto
Mantovani, Giacomo Quattromini, Luciano D’Antoni
Stagione 1984-85
Dal 26 febbraio 1985 al 10 marzo
1985: Attraverso i villaggi (Peter Handke,
traduzione di Roberto Zorzi)
Regia di Roberto Guicciardini
Interpreti: Marisa Fabbri,
Giancarlo Dettori, Lidia Braico, Giulio Brogi, Giuampiero
Becherelli, Luciano D’Antoni, Adriano Giraldi, Ivan
Milic, Anna Teresa Rossini, Regina Bianchi, Raffaella Quaia
Stagione 1985-86
Dal 28 gennaio 1986 al 9 febbraio
1986: Eroe di scena, fantasma d’amore (Giorgio
Pressburger).
Regia di: Giorgio Pressburger
Interpreti: Claudio Gora, Lea
Padovani, Carlo Simoni, Lidia Koslovich, Filippo Degara, Carlo
Simoni, Mattia Machiavelli, Gianpaolo Poddighe, Aldo Reggiani,
Gianni Todescato, Nestor Saied, Maura Catalan, Luciano
D’Antoni, Luca Giordana, Mauro Serio
Stagione 1986-87
Il 6 gennaio 1987 e dai dal 24
marzo 1987 al 5 aprile 1987: Questa sera si recita a
soggetto (di Luigi Pirandello)
Regia: Giuseppe Patroni Griffi
Interpreti: Mariano Rigillo,
Paola Bacci, Leopoldo Mastelloni, Laura Marinoni, Gea Lionello,
Rossella Testa, Mascia Musy, Gianna Grippa, Alessandro Giglio,
Marcello Donati, Totò Onnis, Alessandro Ragazzini, Kaspar
Capparoni, Ursula von Baechler, Maria Rosaria Longobardi,
Alessia Cermely, Adriano Giraldi, Alceste Ferrari, Lino
Avendola, Mario Patanè, Andrea Seminara, Flavio Dogani,
Luciano D’Antoni, Paolo Canciani
Stagione 1987-88
Dal 27 aprile 1988 all’8 maggio
1988: Sei personaggi in cerca d’autore (di Luigi
Pirandello)
Regia: Giuseppe Patroni Griffi
Interpreti: Mariano Rigillo,
Ilaria Occhini, Laura Marinoni, Giovanni Crippa, Andrea Seminara,
Caterina Boratto, Vittorio Caprioli, Mascia Musy, Totò Onnis,
Rossella Testa, Patrizia Battaglia, Kaspar Capparoni, Marcello
Donati, Lino Avendola, Paolo Canciani, Elio Pica, Livio
Cecchelin, Fabio Rusca, Luciano D’Antoni, Roberto Rizzoni,
Flavio Dogani, Pierpaolo Rebec
Stagione 1988-89
Dal 18 ottobre 1988 al 30
ottobre 1988 e il 26 maggio 1989: Ciascuno a suo modo
(di Luigi Pirandello)
Regia: Giuseppe Patroni Griffi
Interpreti: Ilaria Occhini,
Giovanni Crippa, Caterina Boratto, Marcello Donati, Mariano
Rigillo, Vittorio Caprioli, Kaspar Capparoni, Lino Avendola,
Elio Pica, Roberto Rizzoni, Danilo Nigrelli, Rosella Testa,
Monica Samassa, Fabio Rusca, Paolo Canciani, Pierpaolo Rebec,
Roberto Perossa, Laura Marinoni, Totò Onnis, Enzo Giraldo,
Luciano D’Antoni, Laura Visconti, Luisa Vermiglio,
Giuseppina Soprani, Mary Grace Thompson
Nelle sere del 27 e 28 maggio
1989: Questa sera si recita a soggetto (di Luigi
Pirandello)
Regia: Giuseppe Patroni Griffi
Interpreti: Mariano Rigillo,
Ilaria Occhini, Vittorio Caprioli Laura Marinoni, Rosella Testa,
Mary Grace Thompson, Giovanni Crippa, Danilo Nigrelli, Marcello
Donati, Totò Onnis, Pierpaolo Rebec, Kaspar Capparoni, Laura
Visconti, Roberto Rizzoni, Elio Pica, Lino Avendola, Fabio
Rusca, Enzo Giraldo, Flavio Dogani, Luciano D’Antoni,
Paolo Canciani
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