La lunga epopea dei figli d'arte

 

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di Mauro Ballerini

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I

Img. 1 1822 Nell’elenco della Compagnia Giuseppe Moncalvo risulta primo attore Giuseppe Feoli

Se esiste oggi un’espressione abusata, fraintesa e mal utilizzata, questa è senza dubbio l’espressione “figlio d’arte”.

Noi tutti, di tanto in tanto, la utilizziamo applicandola a quei pochi fortunati che hanno avuto in sorte di nascere da genitori che si occupano d’arte (cinema, teatro, danza, pittura, letteratura…). Nell’accezione comune, dunque, “figlio d’arte” equivale a figlio di… attore, artista, poeta, musicista; così come, in un certo qual senso, potrebbe esser definito “figlio della medicina” il figlio di un medico, o “figlio della scuola” colui che, per padre o madre, abbia un insegnante.

In altri termini, per noi oggi, l’espressione “figlio d’arte” non esprime altro che una “origine” e una “provenienza”, che non va però a modificare (o a incidere su) tutti gli altri aspetti della vita del “figlio d’arte” (scuola, amicizie, cultura, stile di vita, identità).

Il figlio d’arte, fatta eccezione del nome altisonante che porta, vive insomma un’esistenza simile a molte altre esistenze e il suo futuro non è in nessun modo predeterminato dal suo “passato genealogico”. Solo se lo vorrà, potrà lui pure imboccare la strada dell’arte, decidendo di continuare o meno la tradizione familiare che per giunta, quasi mai, affonda le proprie radici più indietro di una generazione.

Questa appunto, come dicevo, è l’accezione odierna.

Ma qual è il vero e autentico significato di questa espressione nel gergo teatrale? Qual è la sua origine e la sua storia dal XVI al XX secolo? Che cosa ha significato per questo lungo arco temporale? E, soprattutto, cosa suscitava in coloro che potevano fregiarsene?

 

   

POLVERE, SOLO POLVERE,

NIENTR’ALTRO CHE POLVERE… DI PALCOSCENICO

 

“Figlio d’arte”, tanto per cominciare, è un termine prettamente teatrale che, dagli albori della Commedia dell’Arte (XVI secolo) fino al tramonto dei guitti nella seconda metà del XX secolo, ha contraddistinto i rampolli dell’oligarchia attorica, appartenenti ad una gens di teatranti.

Img.2 - 1839 Nell’elenco della Compagnia Giuseppe Feoli, compaiono i suoi due figli Antonio Feoli (di anni 23) e Carlotta Feoli (di anni 14)

Img.2 - 1839 Nell’elenco della Compagnia Giuseppe Feoli, compaiono i suoi due figli Antonio Feoli (di anni 23) e Carlotta Feoli (di anni 14)

Il figlio d’arte tradizionale, ancor prima di venire al mondo, è già sul palcoscenico, nascosto nel ventre rigonfio di sua madre che lo porta ogni sera con sé dietro le quinte, sul proscenio alle luci della ribalta e tra gli angusti e polverosi camerini dei teatri di prosa. E di mese in mese, per l’intero arco della gravidanza, lo trascina da un paese all’altro, di teatro in teatro, fino a che non si compiano per lei i giorni del parto.

Poche ore prima di venire al mondo, il figlio d’arte è ancora lì, sul palco, con sua madre che, truccata, imparruccata e stranamente abbigliata, riscuote gli applausi e… quella paga giornaliera, che è poi l’unico sostentamento della sua famiglia.

Ed ecco finalmente sopraggiungere per lui il dies natalis: il figlio d’arte, al suo primo vagito, non vede intorno a sé nonni o zii che lo accolgono con gioia, ma trova solo la Compagnia che, pur felice del suo arrivo, è però anche preoccupata per le sorti dell’attrice-madre: teme in cuor suo che li abbandoni per troppe sere consecutive e che il pubblico diserti il teatro.

Ma, come ogni artista che si rispetti, la giovane madre conosce le apprensioni dei propri compagni d’arte e così, il più delle volte, poche ore dopo il parto, ella è nuovamente in scena, rivivificata da una rosea polvere di Cipro che le colora le gote.

E il neonato se ne sta là, al buio, dietro le quinte, con in sottofondo i bisbiglii del suggeritore, il rumore dei passi pesanti sulle assi linee del palcoscenico, il vociare degli attori e delle attrici che entrano ed escono di scena. Da questo primo istante il suo destino è già tracciato, ineluttabile come la morte: egli sarà (poiché è stato) attore.

Nessun figlio d’arte ha mai avuto una casa in cui crescere: egli si muove ogni giorno tra il teatro e la camera d’affitto nella quale la sua famiglia è provvisoriamente alloggiata. Trascorre le sue giornate a giocare – insieme agli altri bambini della compagnia – tra le spade di latta, le parrucche, i corsetti e i “giustacuore”.  Tutto ciò che vede e tocca è intriso di mistificazione: i suoi stessi genitori  mostrano il volto mutevole dei personaggi che ogni sera sono chiamati ad impersonare. 

Il figlio d’arte non ha un paese in cui radicarsi: il suo paese è quello nel quale l’arte, di mese in mese, lo conduce. Non c’è tempo per lui di stringere legami sentimentali: non appena percepisce il sorgere di un affetto, l’arte lo chiama altrove e lui, suo devoto servitore, deve obbedirle (cfr M. Ballerini, “Il teatro: inarrestabile traversata”, pubblicato su questa stessa rivista).

Il figlio d’arte non ha una scuola in cui potersi formare: cambia di continuo classi, maestre e compagni. A lui non è concesso un corso regolare di studi, e ciononostante ha l’incredibile vantaggio di poter ascoltare, fin da bambino, i versi immortali dei più illustri tragediografi d’Europa. La sua è un’acculturazione spontanea che lo rende non solo dotato di una perfetta dizione (cosa piuttosto rara in un’Italia “dei dialetti”), ma anche di una ricchezza lessicale ed espressiva sconosciuta ai più. È colto, senza mai aver frequentato una scuola. Cita Shakespeare a memoria, senza forse neppure sapere dove e quando sia vissuto.

 All’età di tre-quattro anni il figlio d’arte inizia a calcare lui stesso, in prima persona (cfr. img. 3), il palcoscenico, nei cosiddetti “ruoli ingenui” che svolgono la funzione di captatio benevolentiae per il pubblico più sentimentale. Solitamente la compagnia lo propone al suo pubblico con il sensazionale annuncio dell’esibizione di un “bambino prodigio”. Crescendo, sono però ben pochi quelli che avranno l’onore di restar tali.
Nelle sere, invece, in cui il figlio d’arte non ha da svolgere il suo piccolo ruolo, attende solo, spesso al buio (perché anche l’illuminazione ha un costo eccessivo per i comici girovaghi), nelle fredde e desolanti camere d’affitto. Attende il ritorno dei genitori, dopo la mezzanotte, dopo lo spettacolo e, durante quelle interminabili nottate, inizia a sognare il proprio futuro, in attesa di quella crescita fisica che lo consacrerà finalmente attore a pieno titolo.
Img.3 - 1851 Nell’elenco della  Compagnia Nicola Cola, risultano la prima attrice Carlotta Feoli-Cola (di anni 26) e suo figlio Carlo Cola (di anni 1).

Img.3 - 1851 Nell’elenco della  Compagnia Nicola Cola, risultano la prima attrice Carlotta Feoli-Cola (di anni 26) e suo figlio Carlo Cola (di anni 1).

Img.4 - 1863 Nell’elenco della Compagnia Slvano-Fabbri compare come prima attrice Carlotta Feoli-Cola  (di anni 38) e i suoi due figli Carlo Feoli (che altri non è che Carlo Cola, di anni 13) e Leonilda Feoli (che altri non è che Leonilda Cola, di anni 10)

 L’attesa, nel suo caso, non è estenuante: già verso i dodici anni, se è minimamente dotato, può rivestire i ruoli di “attore/trice  giovane” (cfr. img. 4), diventando così il beniamino del pubblico e il sogno proibito di spettatori e spettatrici.

Compiuto questo salto verso i ruoli adulti, l’iter è per lui scandito con tappe fisse: chi ha buone qualità (le physique du rôle e voce bronzea), nel giro di pochi anni, potrà aspirare al ruolo insostituibile di “primo/a attore/trice”.

E da quel momento in avanti, ogni sera, senza eccezione, con uno spettacolo sempre diverso in cartellone, l’attore dovrà esibirsi di fronte al proprio pubblico, trecentosessantacinque giorni all’anno, talvolta persino con due commedie al giorno. Ed è proprio in questo che risiede l’orgoglio dei vecchi comici: un pubblico che li ama, li segue, tributa loro fiori e applausi, ogni giorno dell’anno, per un’intera esistenza.

Ecco perché per i figli d’arte non esiste lutto, nascita matrimonio o quant’altro, che possa impedire il corso regolare delle rappresentazioni: l’attore, se privato degli occhi ammirati degli spettatori, è come se cessasse di esistere.

Coloro che infatti, per una tragica sorte, erano talvolta costretti a congedarsi anzitempo dalle scene, da quel momento stesso smettevano di percepirsi vivi. L’attore che si fermava diveniva come un’animale in cattività, a cui manca la possibilità di respirare, muoversi e nutrirsi. Sopravvive a se stesso come un’ombra nell’Ade omerico, privo di memoria e consistenza, malinconico. Allo specchio non riconosce più neppure il proprio volto. Non più uomo vivente, ma sterile e impalpabile come la polvere, ammutolito come l’anima descritta da Sbarbaro.

Img.4 - 1863 Nell’elenco della Compagnia Slvano-Fabbri compare come prima attrice Carlotta Feoli-Cola  (di anni 38) e i suoi due figli Carlo Feoli (che altri non è che Carlo Cola, di anni 13) e Leonilda Feoli (che altri non è che Leonilda Cola, di anni 10)

Taci, anima stanca di godere

e di soffrire (all’uno e all’altro vai

rassegnata).

Nessuna voce tua odo se ascolto:

non di rimpianto per la miserabile

giovinezza, non d’ira o di speranza,

e neppure di tedio.

Giaci come

il corpo, ammutolita, tutta piena

 d’una rassegnazione disperata.

La vicenda di gioia e di dolore

non ci tocca. Perduto ha la voce

la sirena del mondo, e il mondo è un grande

deserto.

Nel deserto

io guardo con asciutti occhi me stesso.

 

Ecco perché la gran parte dei vecchi attori lottava fino all’estremo delle proprie forze per trovare un’eroica la morte sulle tavole del palcoscenico: era questa la fine che tutti avrebbero agognato, una fine degna del loro nome, che li avrebbe ricondotti a quel loro primo, lontano, vagito.

Solo così il cerchio si sarebbe perfettamente chiuso: l’alfa avrebbe coinciso con l’omega, in quell’arcana e cosmica armonia della Bellezza.   

IL SANGUE BLU DEI FIGLI D’ARTE

A tutti noi oggi, quando pensiamo ad un attore, viene in mente un singolo che, per una sua personale vocazione, sceglie di intraprendere la carriera artistica.

Per secoli non è stato così. Il comico (termine classico del nostro teatro per designare l’attore di prosa) non era concepibile come individualità, ma solo come derivazione e prodotto di una storia familiare, come tappa intermedia di un susseguirsi di generazioni dedite all’arte.

Attori, insomma, non lo si diveniva, ma lo si nasceva: solo chi fosse stato figlio, nipote e pronipote di commedianti e teatranti, avrebbe avuto il privilegio di solcare le scene.

Il titolo “figlio d’arte”, insomma, assomigliava molto – nell’utilizzo che ne facevano i vecchi comici – ad un titolo nobiliare proprio perché, come quest’ultimo, identificava un’élite a cui non tutti potevano accedere e dalla quale non era dato distaccarsi.

Rarissimi, nella storia del teatro italiano, i casi di attori non-figli d’arte: chi non aveva nelle vene il “sangue blu del socco e del coturno” ben difficilmente poteva essere accolto nella casta e sperare di essere considerato autentico artista.

Essere figlio d’arte, infatti, equivaleva ad un marchio indelebile, capace di plasmare un intero modo di vivere e di essere, di pensare sé, gli altri e il mondo circostante. Chi si definiva tale, lo faceva con quello snobismo tipico dei blasonati, di chi è cosciente di possedere un qualcosa che, alla maggior parte degli uomini, è negato.

Come un vero blasonato, considera un discrimine fondamentale la dimensione temporale, e cioè l’antichità del proprio casato. Il figlio d’arte guarda con orgoglio alla propria stirpe, se ne sente il frutto e esibisce il proprio cognome come un vanto; tanto più è antico e tanto più in lui accresce la fierezza. Tra di loro i comici si distinguono in famiglie di alto e basso lignaggio, a seconda di quante generazioni siano trascorse dal capostipite, da quell’eroe fondatore che, per primo, ha calcato le scene.

Img.5 - 1871 Nell’elenco della Compagnia Cola-Pedroni compare come prima attrice Carlotta Feoli (di anni 46) e i suoi due figli Carlo Cola (di anni 21) e Leonilda Cola (di anni 18).

Img.3 - 1851 Nell’elenco della  Compagnia Nicola Cola, risultano la prima attrice Carlotta Feoli-Cola (di anni 26) e suo figlio Carlo Cola (di anni 1).

Altro elemento di distinzione è, poi, quello della celebrità dei propri antenati: chiunque possa vantare nel proprio albero genealogico artisti di fama nazionale  ̶  osannati nei teatri delle principali città italiane, applauditi da pubblici aristocratici o addirittura da sovrani  ̶  guarda con un certo sussiego le stirpi cadette e da loro è guardato con soggezione e reverenza.

Molto interessante, a tal riguardo, è il fenomeno del meccanismo cumulativo dei cognomi per quanto riguarda le attrici.

Esse, come ogni altra donna italiana dell’epoca, sarebbero state obbligate, al momento del matrimonio, ad acquisire il cognome del coniuge; le attrici, di contro, specie se discendono da un’antica famiglia d’arte con illustri predecessori, conservano, sui manifesti e sulle locandine, il proprio cognome da nubile, affiancato a quello del marito (cfr imag. 3; 6; 7). In taluni casi, hanno addirittura l’ardire di continuare a fregiarsi del loro solo cognome d’origine, specie se quello acquisito non lo reputano degno (cfr. imag. 5).  Questa loro scelta è dettata dalla volontà di sottolineare, con nettezza, la propria appartenenza ad una prosapia, dalla quale ci si sente identificati e investiti di dignità.    

Da quanto detto, è facile comprendere come fossero malvisti i “matrimoni misti”, cioè quelle unioni  tra un “figlio d’arte” e un “non-figlio d’arte”. Il sangue blu dei comici temeva di essere “inquinato” dalla profanità della gente comune, che mai avrebbe potuto, nel breve arco di una vita, acquisire quel modus vivendi  ed essendi che il figlio d’arte aveva invece succhiato fin dal seno materno. I parvenu, proprio come i borghesi arricchiti, potevano anche ottenere fama e successo, ma il loro essere non era intriso di teatralità e questo li rendeva eterni estranei. Il mondo chiuso dei comici, come ogni oligarchia, aveva disegnato nei secoli una propria inconfondibile fisionomia e mal tollerava chi avrebbe potuto alterarla o distorcerla, oltrepassando quei confini demarcati con tanto impegno e tenacia. 

I cosiddetti matrimoni misti erano dunque piuttosto rari: rarissimi nel caso in cui fosse una donna a dover entrare nell’arte. Per una donna “rispettabile” era un vero e proprio disonore accodarsi alla vita girovaga e sfrontata degli attori. Le poche che, nella storia del teatro, hanno osato compiere tale vergognosa scelta, si sono condannate, prima, ad un’esclusione sociale e, poi, ad un ruolo artistico perennemente subalterno. Leggermente diverso era il caso in cui fosse un uomo ad unirsi in nozze con un’attrice: nei suoi confronti, la censura sociale era decisamente meno spietata e vi era per lui qualche possibilità in più di ascesa artistica.

Tornando all’uso dei cognomi utilizzati nella cartellonistica teatrale, è interessante notare che, nel caso di un matrimonio misto tra un non-attore e un’attrice, potesse essere addirittura l’uomo ad assumere il cognome della moglie (cfr. img. 6) oppure accadere che i figli comparissero negli elenchi con il cognome della sola madre (cfr. img. 4), così da risultare membri legittimi di un’aristocrazia.

Meccanismi che somigliano, senza troppo forzature, a quelli delle famiglie nobiliari.

Img.6 - 1881 Nell’elenco della Compagnia Lorenzo Faleni risulta prima attrice giovane Leonilda Cola-Cresseri (di anni 28) e tra gli attori, suo marito Giuseppe Cola-Cresseri.

Ma, come ben si sa, la nobiltà non è solo un onore, ma è anche un qualcosa che obbliga.

E l’appartenenza al patriziato attorico obbligava l’attore ad un codice di comportamento molto rigido ed ineludibile.

Il vero e autentico figlio d’arte non può mai e poi mai concedersi il vestire sciatto della gente comune, mai un tono di voce dimesso o strascicato… Per strada, nell’osteria o in qualunque altro luogo profano si trovi a muoversi, il comico deve studiare i propri movimenti e conservare quella voce stentorea da primo attore che il pubblico da lui si aspetta. Il suo gesticolare deve essere ampio e plastico e la testa muoversi rigida sul collo. Alla loro condizione di eredi al trono  ̶  e non c’è trono posto più in alto e più ammirato del palcoscenico  ̶  non è dato essere distratti rispetto agli occhi curiosi dei passanti: il pubblico, anche quando non è in sala, li osserva e da loro si aspetta una costante mattatorialità, una galanteria di posa, un istrionismo atteggione. E i comici sanno di non poter mai deludere il proprio pubblico e, tanto meno, venir meno a se stessi. 

Sì perché in verità, proprio come i discendenti delle schiatte nobiliari, il rispetto che loro rivelano verso chi li osserva, non è tanto dovuto alla dignità riconosciuta a quelle persone, quanto piuttosto all’ossequio che essi sono obbligati ad avere verso la propria condizione.

Per loro il mondo è diviso tra comici e non-comici e questi ultimi altro non sono che gentes, anonimo pubblico pagante e plaudente… devoti pellegrini umilmente genuflessi di fronte alla sacro santità dell’Arte.  E l’unico sacerdote di questo antichissimo rito è e rimane  l’attore.

 

Img.6 - 1881 Nell’elenco della Compagnia Lorenzo Faleni risulta prima attrice giovane Leonilda Cola-Cresseri (di anni 28) e tra gli attori, suo marito Giuseppe Cola-Cresseri.

LA GIUSTA ACCEZIONE

Quando dunque utilizziamo l’espressione “figlio d’arte”, applicandola ai vecchi attori italiani, bisogna darle il valore che essa realmente, per secoli, ha posseduto e cioè quello di “figlio dell’arte”, proprio perché è l’arte ad aver per secoli partorito, nutrito, allevato e svezzato queste sue creature. L’arte: madre amorevole e inseparabile compagna di tutta la loro esistenza. 

Noi, oggi, per esprimere questo legame così intenso tra gli attori e il loro mestiere, diremmo che hanno “dedicato” la loro vita all’arte. Eppure se questa espressione giungesse alle orecchie di un attore del teatro italiano all’antica, di fronte al verbo “dedicare”, egli rimarrebbe interdetto e incapace di comprendere. 

L’arte per lui non è mai stata un qualcosa a cui si può decidere se “dedicare” o meno la propria vita, ma arte e vita per lui hanno da sempre, e obbligatoriamente, coinciso. Essere uomo senza essere attore, è per lui una contraddizione in termini. L’uomo-attore nasce uomo-attore e tale muore. Tutto quello che il figlio d’arte vede e percepisce intorno a sé non è null’altro che teatro: attori i genitori e attori i figli; attrice è sua moglie e attori sono tutti i suoi amici, senza nessuna eccezione, perché il mondo esterno all’arte per lui non può esistere. Di teatro è ingombra la sua memoria e il teatro detta i binari lungo i quali si muoverà il suo futuro. Drammi e commedie sono i libri egli che ha letto. I suoi abiti sono gli abiti da scena e i luoghi più imbevuti della sua essenza sono i camerini: altrove di lui non v’è traccia. Figlio dell’arte, geneticamente identico alla sua genitrice, di lei ha gli occhi e i lineamenti, la fisionomia; il volto dell’uno, pur nella sua identità, riflette e rivela il volto dell’altra. 

FORZA E DEBOLEZZA DEI FIGLI D’ARTE

Img.7 - 1907 Nell’elenco della Compagnia Giuseppe Temporini compare tra le attrici Leonilda Cola-Cresseri (di anni 54) e, in veste di prima attrice, sua figlia Giuseppina Cresseri-Nistri (di anni  28). Si noti, in entrambi i casi l’uso del doppio cognome.

Img.7 - 1907 Nell’elenco della Compagnia Giuseppe Temporini compare tra le attrici Leonilda Cola-Cresseri (di anni 54) e, in veste di prima attrice, sua figlia Giuseppina Cresseri-Nistri (di anni  28). Si noti, in entrambi i casi l’uso del doppio cognome.

Non è allora un caso che, per secoli, l’Italia sia stata maestra di recitazione in tutta Europa (e persino nel Nuovo Continente). I più geniali interpreti del teatro mondiale, sorgono proprio dall’humus dei figli d’arte: figli d’arte sono Tommaso Salvini ed Ermete Zacconi; figlie d’arte Carlotta Marchionni, Adelaide Ristori ed Eleonora Duse.

E questo perché la maestria artistica dei figli d’arte non nasceva da un apprendimento mediato e tardivo, in apposite scuole di recitazione, ma sgorgava direttamente dall’osservazione, dall’ascolto e dall’imitazione dei propri genitori o colleghi più anziani. Un’osservazione quotidiana ed ininterrotta fin dai primi giorni di vita. È per questo che i figli d’arte potevano vantare delle abilità tecniche che nessuno tra gli attori attuali e futuri potrà più sperare di avere.

Tanto per cominciare, possedevano una memoria straordinaria, esercitata di continuo in un repertorio ogni sera cangiante: per loro la memorizzazione di un testo era un qualcosa di spontaneo così come, per il resto del mondo, lo è l’imparare a camminare.

Nel caso poi la memoria venisse loro meno – a sipario aperto e con il pubblico in sala – sapevano far fronte all’empasse andando a pescare brani estrapolati da centinaia di opere ed autori tra loro anche lontanissimi per stile e contesti. Assolutamente certi che il pubblico non potesse accorgersi dei questa loro contaminatio, si trasformavano ogni sera in improvvisati autori, senza curarsi minimamente della sacrosantità del testo scritto. 

Tra i loro punti di forza, bisogna poi annoverare la confidenza assoluta che avevano con il pubblico. Nessun figlio d’arte conosceva la paralisi provocata dal panico dell’ingresso in scena: per loro la scena era “casa” e il pubblico un “amico” che ogni sera andava a trovarli nella loro insolita quotidianità.

Non c’era gaffe, ritardo nelle entrate o rumoreggiare di pubblico, che potesse metterli in difficoltà: sapevano far fronte ad ogni intoppo con quella prontezza che solo chi è nato e cresciuto in palcoscenico può possedere

I figli d’arte conoscevano quasi per istinto, senza fatica, il giusto timbro della voce, l’enfasi delle pause e i picchi declamatori. Intuivano, senza rendersi conto di come accadesse, le impennate retoriche e i momenti più opportuni per piazzare i loro “pistolotti”. Sulla scena si muovevano con una disinvoltura spiazzante, quasi non percepissero la finzione alla quale stavano partecipando. Inesauribile era il loro repertorio di “pose sceniche”: sapevano dar corpo, spontaneamente, alla paura, allo stupore o alla gioia irrefrenabile; sapevano rendere plastica la fantasia, l’illusione e l’inquietudine. Con noncuranza, riuscivano ad impersonare eroi del passato, sovrani dissoluti, infidi osti e servi scaltri, passando, di sera in sera, dalla tragedia più sublime alla commedia farsesca, dai toni truculenti del Grand-Guignol alla sobrietà del dramma borghese.

Eppure, nonostante questi evidenti punti di forza, i figli d’arte mostrano anche una congenita fragilità, un limite connaturato che li ha condotti, con il passar del tempo, all’estinzione.

Il loro tallone d’Achille risiede forse proprio nella “eccessiva confidenza” che hanno con le scene, una confidenza che diveniva spesso trascuratezza e pressappochismo.

E tale trascuratezza aveva senza dubbio origine in quella povertà culturale che troppo a lungo li ha tenuti lontani da ogni coscienza artistica e da uno studio rigoroso dei testi e dei contesti. Per questo i figli d’arte avevano tutti, senza distinzioni, un piede posto nella guitteria: spesso trascurati e anacronistici risultavano gli abiti; anacronistiche le scene; talvolta venivano calpestati persino i più sacrosanti diritti del testo, riscritto di continuo in base alle loro personali esigenze.

Img.8 1925 Nella Compagnia Arturo Nistri compare come prima attrice sua moglie Giuseppina Nistri (46 anni)
Img.8 1925 Nella Compagnia Arturo Nistri compare come prima attrice sua moglie Giuseppina Nistri (46 anni)

Il secondo aspetto che li ha condannati all’estinzione, è che i figli d’arte, come è tipico dei membri degli “antichi regimi”, vivevano di schemi fissi e di abitudini e mal tolleravano le novità e le riforme. Per loro il sistema teatrale era, e doveva restare, quello che avevano ereditato dai loro genitori e quest’ultimi dai loro nonni e così via lungo i secoli.

Tale miopia li ha resi incapaci di accorgersi che il loro mondo necessitava invece di una rivoluzione, di un radicale ricambio di idee e di uomini.

I figli d’arte – irrigiditi nella tradizione – non hanno avuto la prontezza di capire che un certo tipo di repertorio era divenuto ormai improponibile e vetusto, addirittura ridicolo in un mondo che stava repentinamente cambiando. Hanno continuato a recitare il teatro borghese, quando la borghesia aveva ceduto il passo alle masse proletarie; hanno insistito ad inscenare i drammoni sensazionali quando il pubblico era ormai avvezzo ai drammi intimistici; hanno seguitato a mettere in cartellone opere patriottico-risorgimentali dopo che ben due guerre mondiali avevano lacerato per sempre gli ideali di Patria e di Bandiera.

 

Non sono stati capaci di comprendere per tempo l’aspetto grottesco dei “ruoli fissi”: attrici o attori ottuagenari si ostinavano ad impersonare Romeo e Giulietta per il solo fatto di essere stati incoronati “prima attrice” o “primo attore” sessant’anni prima; donne malate di un’inguaribile pinguedine vestivano gli abiti di Gioconda Danti, ideale femmineo di grazie e bellezza nell’omonima tragedia dannunziana La Gioconda.

Le vecchie compagnie dei figli d’arte hanno continuato, fino alla seconda metà del ’900, ad affidarsi ciecamente alla direzione artistica del solo capocomico, ignorando del tutto il “teatro di regia” che stava diffondendosi in quegli stessi anni in  Europa.

Hanno cocciutamente perdurato ad impiegare in modo massiccio – e talvolta insostenibile – il suggeritore che, dalla buca in cui era sprofondato, gridava le battute ai singoli attori; per non parlare dell’abitudine di concludere ogni singolo spettacolo, foss’anche la tragedia più sublime, con l’immancabile Farsa.

Ma la loro colpa più grave è stata, senza dubbio, quella di aver continuato a basarsi solo ed esclusivamente sulla bravura di un unico componente (il primo attore o la prima attrice), incuranti del livello talvolta infimo degli altri interpreti. Non hanno saputo cogliere la novità delle “compagnie di complesso”, ma si sono fossilizzati su quelle grandattoriali, nelle quali spesso anche il grand’attore scadeva in un istrionismo delirante, in una mattatorialità che ricercava solo l’applauso fine a se stesso, con ogni mezzo e trovata

Img.9 - 1934 Nell’elenco della Compagnia Arturo Nistri compaiono, come prima attrice, Giuseppina Nistri (di anni  55) e, in veste di primo attore, suo figlio Manlio Nistri (di anni 25) I figli d’arte insomma avevano il mestiere nelle vene (e questo è un qualcosa che non potrà mai più riaccadere nella storia dello spettacolo), ma a loro forse mancava il sacro fuoco dell’arte (sacro fuoco che, del resto, ben difficilmente si può ereditare), quella vocazione verso quel continuo travaglio che, solo, può generare l’arte somma. Privi di qualunque volontà di interrogarsi criticamente sul proprio ruolo e sui propri fini, ma convinti che l’arte fosse loro consegnata in modo spontaneo fin dal momento della nascita, come un corredo genetico, i giurassici figli d’arte si sono incamminati, con passo lento ma inesorabile, sul “viale del tramonto”. Negli anni Sessanta del ‘900, centinaia di artisti, appartenenti a plurisecolari famiglie d’arte, hanno abbandonato per sempre le scene, scrivendo definitivamente la parola fine sulla lunga epopea dei figli d’arte (cfr. img. 10). Img.10 - 1966 In questa copertina compaiono Carmelo Bene e Manlio Nevastri, che altri non è che Manlio Nistri (di anni 57), figlio di Giuseppina e Arturo  Nistri e discendente da una plurisecolare famiglia di artisti drammatici
Img.9 - 1934 Nell’elenco della Compagnia Arturo Nistri compaiono, come prima attrice, Giuseppina Nistri (di anni  55) e, in veste di primo attore, suo figlio Manlio Nistri (di anni 25)   Img.10 - 1966 In questa copertina compaiono Carmelo Bene e Manlio Nevastri, che altri non è che Manlio Nistri (di anni 57), figlio di Giuseppina e Arturo  Nistri e discendente da una plurisecolare famiglia di artisti drammatici
 

 












 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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