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Mario Salini
Incantesimo
Una storia romantica
"The Enchantment" di Gilbert Williams, 1994
Enchantment
A romantic story
Era una bottega dove migliaia di oggetti, sistemati a riempire uno spazio di modeste dimensioni, testimoniavano una forma d’arte che pareva di sfregiare con il prelievo di un solo pezzo. Di uguale avviso si sarebbe detto il padrone, che aveva scelto per sè un soprannome poco adatto: ‘il mercante’. Ma i vicini, come pure gli abituali avventori, gli attribuivano invece il nomignolo di ‘scultore’, a motivo di quelle ardite colonne e piramidi fatte con bambole di ceramica, soldatini di piombo, grammofoni, cassette di legno, presepi in cartapesta, pupazzi di noci di cocco, orologi a pendolo e a catenella, medaglioni di rame, di bronzo e d’argento.
Di sera, sulla strada di casa, non perdevo occasione di soffermarmi di fronte alla vetrina, per dare un’ultima occhiata a quel piccolo capolavoro d’arredamento.
Una volta mi accorsi che c’era stato un po’ di trambusto. Un gruppo di pupazzi era uscito dalle file e si trovava gettato alla rinfusa insieme ad una collezione di pipe, un troll di sughero era stato accarezzato da mani inesperte e aveva i capelli ritti; e una bambola mora che faceva l’inchino era piegata ancora più in avanti e sostava in precario equilibrio. La sua giacchina di seta aveva perduto l’unico bottone, e adesso, dal collo, le ciondolava una collana di spago, alla cui estremità era appeso un grosso medaglione.
Spostai la mia attenzione su questo. Sembrava un orologio da taschino, o un portaritratti. Un oggetto ben lavorato, di colore rosa, con delicate sfumature dorate. Quel giorno era il mio compleanno, e pensai che mi sarebbe piaciuto acquistare un oggetto da portare con me, come un portafortuna. La luce del negozio era ancora accesa, entrai per informarmi sul prezzo del medaglione.
Lo scultore non ha mai nascosto la sua diffidenza verso gli avventori, quasi che i potenziali acquirenti gli facciano un dispetto, appropriandosi di oggetti che ha cercato a lungo e ai quali si è affezionato.
Mi guardò sospettoso: "Ah… voi. Stavo per mangiare..".
"Non voglio disturbarvi, andrò via subito. Cos’è successo alla vetrina?.. pare che ci sia stato un po’ di caos ".
"C’è stato un caos, altro che! Oggi ci sono passati i vandali, qui da me... Esagerato, dite?... non avete visto niente. Non m’hanno lasciato un oggetto sano, dico uno. Così non ci facevano i vandali?... Ma vedete che la differenza è poca, quei tipi abitano da quelle parti ".
"Vi avranno fatto felice con i loro acquisti!".
"Chi, quelli?... Non gli ho venduto proprio niente, figuriamoci se vendo a quelli. Ho alzato i prezzi del triplo, così si sono scoraggiati. Domani rimetterò le cose a posto. Be’, grazie della visita, arrivederci", concluse bruscamente.
"Non cacciatemi così in fretta, sono qui per un’informazione. Ho visto un medaglione sul collo di una bambola, quella che fa l’inchino nella parte sinistra della vetrina. Vorrei guardarlo da vicino, mi piace".
"Ah!.. lo devo togliere, altrimenti fa cadere la bambolina. Quel medaglione, sì… sarà un orologio, ma non è un gran che. A proposito, v’interessano gli orologi? aspettate qualche giorno, arriveranno alcuni pezzi interessanti. Ritornate sabato, eh?".
"Voglio vedere quello, scusate se insisto".
"Oddìo, che ostinazione!.. forza, allora, sbrighiamoci sennò mi si fredda la pizza e mi si scalda la birra!".
Lo scultore tolse medaglione e spago dal collo della sua bambola per porgermelo, e lo fece malvolentieri. "Siete sicuro che è un orologio?", dissi, "… questa è una pietra incastonata... poi, con questa forma ovale... Inoltre è troppo piatto per essere un orologio da taschino". Tentai invano di aprirlo. Lo scultore me lo prese dalle mani, come ad insegnarmi come si fa.
"Ho detto orologio?.. bè, mi sono sbagliato, è chiaro che non è un orologio". Compì alcuni tentativi per aprire il medaglione, ma neppure lui riuscì. Si voltò verso di me, sempre più indispettito: "Volete la verità?... ecco qua: non so che roba è. L’ho preso al mercato antiquario di Arezzo. Mi pare un portaritratti. Io non l’ho mai aperto, e non ricordo neppure chi me l’ha venduto".
"Non sono entusiasta di comprare un portaritratti che non si apre, anche se mi piace. Vuol dire che mi farete contento sul prezzo".
"Oh, se non s’apre non vi posso accontentare, mica posso prenderlo a martellate".
"Non m’importa, ditemi quanto volete".
"Ma …sarà rotto, a che vi serve?...".
"Vi dico che mi piace...".
"Ognuno ha i suoi gusti, però i vostri sono proprio strani. Va bene, meglio a voi che a un altro, datemi centomila lire".
"Non mi pare un prezzo ragionevole, se è rotto".
"Vi sbagliate, è un oggetto di pregio in ogni caso. Accontentatevi...".
La sera, giunto a casa mia, sgombrai il tavolo dello studio, sempre pieno di libri, fogli, tazzine di caffè e mille altri impedimenti alla serena attività di chi vorrebbe solo leggere, e presi alcuni strumenti che mi avrebbero aiutato ad aprire il medaglione, come pinze e cacciaviti. Quando lo misi sul tavolo, ancora esercitò su di me la stessa attrazione di quando, poco prima, l’avevo toccato. Lo annusai, lo strinsi forte quasi a saggiarne la resistenza. Lo strinsi ancora, ai lati. E quello si aprì, senza più riluttanza; al contrario, si aprì con la stessa dolcezza di un meccanismo che sia stato utilizzato spesso e che funzioni a dovere; e rivelò una trama decorativa a motivo di cornice, con al centro un ritratto di donna. Mi uscì spontaneo un grido di piacere, e fui soddisfatto di non aver condiviso con altri l’esclusiva della prima osservazione. Mi tolsi gli occhiali da miope, per esaminare la donna alla minima distanza possibile.
Aveva i capelli chiari, lunghi e ondulati, gli occhi grandi e un poco socchiusi. Socchiuse erano pure le labbra. Il mento era appena sollevato, come chi si concede al ritratto in posa. Gli zigomi erano di perfetta rotondità, e la fronte, ampia, conferiva allo sguardo una grande intelligenza.
L’altra superficie, quella opposta al ritratto, conteneva una scritta, realizzata incidendo a mano sulla superficie del medaglione. I caratteri erano molto piccoli, appena leggibili per me. C’erano questi versi:
Ed Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi,
E la morte non ci sarà più,
Né ci sarà più cordoglio, né grido, né dolore.
Fissai di nuovo la donna, a più riprese. Tenevo aperto il medaglione fin quando non avevo gli occhi stanchi e dovevo concedermi una piccola pausa. Quindi lo richiudevo, quasi che, qualora fosse rimasto aperto, il suo contenuto si sarebbe contaminato al contatto con l’aria. Ogni volta provavo ad immaginare chi fosse la donna, o chi fosse stata; quale vita avesse condotto, in quale città avesse vissuto e in quale periodo. Analizzai la foto con pazienza certosina, intorno alla qualità del bianco-nero, all’abbigliamento di lei, all’illuminazione e al tipo di sfondo, perché era una ripresa effettuata in studio. In apparenza, sembrava una ripresa antiquata, fuori tempo, forse dei primi del Novecento; ma era un azzardo, una datazione affrettata e superficiale. Il viso della donna appariva senza età e senza possibilità di datazione. Avrebbe potuto ben figurare in una carrellata di ritratti di inizio novecento come in una degli anni ottanta. Era, dalla mia valutazione, un viso di bellezza straordinaria.
C’era, d’altra parte, la possibilità che la donna fosse vivente... forse molto vecchia. M’immaginai mentre percorrevo il corridoio di una casa anonima, curata quel tanto che basta per mantenere un poco di dignità, i pavimenti lucidati con essenze profumate per coprire gli odori della vecchiaia... Ero andato là per restituire il medaglione con la foto alla legittima proprietaria, scovata in base a una fortunata ricerca…mi faceva strada una cameriera di mezza età... Ecco, la cameriera giungeva di fronte alla porta del soggiorno e l’apriva con naturalezza, ed a me si stringeva il cuore vedendo una donna con pochi capelli grigi e tinti e lo sguardo privo di interesse, nonostante il cortese saluto che mi aveva rivolto appena mi ero presentato... Le avrei restituito il medaglione, senza domandarle se lo avesse perduto o se le fosse stato rubato...
Ritornai al presente, più consolatorio.
Guardai ancora, ed infine, spostando l’attenzione dal viso della donna agli elementi più esterni, notai un’altra iscrizione, vicino al bordo inferiore destro, che a prima vista avevo confuso con la decorazione della cornice. C’erano scritte due parole, forse un nome e un cognome, ed alcuni numeri. Delle lettere riuscii a identificare con sicurezza una ‘L’ e una ‘K’. I numeri erano confusi, storti, impossibili da riconoscere.
‘Va bene una ‘L’, si può attribuire a molti nomi di donna, ma la ‘K’ a quale nome, o cognome, può appartenere?... Non ad un cognome italiano, anche se il resto è scritto in italiano...’.
Mi accorsi all’improvviso di aver consumato quasi tutta la notte.
25 maggio, un anno dopo.
In quel maggio c’erano state alcune giornate eccezionalmente calde. I meteorologi avevano previsto un’estate ‘calda e afosa come mai negli ultimi cinquant’anni’. Ipotesi irritante. Non credo ad una sola delle previsioni che le cassandre scientifiche di fine novecento urlano senza tregua, spargendole attraverso i giornali come zizzania in un campo coltivato, con quella supponenza sgarbata e saccente di chi si reputa il solo autorizzato a descrivere gli eventi visibili. Però, infine, la mia avversione al caldo è di tale grado che la notizia di un’estate più calda del solito mi procurò un deciso terrore.
Vicino alla strada che costeggia il lago di Bolsena, e che percorro abbastanza spesso per lavoro, c’era un campo di fiori, in un terreno messo a riposo per ripristinarvi le condizioni ideali di coltivazione. L’avevo tenuto d’occhio settimana dopo settimana, quasi con la paura che qualcuno potesse compiere un atto vandalico sullo stesso, prima che fossi riuscito a fotografarlo nei particolari.
Dalla mia auto vedevo il campo a poca distanza. Si svolgeva per lungo tratto parallelo alla strada, innalzandosi poi rispetto al piano stradale e insinuandosi fin dentro un boschetto di acacie. Mentre guidavo ne studiavo i colori, e ne apprezzavo i cambiamenti cromatici in relazione al mattino e alla sera, con il sole o con la pioggia. E finalmente, quel sabato di maggio, giunsi nei pressi del campo per entrarvi e fotografarlo.
Non era ancora l’alba di una giornata che si annunciava caldissima e umida. Mi ero portato una grossa borsa, in cui avevo infilato l’apparecchiatura fotografica.
Lasciai la macchina ai bordi della strada ed entrai nel campo. Mi feci strada a fatica tra i fiori e le erbe, alti fin quasi alla mia cintura. Camminavo piano, un po’ per il gran peso dell’attrezzatura, che dovevo trasportare per qualche centinaio di metri su una salita con discreta pendenza, un po’ per paura di distruggere i fiori o di disturbare le api, che sapevo esserci numerose. Mi fermai alcune volte per studiare il punto d’osservazione migliore, fino a che giunsi sulla cima del prato, laddove cominciava la macchia. Era ancora buio, tale da non distinguersi i colori della fioritura, ma c’erano margherite e papaveri in gran numero, e un gruppo isolato di rari fiordalisi. Dappertutto sentivo un odore acre, a volte sgradevole.
Scelsi una postazione che mi avrebbe garantito la ripresa in controluce laterale, poi piazzai il cavalletto. Mi fermai per riprendere fiato, e sentii qualcuno canticchiare alla mia sinistra, a qualche metro, sulla linea da cui sarebbe sorto il sole di lì a pochi minuti. Anche l’altro si accorse di me solo allora. Anche lui aveva piazzato un cavalletto per la ripresa fotografica. Incrociammo lo sguardo per alcuni secondi.
L’uomo parlò per primo. "Ehi!, amico, sappiamo almeno di possedere un interesse comune, noi due estranei".
"Sì... pensavo di essere solo, a quest’ora... ho fatto un sacrificio per alzarmi". Parlavo ancora a fatica, affannato per lo sforzo.
L’altro fece una risata. "Oh!.. tu hai fatto un sacrificio?.. E io, che vengo qui ogni mattina, da prima di te, da almeno una settimana? Non hai visto il mio passaggio tra i fiori, proprio dietro di te?".
Saputo di aver perso l’esclusiva della ripresa lasciai la fotocamera in borsa. Rimasi immobile, indeciso se restare o andare altrove; poi l’uomo mi chiese di mettermi seduto, ad aspettare che il sole nascesse.
"Tu non fai foto?", mi chiese.
"Poi vedrò il da farsi, adesso non ho voglia...".
"Dopo quella faticaccia che hai fatto?... ma che hai in quella borsa?.. una tenda per tutta la famiglia?".
Scrutai la figura dello sconosciuto. Non l’avevo mai visto prima, il buio e la posizione laterale me lo nascondevano. Aveva la voce roca, quasi sforzata, come se avesse un’infiammazione alla gola. Portava un berretto sportivo con visiera all’indietro, e sulla sua faccia risaltava un paio di baffi neri e folti. La sua corporatura si sarebbe definita robusta, tendente un poco al grasso.
"Ti va un caffè? Ce l’ho nel thermos, bello caldo", disse.
"Grazie".
Il sole apparve quasi subito. Pallido, a causa dello strato spesso dell’atmosfera e della cappa umida. Tutto intorno una luce inadatta per realizzare foto decenti, a mio parere.
Sorseggiai il caffè, ascoltando distrattamente le parole del mio sconosciuto interlocutore. Entrò subito in confidenza. Raccontò di una gita e insieme di un’avventura fotografica in una parte molto calda del mondo, che aveva compiuto poco tempo prima, con l’idea probabile che lo invidiassi. Al contrario, pativo al solo pensiero, e mi risulta tuttora incomprensibile che esseri umani adattati al clima temperato debbano sottoporsi a certi tormenti.
"E’ da poco che ti conosco, e non vorrei fare la figura del ficcanaso, ma tu mi fai diventare triste!", disse improvvisamente lui, con una certa veemenza nella voce. Poi dette una manata sulla mia spalla con fare amichevole.
"Sei sposato, tu?", domandai.
"Perbacco!... Con sei figli di tutte le età, di cui ben cinque femmine, dall’ultima che è stata svezzata da poco a quella che deve fare gli esami di maturità. E tu?".
"Non ancora. Sei figli, hai detto?.. e lasci tua moglie sola a casa fin dal primo mattino, tutte le mattine?".
"Ah, in questo momento siamo lontani un centinaio di chilometri. Lei non è sola, ha la madre e la sorella sempre dietro. Ma io sto qui, aspetto che la più grande dia gli esami, poi mi raggiungeranno. Abbiamo un appartamento da queste parti. Intanto cerco di passare il tempo da solo… mi diverto".
"E qual è il tuo divertimento?".
"Mah!.. far foto, passeggiare. E se poi capita un’amica… Tu, che sei scapolo, non ci pensi, alle donne?".
"Eh sì, ci penso...". Quindi, con una spavalderia che non mi sarei conosciuto, dissi: "Adesso ti faccio vedere la mia donna". Aprii il medaglione e gli feci vedere il ritratto.
"Oh!.. complimenti, come hai fatto a convincere una così?".
"Ho faticato parecchio, ma infine s’è convinta".
"Spero che abbia un buon carattere".
"Il migliore che si possa immaginare. Non è mai aggressiva, non si lamenta se non la vedo per lunghi periodi... e non è gelosa, neppure dei miei ricordi".
"Come si chiama?".
"Non lo so...". Gli confessai la verità, e raccontai la storia del medaglione. L’uomo fece una risata, poi mi chiese il medaglione per osservarlo con una lente. Glie lo porsi con una certa ritrosia.
"E’ più di un anno che posseggo questa immagine.. e che la osservo", dissi mentre l’altro continuava a guardare, "e una volta avrei dato qualsiasi cifra per conoscere la donna. Invece tutto mi è estraneo di lei, a cominciare dal nome ormai illeggibile".
"Dico, ma ti sei ammattito?… una che non conosci... Non sai se è vecchia o giovane... se è viva o morta!", esclamò lui.
"Non penso di essermi ammattito. E’... è una mania, mettiamola così. Io, del resto, ho avuto una lunga relazione con tutt’altra donna, cioè con una reale, e so cosa significa essere innamorati in modo normale, come te, come tutti. Invece, questa immagine ha per me un altro significato. Non si tratta di amore, o di infatuazione. Guarda!", scorsi con l’indice la piccola fotografia. "...E’ un’immagine costruita in studio, dovresti riconoscerla, perché ti diletti di fotografia. Guarda bene la donna. A me ha dato un’emozione, come spiegartelo?".
"Certo, certo...", rispose lui. Si mise le mani dietro la nuca, lisciandosi la lunga capigliatura. "Ma non ti sei informato dal tipo che te l’ha venduta?.. Con un po’ di pazienza, forse, potevi ricostruire la provenienza dell’oggetto. E con un po’ di fortuna potevi pure conoscere l’identità di questa signora".
"Ho indagato a lungo, invece, ma sembra che nessuno ricordi dove o come è venuto in possesso di questo portaritratti. Forse è stato addirittura rubato, ed in questo caso è meglio che io non sappia a chi e perché".
Il mio compagno ascoltava distrattamente, ed era intento a rileggere i versi. "Questo", disse, "sarebbe perfetto come epitaffio, non credi?".
"Secondo me riproduce esattamente un epitaffio. Sono versi tratti dal libro dell’Apocalisse".
"Se fosse stato scritto in modo da riprodurre un epitaffio su una tomba… Bè, amico, potrei fare una ricerca al posto tuo".
"Che intendi?".
"Mi occupo… anzi, ti spiego meglio: da lungo tempo colleziono gli epitaffi più caratteristici, che trovo o di cui ho notizia, messi sulle tombe dei più importanti cimiteri italiani, e non solo di quelli più noti. Ne ho una collezione vastissima e tuttora in espansione. Ho raccolto tanto di quel materiale finora che l’ho immesso in un computer", disse.
"Uno svago da pazzia!".
"Non peggiore della tua!... Senti questo: la gente, quando muore un familiare, o una persona amata, scrive sempre qualcosa sulla tomba del proprio congiunto. Spesso sono frasi banali, messe là tanto per riempire una superficie. Altre volte, invece, sono il segno di un amore reale, e disperato. Se uno scrive una frase prestata dalla Bibbia e la mette su un medaglione può benissimo metterla sulla tomba. Che dirti?.. è una possibilità estremamente piccola. Questa citazione potrebbe apparire solo qui, oppure potrebbe essere stata scritta successivamente da chiunque, e chissà per quale ragione è stata poi messa qui sopra. Insomma, non farti illusioni".
Sentii improvvisamente un groppo in gola, come quando ci assale una nostalgia. "Tu potresti fare questo?", chiesi.
"Sicuro. Anzi, lo farò con piacere e con diletto".
22 maggio.
Le ho portato un mazzo di fiordalisi, come ogni anno in questa stagione. Sono fiori difficili da trovare, bisogna cercarli in zone dove gli agricoltori lasciano riposare la terra per qualche tempo. Crescono insieme ai papaveri e ad altri fiori selvatici, e colorano i prati in un modo che è sempre più raro vedere.
L’ho trovata grazie all’indagine fatta per conto mio da quell’uomo che conobbi in cima al prato fiorito.
Ho immaginato tutto di lei, e di certo ho indovinato tutto.
So con quali romanzi si deliziava, quali poesie leggeva e quali opere ascoltava. So che amava viaggiare. Conosco le città che le piaceva visitare, i mille vicoli in cui le piaceva intrufolarsi per non incontrare turisti con il passo affrettato e l’odore di intrugli cotti e di sudore che si portano appresso come un marchio. Riesco persino a indovinare il passo breve, calmo, agile, con cui passeggiava lungo la Princess Street di Edimburgo, il Ponte Carlo di Praga o la via de’ Calzaiuoli di Firenze. Me la figuro nel modo in cui era solita vestire: spesso indossava lunghi tailleur chiari, preferibilmente rosa, e portava cappelli, specialmente d’estate, di paglia o di seta. I suoi capelli, biondissimi, venivano spesso acconciati a ‘bandeau’, altre volte legati dietro la nuca, a coda di cavallo.
E’ nata lo stesso giorno in cui sono nato io. Però lei appartiene ad un'altra epoca. Era nativa di **, in Boemia, ma ad un certo momento della sua prima giovinezza si stabilì in Italia. Che cosa poi fece, chi conobbe e perché divenne italiana non l’ho mai voluto sapere. E’ vissuta trentanove anni.
Niente è accaduto per caso, sarei disposto a giurarlo. La ‘Natura’ si è divertita a giocare ai dadi, questa volta con noi, spostando le nostre date di nascita di parecchi anni e facendoci poi incontrare in una bottega di oggetti fuori moda. Questo, però, non mi permette di maledire la sorte, al contrario di ciò che potrebbe accadere ad una persona comune, a cui non è concesso di godere dei propri sogni. Se tutto questo è stato architettato, e io ne sono intimamente persuaso, vuol dire che dietro c’è uno scopo, fosse anche il divertimento di ‘qualcuno’ che conosceva le nostre affinità, e non sta a me pretenderne il rendiconto. Tuttavia, se ‘qualcuno’ dovesse chiedermi: "Hai un rammarico?… c’è qualcosa per cui ritieni di avere diritto a lamentarti e che vorresti fosse cambiata per quanto è accaduto?", non avrei esitazione a rispondere che sì, ho un rammarico e un disappunto per non avere la possibilità di appagarmi con l’unica cosa di lei che mi è stata nascosta: il suo profumo.