POLVERE, SOLO POLVERE,
NIENTR’ALTRO CHE POLVERE…
DI PALCOSCENICO
“Figlio d’arte”, tanto per cominciare, è un
termine prettamente teatrale che, dagli albori della Commedia
dell’Arte (XVI secolo) fino al tramonto dei guitti nella
seconda metà del XX secolo, ha contraddistinto i rampolli
dell’oligarchia attorica, appartenenti ad una
gens di teatranti.

Img.2
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1839
Nell’elenco della Compagnia Giuseppe Feoli, compaiono i
suoi due figli
Antonio Feoli
(di anni 23) e
Carlotta Feoli
(di anni 14)
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Il figlio d’arte
tradizionale,
ancor prima di venire al mondo, è già sul palcoscenico,
nascosto nel ventre rigonfio di sua madre che lo porta
ogni sera con sé dietro le quinte, sul proscenio alle
luci della ribalta e tra gli angusti e polverosi
camerini dei teatri di prosa. E di mese in mese, per
l’intero arco della gravidanza, lo trascina da un paese
all’altro, di teatro in teatro, fino a che non si
compiano per lei i giorni del parto.
Poche ore prima di venire al mondo,
il figlio d’arte è ancora lì, sul palco, con sua madre
che, truccata, imparruccata e stranamente abbigliata,
riscuote gli applausi e… quella paga giornaliera, che è
poi l’unico sostentamento della sua famiglia.
Ed ecco finalmente sopraggiungere
per lui il dies natalis:
il figlio d’arte, al suo primo vagito, non vede intorno
a sé nonni o zii che lo accolgono con gioia, ma trova
solo la Compagnia che, pur felice del suo arrivo, è però
anche preoccupata per le sorti dell’attrice-madre: teme
in cuor suo che li abbandoni per troppe sere consecutive
e che il pubblico diserti il teatro.
Ma, come ogni artista che si rispetti, la
giovane madre conosce le apprensioni dei propri compagni d’arte
e così, il più delle volte, poche ore dopo il parto, ella è
nuovamente in scena, rivivificata da una rosea polvere di Cipro
che le colora le gote.
E
il neonato se ne sta là, al buio, dietro le quinte, con in
sottofondo i bisbiglii del suggeritore, il rumore dei passi
pesanti sulle assi linee del palcoscenico, il vociare degli
attori e delle attrici che entrano ed escono di scena. Da questo
primo istante il suo destino è già tracciato, ineluttabile come
la morte: egli sarà
(poiché è stato)
attore.
Nessun figlio d’arte ha mai avuto una casa in
cui crescere: egli si muove ogni giorno tra il teatro e la
camera d’affitto nella quale la sua famiglia è provvisoriamente
alloggiata. Trascorre le sue giornate a giocare – insieme agli
altri bambini della compagnia – tra le spade di latta, le
parrucche, i corsetti e i “giustacuore”.
Tutto ciò che vede e tocca è intriso di mistificazione: i
suoi stessi genitori
mostrano il volto mutevole dei personaggi che ogni sera sono
chiamati ad impersonare.
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Il figlio d’arte non ha un paese in cui
radicarsi: il suo paese è quello nel quale l’arte, di mese in
mese, lo conduce. Non c’è tempo per lui di stringere legami
sentimentali: non appena percepisce il sorgere di un affetto,
l’arte lo chiama altrove
e lui, suo devoto servitore, deve obbedirle (cfr M.
Ballerini, “Il teatro:
inarrestabile traversata”, pubblicato su questa stessa
rivista).
Il figlio d’arte non ha una scuola in cui
potersi formare: cambia di continuo classi, maestre e compagni.
A lui non è concesso un corso regolare di studi, e ciononostante
ha l’incredibile vantaggio di poter ascoltare, fin da bambino, i
versi immortali dei più illustri tragediografi d’Europa. La sua
è un’acculturazione spontanea che lo rende non
solo dotato di una perfetta dizione (cosa piuttosto rara in
un’Italia “dei dialetti”), ma anche di una ricchezza lessicale
ed espressiva sconosciuta ai più. È colto, senza mai aver
frequentato una scuola. Cita Shakespeare a memoria, senza forse
neppure sapere dove e quando sia vissuto.
All’età di tre-quattro anni il figlio d’arte
inizia a calcare lui stesso, in prima persona (cfr.
img. 3), il
palcoscenico, nei cosiddetti “ruoli ingenui” che svolgono la
funzione di captatio benevolentiae per il pubblico più
sentimentale. Solitamente la compagnia lo propone al suo
pubblico con il sensazionale annuncio dell’esibizione di un
“bambino prodigio”. Crescendo, sono però ben pochi quelli che
avranno l’onore di restar tali.
Nelle sere, invece, in cui il figlio d’arte
non ha da svolgere il suo piccolo ruolo, attende solo, spesso al
buio (perché anche l’illuminazione ha un costo eccessivo per i
comici girovaghi), nelle fredde e desolanti camere d’affitto.
Attende il ritorno dei genitori, dopo la mezzanotte, dopo lo
spettacolo e, durante quelle interminabili nottate, inizia a
sognare il proprio futuro, in attesa di quella crescita fisica
che lo consacrerà finalmente attore a pieno titolo. |
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Img.3
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1851
Nell’elenco della
Compagnia
Nicola Cola, risultano la prima attrice
Carlotta Feoli-Cola
(di anni 26) e suo figlio
Carlo Cola
(di anni 1).
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L’attesa, nel suo caso, non è estenuante: già
verso i dodici anni, se è minimamente dotato, può rivestire i
ruoli di “attore/trice
giovane” (cfr.
img. 4), diventando
così il beniamino del pubblico e il sogno proibito di spettatori
e spettatrici.
Compiuto questo salto verso i ruoli
adulti, l’iter è per lui scandito con tappe fisse: chi ha
buone qualità (le physique du rôle e voce bronzea), nel
giro di pochi anni, potrà aspirare al ruolo insostituibile di
“primo/a attore/trice”.
E da quel momento in avanti, ogni sera, senza
eccezione, con uno spettacolo sempre diverso in cartellone,
l’attore dovrà esibirsi di fronte al proprio pubblico,
trecentosessantacinque giorni all’anno, talvolta persino con due
commedie al giorno. Ed è proprio in questo che risiede
l’orgoglio dei vecchi comici: un pubblico che li ama, li segue,
tributa loro fiori e applausi, ogni giorno dell’anno, per
un’intera esistenza.
Ecco perché per i figli d’arte non esiste
lutto, nascita matrimonio o quant’altro, che possa impedire il
corso regolare delle rappresentazioni: l’attore, se privato
degli occhi ammirati degli spettatori, è come se cessasse di
esistere.
Coloro che infatti, per una tragica sorte,
erano talvolta costretti a congedarsi anzitempo dalle scene, da
quel momento stesso smettevano di percepirsi
vivi.
L’attore che si
fermava
diveniva come un’animale in cattività, a cui manca la
possibilità di respirare, muoversi e nutrirsi.
Sopravvive a se stesso
come un’ombra nell’Ade omerico, privo di memoria e consistenza,
malinconico. Allo specchio non riconosce più neppure il proprio
volto. Non più uomo vivente, ma sterile e impalpabile come la
polvere, ammutolito come l’anima descritta da Sbarbaro.
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Img.4
- 1863 Nell’elenco
della Compagnia Slvano-Fabbri compare come prima attrice
Carlotta Feoli-Cola
(di
anni 38) e i suoi due figli Carlo Feoli (che altri non è
che
Carlo Cola,
di anni 13) e Leonilda Feoli (che altri non è che
Leonilda Cola, di
anni 10)
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Taci, anima stanca di godere
e
di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d’ira o di speranza,
e
neppure di tedio.
Giaci come
il
corpo, ammutolita, tutta piena
d’una
rassegnazione disperata.
…
La
vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduto ha la voce
la
sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io
guardo con asciutti occhi me stesso.
Ecco perché la gran parte dei vecchi attori
lottava fino all’estremo delle proprie forze per trovare un’eroica la morte sulle tavole del palcoscenico: era questa la fine
che tutti avrebbero agognato, una fine degna del loro nome, che
li avrebbe ricondotti a quel loro primo, lontano, vagito.
Solo così il cerchio si sarebbe perfettamente
chiuso: l’alfa avrebbe coinciso con l’omega, in quell’arcana e
cosmica armonia della Bellezza.
IL SANGUE BLU DEI FIGLI D’ARTE
A tutti noi oggi, quando pensiamo ad un
attore, viene in mente un
singolo che, per una sua
personale vocazione,
sceglie di intraprendere la carriera artistica.
Per secoli non è stato così. Il
comico (termine classico del nostro teatro per designare l’attore di
prosa) non era concepibile come
individualità, ma solo
come derivazione e
prodotto di una storia
familiare, come tappa intermedia di un susseguirsi di
generazioni dedite all’arte.
Attori, insomma, non lo si diveniva, ma lo si
nasceva: solo chi fosse stato figlio, nipote e pronipote di
commedianti e teatranti, avrebbe avuto il privilegio di solcare
le scene.
Il titolo “figlio d’arte”, insomma,
assomigliava molto – nell’utilizzo che ne facevano i vecchi
comici – ad un titolo
nobiliare proprio perché, come quest’ultimo, identificava un’élite
a cui non tutti potevano accedere e dalla quale non era dato
distaccarsi.
Rarissimi, nella storia del teatro italiano,
i casi di attori non-figli
d’arte: chi non aveva nelle vene il “sangue blu del socco e del
coturno” ben difficilmente poteva essere accolto nella casta e
sperare di essere considerato autentico artista.
Essere figlio d’arte, infatti, equivaleva ad
un marchio indelebile, capace di plasmare un intero modo di
vivere e di essere, di pensare sé, gli altri e il mondo
circostante. Chi si definiva tale, lo faceva con quello snobismo
tipico dei blasonati, di chi è cosciente di possedere un
qualcosa che, alla maggior parte degli uomini, è negato.
Come un vero blasonato, considera un
discrimine fondamentale la dimensione temporale, e cioè
l’antichità del proprio casato. Il figlio d’arte guarda con
orgoglio alla propria stirpe, se ne sente il frutto e esibisce
il proprio cognome come un vanto; tanto più è antico e tanto più
in lui accresce la fierezza. Tra di loro i comici si distinguono
in famiglie di alto e basso lignaggio, a seconda di quante
generazioni siano trascorse dal capostipite, da quell’eroe
fondatore che, per primo, ha calcato le scene.
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Img.3
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1851
Nell’elenco della
Compagnia
Nicola Cola, risultano la prima attrice
Carlotta Feoli-Cola
(di anni 26) e suo figlio
Carlo Cola
(di anni 1). |
Altro elemento di distinzione è, poi, quello
della celebrità dei propri antenati: chiunque possa vantare nel
proprio albero genealogico artisti di fama nazionale
̶ osannati
nei teatri delle principali città italiane, applauditi da
pubblici aristocratici o addirittura da sovrani
̶ guarda con
un certo sussiego le stirpi cadette e da loro è guardato con
soggezione e reverenza.
Molto interessante, a tal riguardo, è il
fenomeno del meccanismo cumulativo dei cognomi per quanto
riguarda le attrici.
Esse, come ogni altra donna italiana
dell’epoca, sarebbero state obbligate, al momento del
matrimonio, ad acquisire il cognome del coniuge; le attrici, di
contro, specie se discendono da un’antica famiglia d’arte con
illustri predecessori, conservano, sui manifesti e sulle
locandine, il proprio cognome da nubile, affiancato a quello del
marito (cfr imag. 3; 6; 7). In taluni casi, hanno addirittura l’ardire di
continuare a fregiarsi del loro solo cognome d’origine, specie
se quello acquisito non lo reputano degno (cfr.
imag. 5). Questa
loro scelta è dettata dalla volontà di sottolineare, con
nettezza, la propria appartenenza ad una prosapia, dalla quale
ci si sente identificati e investiti di dignità.
Da quanto detto, è facile comprendere come
fossero malvisti i “matrimoni misti”, cioè quelle unioni
tra un “figlio d’arte” e
un “non-figlio d’arte”. Il sangue blu dei comici temeva di
essere “inquinato” dalla profanità della gente comune, che mai
avrebbe potuto, nel breve arco di una vita, acquisire quel
modus vivendi
ed essendi che
il figlio d’arte aveva invece succhiato fin dal seno materno. I
parvenu, proprio come
i borghesi arricchiti, potevano anche ottenere fama e successo,
ma il loro essere non
era intriso di teatralità e questo li rendeva
eterni estranei. Il
mondo chiuso dei comici, come ogni oligarchia, aveva disegnato
nei secoli una propria inconfondibile fisionomia e mal tollerava
chi avrebbe potuto alterarla o distorcerla, oltrepassando quei
confini demarcati con tanto impegno e tenacia.
I cosiddetti matrimoni misti erano dunque
piuttosto rari: rarissimi nel caso in cui fosse una donna a
dover entrare nell’arte. Per una donna “rispettabile” era un
vero e proprio disonore accodarsi alla vita girovaga e
sfrontata degli
attori. Le poche che, nella storia del teatro, hanno osato
compiere tale vergognosa scelta, si sono condannate, prima, ad
un’esclusione sociale e, poi, ad un ruolo artistico perennemente
subalterno. Leggermente diverso era il caso in cui fosse un uomo
ad unirsi in nozze con un’attrice: nei suoi confronti, la
censura sociale era decisamente meno spietata e vi era per lui
qualche possibilità in più di ascesa artistica.
Tornando all’uso dei cognomi utilizzati nella
cartellonistica teatrale, è interessante notare che, nel caso di
un matrimonio misto tra un non-attore e un’attrice, potesse
essere addirittura l’uomo ad assumere il cognome della moglie (cfr.
img. 6) oppure
accadere che i figli comparissero negli elenchi con il cognome
della sola madre (cfr. img. 4), così da
risultare membri legittimi di un’aristocrazia.
Meccanismi che somigliano, senza troppo
forzature, a quelli delle famiglie nobiliari.
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Ma, come ben si sa, la nobiltà non è solo un
onore, ma è anche un qualcosa che obbliga.
E l’appartenenza al patriziato attorico
obbligava l’attore ad un codice di comportamento molto rigido ed
ineludibile.
Il vero e autentico figlio d’arte non può mai
e poi mai concedersi il vestire sciatto della gente comune, mai
un tono di voce dimesso o strascicato… Per strada, nell’osteria
o in qualunque altro luogo
profano si trovi a muoversi, il
comico deve studiare i
propri movimenti e conservare quella voce stentorea da primo
attore che il pubblico da lui si aspetta. Il suo gesticolare
deve essere ampio e plastico e la testa muoversi rigida sul
collo. Alla loro condizione di eredi al trono
̶ e non c’è
trono posto più in alto e più ammirato del palcoscenico
̶ non è dato
essere distratti rispetto agli occhi curiosi dei passanti: il
pubblico, anche quando non è in sala, li osserva e da loro si
aspetta una costante mattatorialità, una galanteria di posa, un
istrionismo atteggione. E i comici sanno di non poter mai
deludere il proprio pubblico e, tanto meno, venir meno a se
stessi.
Sì perché in verità, proprio come i
discendenti delle schiatte nobiliari, il rispetto che loro
rivelano verso chi li osserva, non è tanto dovuto alla dignità
riconosciuta a quelle persone, quanto piuttosto all’ossequio che
essi sono obbligati ad avere verso la propria condizione.
Per loro il mondo è diviso tra comici e
non-comici e questi ultimi altro non sono che
gentes, anonimo
pubblico pagante e plaudente… devoti pellegrini umilmente
genuflessi di fronte alla sacro santità dell’Arte.
E l’unico sacerdote di questo antichissimo rito è e
rimane l’attore.
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Img.6 -
1881 Nell’elenco
della Compagnia Lorenzo Faleni risulta prima attrice
giovane
Leonilda Cola-Cresseri
(di anni 28) e tra gli attori, suo marito
Giuseppe Cola-Cresseri. |
LA GIUSTA ACCEZIONE
Quando dunque utilizziamo l’espressione
“figlio d’arte”, applicandola ai vecchi attori italiani, bisogna
darle il valore che essa realmente, per secoli, ha posseduto e
cioè quello di “figlio dell’arte”, proprio perché è
l’arte ad aver per secoli partorito, nutrito, allevato e
svezzato queste sue creature. L’arte: madre amorevole e
inseparabile compagna di tutta la loro esistenza.
Noi, oggi, per esprimere questo legame così
intenso tra gli attori e il loro mestiere, diremmo che hanno
“dedicato” la loro vita all’arte. Eppure se questa espressione
giungesse alle orecchie di un attore del
teatro italiano all’antica,
di fronte al verbo “dedicare”, egli rimarrebbe interdetto e
incapace di comprendere.
L’arte per lui non è mai stata un qualcosa a
cui si può decidere se “dedicare” o meno la propria vita, ma
arte e vita per lui hanno da sempre, e obbligatoriamente,
coinciso. Essere uomo senza essere attore, è per lui una
contraddizione in termini. L’uomo-attore nasce uomo-attore e
tale muore. Tutto quello che il figlio d’arte vede e percepisce
intorno a sé non è null’altro che teatro: attori i genitori e
attori i figli; attrice è sua moglie e attori sono tutti i suoi
amici, senza nessuna eccezione, perché il mondo esterno all’arte
per lui non può esistere. Di teatro è ingombra la sua memoria e
il teatro detta i binari lungo i quali si muoverà il suo futuro.
Drammi e commedie sono i libri egli che ha letto. I suoi abiti
sono gli abiti da scena e i luoghi più imbevuti della sua
essenza sono i camerini: altrove di lui non v’è traccia. Figlio
dell’arte,
geneticamente identico alla sua genitrice, di lei ha gli occhi e
i lineamenti, la fisionomia; il volto dell’uno, pur nella sua
identità, riflette e rivela il volto dell’altra.
FORZA E DEBOLEZZA DEI FIGLI D’ARTE
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Img.7 -
1907 Nell’elenco
della Compagnia Giuseppe Temporini compare tra le
attrici
Leonilda Cola-Cresseri
(di anni 54) e, in veste di prima attrice, sua figlia
Giuseppina Cresseri-Nistri
(di anni
28). Si noti, in entrambi i
casi l’uso del doppio cognome.
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Non è allora un caso che, per secoli,
l’Italia sia stata maestra di recitazione in
tutta Europa
(e persino nel Nuovo Continente). I più geniali interpreti del
teatro mondiale, sorgono proprio dall’humus dei figli
d’arte: figli d’arte sono Tommaso Salvini ed Ermete Zacconi;
figlie d’arte Carlotta Marchionni, Adelaide Ristori ed Eleonora
Duse.
E questo perché la maestria artistica dei
figli d’arte non nasceva da un apprendimento mediato e tardivo,
in apposite scuole di recitazione, ma sgorgava direttamente
dall’osservazione, dall’ascolto e dall’imitazione dei propri
genitori o colleghi più anziani. Un’osservazione quotidiana ed
ininterrotta fin dai primi giorni di vita. È per questo che i
figli d’arte potevano vantare delle abilità tecniche che nessuno
tra gli attori attuali e futuri potrà più sperare di avere.
Tanto per cominciare, possedevano una memoria
straordinaria, esercitata di continuo in un repertorio ogni sera
cangiante: per loro la memorizzazione di un testo era un
qualcosa di spontaneo così come, per il resto del mondo, lo è
l’imparare a camminare.
Nel caso poi la memoria venisse loro meno – a
sipario aperto e con il pubblico in sala – sapevano far fronte
all’empasse andando a pescare brani estrapolati da
centinaia di opere ed autori tra loro anche lontanissimi per
stile e contesti. Assolutamente certi che il pubblico non
potesse accorgersi dei questa loro
contaminatio, si
trasformavano ogni sera in improvvisati
autori, senza curarsi
minimamente della sacrosantità del testo scritto.
Tra i loro punti di
forza, bisogna poi annoverare la confidenza assoluta che avevano
con il pubblico. Nessun figlio d’arte conosceva la paralisi
provocata dal panico dell’ingresso in scena: per loro la scena
era “casa” e il pubblico un “amico” che ogni sera andava a
trovarli nella loro insolita quotidianità.
Non c’era
gaffe,
ritardo nelle entrate o rumoreggiare di pubblico, che potesse
metterli in difficoltà: sapevano far fronte ad ogni intoppo con
quella prontezza che solo chi è nato e cresciuto in palcoscenico
può possedere
I figli d’arte
conoscevano quasi per istinto, senza fatica, il giusto timbro
della voce, l’enfasi delle pause e i picchi declamatori.
Intuivano, senza rendersi conto di come accadesse, le impennate
retoriche e i momenti più opportuni per piazzare i loro
“pistolotti”. Sulla scena si muovevano con una disinvoltura
spiazzante, quasi non percepissero la finzione alla quale
stavano partecipando. Inesauribile era il loro repertorio di
“pose sceniche”: sapevano dar corpo, spontaneamente, alla paura,
allo stupore o alla gioia irrefrenabile; sapevano rendere
plastica la fantasia, l’illusione e l’inquietudine. Con
noncuranza, riuscivano ad impersonare eroi del passato, sovrani
dissoluti, infidi osti e servi scaltri, passando, di sera in
sera, dalla tragedia più sublime alla commedia farsesca, dai
toni truculenti del
Grand-Guignol alla sobrietà del
dramma borghese.
Eppure, nonostante
questi evidenti punti di forza, i figli d’arte mostrano anche
una congenita fragilità, un limite connaturato che li ha
condotti, con il passar del tempo, all’estinzione.
Il loro tallone d’Achille risiede forse
proprio nella “eccessiva confidenza” che hanno con le scene, una
confidenza che diveniva spesso trascuratezza e pressappochismo.
E tale trascuratezza
aveva senza dubbio origine in quella povertà culturale che
troppo a lungo li ha tenuti lontani da ogni coscienza artistica
e da uno studio rigoroso dei testi
e dei contesti.
Per questo i figli d’arte avevano tutti, senza distinzioni, un
piede posto nella guitteria:
spesso trascurati e anacronistici risultavano gli abiti;
anacronistiche le scene; talvolta venivano calpestati persino i
più sacrosanti diritti del testo, riscritto di continuo in base
alle loro personali esigenze.
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Img.8
1925 Nella Compagnia Arturo Nistri compare come prima
attrice sua moglie Giuseppina Nistri (46 anni) |
Il secondo aspetto che li ha condannati
all’estinzione, è che i figli d’arte, come è tipico dei membri
degli “antichi regimi”, vivevano di schemi fissi e di abitudini
e mal tolleravano le novità e le riforme. Per loro il sistema
teatrale era, e doveva restare, quello che avevano ereditato dai
loro genitori e quest’ultimi dai loro nonni e così via lungo i
secoli.
Tale miopia li ha resi incapaci di accorgersi
che il loro mondo necessitava invece di una rivoluzione, di un
radicale ricambio di idee e di uomini.
I figli d’arte –
irrigiditi nella
tradizione
– non hanno avuto la prontezza di capire che un certo tipo di
repertorio era divenuto ormai improponibile e vetusto,
addirittura ridicolo in un mondo che stava repentinamente
cambiando. Hanno continuato a recitare il teatro borghese,
quando la borghesia aveva ceduto il passo alle masse proletarie;
hanno insistito ad inscenare i drammoni sensazionali quando il
pubblico era ormai avvezzo ai drammi intimistici; hanno
seguitato a mettere in cartellone opere patriottico-risorgimentali dopo che ben due guerre mondiali
avevano lacerato per sempre gli ideali di Patria e di Bandiera.
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Non sono stati capaci
di comprendere per tempo l’aspetto grottesco dei “ruoli fissi”:
attrici o attori ottuagenari si ostinavano ad impersonare Romeo
e Giulietta per il solo fatto di essere stati incoronati “prima
attrice” o “primo attore” sessant’anni prima; donne malate di
un’inguaribile pinguedine vestivano gli abiti di Gioconda Danti,
ideale femmineo di grazie e bellezza nell’omonima tragedia
dannunziana
La
Gioconda.
Le vecchie compagnie
dei figli d’arte hanno continuato, fino alla seconda metà del
’900, ad affidarsi ciecamente alla direzione artistica del solo
capocomico, ignorando del tutto il “teatro di regia” che stava
diffondendosi in quegli stessi anni in
Europa.
Hanno cocciutamente
perdurato ad impiegare in modo massiccio – e talvolta
insostenibile – il
suggeritore
che, dalla buca in cui era sprofondato,
gridava le battute ai singoli
attori; per non parlare dell’abitudine di concludere ogni
singolo spettacolo, foss’anche la tragedia più sublime, con
l’immancabile
Farsa.
Ma la loro colpa più grave è stata, senza dubbio,
quella di aver continuato a basarsi solo ed esclusivamente sulla
bravura di un unico componente (il primo attore o la prima
attrice), incuranti del livello talvolta infimo degli altri
interpreti. Non hanno saputo cogliere la novità delle “compagnie
di complesso”, ma si sono fossilizzati su quelle
grandattoriali, nelle quali spesso anche il grand’attore
scadeva in un istrionismo delirante, in una mattatorialità che
ricercava solo l’applauso fine a se stesso, con ogni mezzo e
trovata
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I figli d’arte insomma
avevano il mestiere nelle vene (e questo è un qualcosa che non
potrà mai più riaccadere nella storia dello spettacolo), ma a
loro forse mancava il sacro fuoco dell’arte (sacro fuoco che,
del resto, ben difficilmente si può ereditare), quella vocazione
verso quel continuo travaglio che, solo, può generare l’arte
somma. Privi di qualunque volontà di interrogarsi criticamente
sul proprio ruolo e sui propri fini, ma convinti che l’arte
fosse loro consegnata in modo spontaneo fin dal momento della
nascita, come un corredo genetico, i giurassici figli d’arte si
sono incamminati, con passo lento ma inesorabile, sul “viale del
tramonto”. Negli anni Sessanta del ‘900, centinaia di artisti,
appartenenti a plurisecolari famiglie d’arte, hanno abbandonato
per sempre le scene, scrivendo definitivamente la parola fine
sulla lunga epopea dei figli d’arte (cfr.
img. 10).
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Img.9 -
1934 Nell’elenco della Compagnia Arturo
Nistri compaiono, come prima attrice,
Giuseppina Nistri (di anni
55) e, in veste di primo attore,
suo figlio
Manlio
Nistri (di anni 25) |
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Img.10 - 1966 In questa
copertina compaiono Carmelo Bene e Manlio Nevastri, che altri
non è che
Manlio Nistri
(di anni 57), figlio di Giuseppina e
Arturo Nistri
e discendente da una plurisecolare famiglia di artisti
drammatici |
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