Le
piccole comunità ebraiche del Ducato di Castro:
Canino e la storia
dimenticata |
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Parte Prima |
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di
Bonafede Mancini e Maria Bina Panfini |
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Intorno alla metà del XVI secolo è registrato in
Canino Habram di Boneventura. Questo, in data 28 novembre
1558, vendette ad Agostino Bandino una pariglia di buoi domi,
chiamati Bella rosa e Tamburino, per il prezzo di 30
scudi che il compratore s’impegnava a pagare entro il successivo
mese di agosto. L’atto di vendita, rogato dal notaio Vincenzo
Bonsignori e alla presenza di Pellegrino e Giovanni Battista
tessitori, fu stilato nella bottega dello stesso Habram posta nella
Piazza della Fonte. In data 4 febbraio 1599, la Comunità di Canino
acquistò da Crescentio hebreo panni per vestire il
Castaldo. Il mercante esercitava la sua attività in una bottega
di proprietà del Comune. Al Podestà di Canino, nel maggio e poi
anche nell’agosto del 1613, il card. Odoardo Farnese intimò di
procedere contro due mercanti ebrei che vi erano venuti ad abitare
per commerciarvi il vino e l’ olio. Le scarne informazioni sulla
presenza di mercanti ebrei in Canino non sono che l’incipit di uno
studio che per Canino deve essere ancora esplorato, ma che si
aggiunge (e completa) a quello già avviato dagli storici nel
territorio castrense e del Patrimonio.
Più in
generale, tra la metà del XVI secolo e i primi due decenni di
quello successivo, piccole unità di banchieri e di mercanti ebrei
operarono attivamente nelle comunità di confine dello Stato
Pontificio e della Toscana meridionale. In ogni modo si trattò di
piccole comunità dai flussi migratori, circolari fra le terre di
confine, regolati dalle autorità pontificie e dai vari Signori
locali e dalla stessa Comunità ebraica per evitare margini troppo
ristretti di profitti e il diffondersi di paure tra gli abitanti
dei piccoli centri rurali, ubicati spesso anche ai margini delle
grandi vie di comunicazione. Rispetto a questi, numericamente più
consistente ed antica era la presenza di comunità ebraiche nei
grandi centri urbani di Viterbo, di Orvieto, di Montefiascone, di
Acquapendente e di Castro, città nelle quali avevano anche il loro
tempio per il culto. Per l’anno 1629 è possibile conoscere che
rabbi della Sinagoga di Castro era Simone Narni. In
data 22 maggio, in qualità di Giudice, lo ritroviamo quale arbitro
nella restituzione di dote di donna Honorata (per la quale
agiva lo zio Salvatore di Prospero da Castro) ad
Abramo di Giuseppe Coen. La sentenza, secondo le
consuetudini e gli usi ebraici (more hebraeorum), fu emessa
nella Scola di Castro alla presenza di Alessandro Moisé,
di Lelio di Zaccaria, di Andrea Corsatti e di
Marco di Rocco.
Il medico
David de Pomis, nel 1587, chiamò affettivamente <città
rifugio> per la gente della sua nazione, tutti i centri posti
nelle terre di confine di Lazio e di Toscana. Si trattava di
accomadigie, ossia dei minuscoli feudi all’interno dello Stato
Pontificio (Ducato di Castro e di Ronciglione, Ducato di Latera e
Farnese, ma anche la ducea di Onano, il marchesato di Proceno,
terre quest’ultime degli Sforza di Santafiora) e Toscano (domini
dei Signori Orsini, Ottieri, Sforza) che godevano di una serie di
privilegi e convenzioni. Così, nonostante i divieti contenuti nelle
bolle del 1555 di Paolo IV (Cun nimis absurdum), di Pio V
(1569) e poi di Clemente VIII (1593), piccole comunità ebraiche
poterono continuare a operare in gran parte dei piccoli centri del
Patrimonio. In ciò furono agevolati anche dal breve (Christiana
pietas) che Sisto V emanò nel 1586. Le attività economiche loro
consentite furono quelle del prestito di denaro a usura (fenerator)
e del commercio di panni e di derrate alimentari: (1554
Acquapendente, vino bianco e rosso; 1570 Marta, grano; 1594 Onano
grano; 1612 Valentano, grano).
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La
Menorah, il tipico candelabro ebraico |

La torre della Rocca Farnese
di Canino |

Ritratto del cardinale Odoardo Farnese
(1573-1626)
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Il Palazzo Farnese di Gradoli |

Veduta di
Latera
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Consistente e qualificato, soprattutto fino alla prima metà del XVI
secolo, era stato l’esercizio della medicina. Oltre al de Pomis,
altri medici fisici ebrei ebbero la condotta nelle città
rifugio:
Acquapendente (1529, Amadio Benevento), Corneto
(1545), Gradoli, Latera (1574, maestro Gabriello). Nel
1572, Laudadio di Mosè, phisico di Viterbo, prese
domicilio in uno dei centri del Ducato di Castro per passare poi a
Castell’Ottieri. Da Viterbo provenivano anche Eliezher Cohen,
talmudista e medico personale di Giulio II (1470) e maestro
Gabriel ben Judah. Quest’ultimo, dopo essere stato medico
condotto in Castro (1549), Ischia di Castro e Valentano (1554),
scrisse un ricettario di medicina e godette della più ampia
protezione e stima di Giulia Farnese. Notorietà e considerazione
rinnovata dallo stesso papa Paolo III. “Tra i rappresentanti
della medicina pratica nell’Università di Roma figura nel 1539 un
ebreo a nome di Giacobbe, che, secondo il Pastor, sarebbe Diego
Mantino, il medico Spagnolo di Paolo III.”
A queste arti
vanno aggiunte quelle, altrettanto tradizionali e autorizzate dalle
autorità pontificie, della lavorazione delle pelli (Valentano,
1546) e del commercio dei panni. Dai dati esposti, anche se
limitati, si evince che nei feudi di confine di Lazio e di Toscana
gli ebrei ottennero e mantennero, anche nel corso della seconda
metà del ‘500, alcune condizioni particolarmente privilegiate non
più consentite in altre parti, come la libertà, almeno parziale,
dal pagamento di tasse e gabelle, il godimento di parte o di tutti
i privilegi della popolazione locale, la possibilità di prestare su
grano, orzo, vino, quella di fare soccide di bestiame o mezzerie
per la sementa con cristiani e soprattutto la possibilità
eccezionale di
possedere beni stabili. Oltre a ciò, potevano vivere liberamente
nei centri abitati, senza restrizioni e senza essere separati dal
resto della popolazione cristiana.
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Banchieri e mercanti ebrei erano attivi a Castro già nel corso del
XV secolo ma è a partire dal 1537, con l’erezione del Ducato da
parte di Paolo III, che s’intensificò e qualificò la loro
presenza nella città-capitale. Massicci interventi urbanistici
trasformarono la città conferendole un nuovo aspetto. Su incarico
del duca Pier Luigi Farnese, Antonio da Sangallo il Giovane, col
suo demiurgico intervento ridisegnò la città. Testimone
privilegiato della palingenesi della città rinascimentale fu
Annibal Caro, segretario di Pier Luigi Farnese. “Questa città la
quale altre volte io vi fui… mi parve una bicocca di Zingari,
sorge ora con tanta e sì sublime magnificenza, che mi presenta il
nascimento di Cartagine.” Al Sangallo si deve anche il Palazzo
dell’Hostaria, nel cui portico sulla Piazza Maggiore erano locate
10 botteghe gestite dalla Comunità ebraica castrese. In esse vi
erano ospitate il banco di prestito, la spezieria, botteghe tessili
e di derrate alimentari (vino, olio e granaglie. |
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Papa Paolo III
Farnese
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