Polsi di pietra e cuore alato

A 100 anni dalla nascita di Oberdan Nistri

 

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di Mauro Ballerini

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«Abitanti di Tebe nostra patria, guardate, questo è Edipo l’uomo che seppe sciogliere gli enigmi, ed era potentissimo;

la sorte di un tal uomo chi di questa città non l’ha invidiata?

E voi guardate adesso a qual mare è giunto di sciagure.

Non chiamate felice nessun uomo, aspettate a vedere l’ultimo giorno della vita sua, se riesce a varcare

quella soglia senza aver sofferto alcun dolore» (Sofocle, Edipo Re)

Primo piano di Oberdan Nistri (1970 ca). Collezione privata Mauro

Ballerini

 

Fine giugno 1998; un caldo giugno di un’estate arrivata violenta ed accecante.

Il sagrato dell’ex oratorio della SS. Annunziata si mostrava  inondato di chiassose presenze, di volti accaldati. Attendevano di entrare nella mite oscurità della chiesa per assistere ad un addio.

Nella penombra umida dell’unica e stretta navata, occupava il posto d’onore il corpo senza vita di Oberdan Nistri, immortalato in una posa plastica e solenne: con un impeccabile doppiopetto bianco e scarpa di vernice lucida bicolore, tiene le braccia dritte lungo i fianchi, con un’espressione impassibile e un impercettibile sorriso di lieto commiato dalla vita.  

Il rigore della morte ha quasi addolcito la sua plastica gestualità e le sue guance sembrano quasi arrosarsi nel pallore muto del suo cadavere.

Intorno a lui rare presenze, volti che riflettono il suo volto ma che rivelano una siderale lontananza. Tra le panche, la sagoma di una bella donna anziana, dall’espressione sperduta e impaurita, nonostante i grandi occhiali scuri e i vistosi gioielli la dipingano fiera. Nessuno osa parlare. Osservano e tacciono. Increduli.

L’orco è stato sconfitto; giace inanimato il suo rabbioso furore. Dopo tanto gridare, solo silenzio. Nessuno sguardo di tenerezza avvolge la sua assenza.

 

TENEREZZA

 Nessuna tenerezza lo accolse in fasce l’8 febbraio 1914 a Bastia Umbra quando, neonato, Oberdan emise il suo primo sospiro. Arrivava quintogenito dopo tre maschi e una femmina: era frutto della vecchiaia dei suoi genitori, ma non certo della buona sorte.

Dopo soli cinque mesi dalla sua nascita, esplose il primo conflitto mondiale che causò un massacro di esistenze fino ad allora sconosciuto; quando ancora non aveva compiuto un anno di vita, un terremoto violento, ad Arpino, inghiottì, in una sola notte, tutti gli averi dei suoi genitori. Nel crollo del teatro, abiti libri scenari suppellettili bauli… tutto fu sommerso e annichilato.  Solo il silenzio sembrava gridare tra quelle macerie.

No, Oberdan non conobbe mai tenerezza.

È piuttosto figlio del tuono, del boato e del rimbombo… Pianto innocente celato dallo strepitio delle armi e dal mugghiare degli elementi… Creatura fragile emersa dal ribollimento della polvere, dalla frattura e dal fragore delle profondità.

Persino il suo nome sembrava contenere un oscuro presagio nella dura sequenza dei suoni consonantici che lo formavano. Un presagio sì, forse un destino. Il bambino appena nato avrebbe portato il nome di Wilhelm Oberdank, martire risorgimentale triestino. Il bel Wilhelm era stata una figura tragica ed eroica allo stesso tempo: figlio mai riconosciuto dal padre, d’intelligenza viva, fascinoso e colto, si era immolato in nome di un’Italia libera; fu condannato a morte per impiccagione a soli 24 anni con l’accusa di alto tradimento, diserzione in tempo di pace, resistenza violenta all'arresto e tentata cospirazione alla vita dell'imperatore Francesco Giuseppe.

Oberdan: sequenza di suoni cupi, pentagramma di un funesto avvenire. Nome alquanto strano per un neonato!

Se si esclude una morte prematura, anche il destino del nostro piccolo Oberdan era già stabilito ben prima della sua nascita, anzi forse ancor prima di quella dei suoi stessi genitori: egli sarebbe stato attore di prosa.

È infatti un autentico “figlio d’arte”: appartiene alla seconda generazione della gens Nistri. Suo padre, Arturo, era un homo novus delle scene e, come tale, mai del tutto inglobato nell’aristocrazia dei comici; sua madre, Giuseppina Cresseri, era invece un’autentica blasonata, discendente da una lunga dinastia artistica (i Feoli e i Cola), osannata per tutto l’Ottocento dai pubblici dei più importanti teatri d’Italia.

Ancora all’inizio del Novecento, infatti, attori lo si nasceva, non lo si diveniva: era il sangue che ti scorreva nelle vene a costringerti a solcare le scene, quasi come quella stessa misteriosa forza che ci imprime addosso  ̶  e in modo indelebile  ̶  i lineamenti del volto, il colore degli occhi, dei capelli, la struttura ossea e la massa muscolare.

Chi nasceva nell’anti-mondo dei comici, vi sarebbe rimasto impastoiato per tutta la vita, anche qualora avesse percepito questa sua appartenenza con rifiuto e vergogna.

Come ogni rampollo dell’oligarchia attorica, Oberdan Nistri si è trovato catapultato sul palcoscenico ancor prima dell’età della ragione, a rivestire le parti ingenue. E, come ogni figlio d’arte, ha seguito i suoi genitori di paese in paese, di compagnia in compagnia, senza sosta.

L’unico momento in cui quest’eterna traversata sembrò per un breve tempo arrestarsi fu nel febbraio-maggio 1915, quattro mesi nei quali la compagnia Nistri soggiornò a Manciano, paese del grossetano, forse per riprendersi dallo sfacelo del terremoto. Nessuno di loro, all’epoca, avrebbe certo immaginato che quel borgo, quasi inesistente persino sulle carte geografiche, avrebbe invece segnato la storia di tutta la loro famiglia.

Ma ben presto il nomadismo fece risentire il suo richiamo: nel 1917 Arturo Nistri fu scritturato con Ermete Novelli, Giuseppina Cresseri con compagnie minori. Nel 1918 la troviamo invece prima attrice nella compagnia delle Sorelle Croce, al fianco di Elettra Croce-Cordiviola.

Liguria, Marche, Toscana, Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia… anno dopo anno, mese dopo mese, Oberdan vaga per l’Italia e non conosce casa né scuola né amici… Conosce solo i teatri e gli attori, gli attori e i teatri.

 

Eppure, verso l’età di 8-9 anni, la sua presenza all’interno della compagnia paterna sembra di colpo scomparire. Forse per necessità economiche, forse per assicurargli quel minimo d’istruzione divenuta indispensabile, o forse per l’indole eccessivamente indomita di Oberdan, i suoi genitori decisero di concedergli il “privilegio” di essere educato in una specie di riformatorio di Firenze gestito da religiosi. E così, ancora bambino, fu sbalzato fuori dalla propria famiglia, sbattuto lontano da ogni suo affetto, ripudiato da tutti i membri del suo clan.

 

Lo strappo per lui dovette essere lacerante: l’anarchia dei girovaghi era distante anni luce dall’austerità spietata di quel luogo; i ritmi vorticosi dei teatranti, cedevano qui il passo a ore che procedevano lente e monotone, scandite severamente da campanelli e campane.

Lunghi pomeriggi di solitudine.

Oberdan percepì fin da subito questa sua condizione come un qualcosa di disumano, dove la crudeltà e la grettezza sentimentale erano il vero e unico “pane quotidiano” tante volte invocato nelle preghiere. Quel luogo lo segnò indelebilmente e gli impresse una diffidenza ostile e un’irosa misantropia verso qualunque essere umano.

Locandina 1922, Ovada. Compagnia Arturo Nistri. Tra gli attori compare

Oberdan Nistri che, a quest'epoca, ha soli 8 anni

 

Ma ecco che dopo otto lunghi anni di violenze subite, e forse anche inflitte, all’età di diciassette anni, Oberdan decise di scappare da quell’inferno. Un inferno in cui tutto gli era stato negato tranne la cultura, cosa sconosciuta ai figli d’arte, non solo digiuni ma, il più delle volte, affamati di sapere. Oberdan invece, nelle infinite ore di isolamento forzato, aveva studiato la storia, l’arte, la letteratura; aveva letto romanzi e poemi. Sapeva che cosa fosse il Bello e voleva sperimentarlo.

Abbandonato il “carcere” fiorentino, Oberdan fece ritorno (siamo nel 1931) nella compagnia paterna che era prevalentemente formata dai membri della famiglia: sua madre era prima attrice, la sorella di sua madre (Pia Cresseri) seconda donna, suo padre amministratore e i suoi due fratelli (Marino e Manlio) primi attori o attor giovani a seconda dell’occorrenza. Mila, infine, l’ultima nata, era amata e vezzeggiata da tutti, in un clima di tenerezza del tutto sconosciuto a quella gente tanto dura da risultare talvolta crudele.

L’arrivo di Oberdan in compagnia non fu salutato con entusiasmo: gli occhi mefistofelici del padre, con quel suo sorriso sarcastico e un ghigno spietato, non si posarono su di lui con amorevolezza, ma quasi con fastidio e disgusto. Tuttavia  egli non rappresentava più una bocca da sfamare, anzi era piuttosto un attore in meno da pagare.

 

Oberdan Nistri, figura intera (1942). Collezione privata Mauro Ballerini

 A giocare poi a suo favore, un aspetto fisico davvero inconfondibile. Come tutti i Nistri, e come il suo omonimo Wilhelm Oberdank, è alto e biondo, ma di un biondo così chiaro da richiamare quasi i tratti germanici (cosa piuttosto eccezionale in un’Italia dominata dal tipo mediterraneo, piccolo di statura e moro). I suoi occhi sono di un azzurro trasparente: due fessure penetranti ma impenetrabili, che esprimono un non so che di gelido, una lontananza quasi metafisica. Di contro, la fierezza del suo portamento è paragonabile alla forza del Capaneo dantesco, gonfio d’ira e di superbo orgoglio nonostante l’eterno supplizio a cui sia stato condannato.

Oberdan Nistri ha una bellezza moderna, raffinata e massiccia allo stesso tempo: è un Burt Lancaster ante litteram, con l’eleganza di Rudy Valentino. È il tipico guascone, istrionico in ogni suo gesto, portatore di una passionalità così incandescente da poterlo assimilare alla personificazione stessa di ogni moto del cuore; eppure a tratti appare ieratico, come avesse il mondo a gran dispitto e non venisse toccato dalla prosaicità della realtà circostante.

Per ribadire, in ogni luogo e ad ogni sguardo, la sua appartenenza alla casta eletta dei comici, indossa abiti bianchi, giacche avvitate e pantaloni alla cavallerizzo e calza stivali in cuoio alti fino al ginocchio. Passa ore di fronte allo specchio a costruire e rifinire questa sua atipica figura.

Un tratto, questo della vanità, che sembra essere misteriosamente passato attraverso il sangue: due suoi illustri antenati, Antonio Feoli e Carlo Cola, erano stati conosciuti dall’intero mondo teatrale per un vero e proprio culto monoteistico dell’ego e della propria bella figura, elegante e curata.

Madre natura, anche in questo caso, aveva stabilito, forse ben prima di ogni sua scelta, quale sarebbe stato il suo destino: Oberdan – che lo voglia o meno – non potrà essere null’altro che primo attore.

 

Eppure, tornato nella compagnia paterna, egli non poté esprimere nell’immediato questo suo innato protagonismo: se sua madre infatti era l’insostituibile prima donna di ogni serata, primo attore incontrastato era suo fratello Manlio, consacrato a tal ruolo dalla “regina madre” e quindi non spodestabile.

Come in ogni società che si rispetti infatti, micro o macro che sia, anche nel mondo dei comici esisteva, parallelamente alla crescita anagrafica, un vero e proprio cursus honorum rigido e inflessibile, scandito tappa dopo tappa da un rito di passaggio.

Locandina della Compagnia Arturo Nistri, 1934-35. Collezione privata Mauro Ballerini

Ma ce n’era uno, tra questi riti, che rivestiva un’importanza fondamentale perché, non solo consacrava “adulto” nell’arte, ma era per di più irreversibile: era il passaggio al ruolo di primo attore.

Solo tale investitura avrebbe concesso all’artista il privilegio del proprio nome scritto in grande sui manifesti, la devozione del pubblico che ogni sera accorre ad ammirarlo e a tributargli il suo affettuoso applauso. Questa incoronazione però, come è facile intuire, non poteva certo essere accordata a tutti: chi ne fosse rimasto escluso o accettava di rivestire ruoli eternamente subalterni e cadetti, oppure si vedeva costretto ad abbandonare il suo clan per andare a formare una propria compagnia, nella quale poter giocare la parte del leader e ricevere così il meritato premio.

 

Negli anni subito successivi al suo ritorno (1931-37), Oberdan non sembrava però avere nessuna intenzione di metter su una propria formazione; anzi pareva accettare di buon grado i ruoli da coprotagonista a fianco del fratello Manlio.

È questo in fondo il periodo della sua formazione artistica, nel quale ogni giorno osserva e impara, ascolta e imita, sbaglia e corregge i propri errori. In questo lasso di tempo, memorizza migliaia di battute, legge centinaia di copioni, interpreta decine di personaggi. Manlio è il suo mentore e sua madre Giuseppina è la stella polare che gli indica la rotta.

Dall’uno e dall’altra apprende le più delicate sfumature della voce, le impennate declamatorie, il ghigno meschino e la risata magnanima, la nobile postura del sovrano e l’infido strisciare del servo. Osservandoli, comprende quale sia la formula del loro fascino, quali gli elementi segreti del loro magnetismo.

Ma soprattutto, nella mitezza accogliente del fratello, Oberdan cerca la tenerezza che gli  è sconosciuta, quella stessa tenerezza che lui implora ogni sera da sua madre, l’opulenta Giuseppina. Quando può recitare con lei la parte di Roberto ne La Nemica, si lascia accarezzare dalla sue affettuose parole d’amore e, sulla scena, sprofonda la testa tra i suoi grandi seni caldi. È solo in quei momenti, nei quali nessuno è se stesso, che egli si sente per pochi attimi nuovamente amato. Oberdan dunque non ha fretta di andarsene; anzi indugia. Stranamente, non scalpita. Dopo anni, finalmente, si sente figlio e fratello di qualcuno. E così attende e rimanda il proprio volo.

 

LUSSURIA

 

Come se però un occhio onnisciente sorvegliasse sopra i destini degli uomini e li conducesse per sentieri a loro sconosciuti, nel 1937, questo suo volo venne di colpo accelerato da un fatto imprevedibile quanto accidentale.

Suo fratello Raoul, da anni lontano dalla compagnia e stabilitosi a Manciano, paese d’origine di sua moglie, decise d’un tratto di rientrare in arte insieme alla giovanissima e affascinante Elena, da cui nel frattempo aveva avuto due figlie (Neda e Silva).

Quella che nella mente dei due giovani sposi sembrava presentarsi come la soluzione a tanti dei loro problemi, si rivelò invece essere la più perniciosa delle scelte.

Forse già il nome della ragazza avrebbe dovuto far presagire le sciagure che, da lì a poco, sarebbero seguite.

 

Il sangue nefasto dei Nistri, che aveva avuto principio da un legame incestuoso, da lì a poco avrebbe contaminato nuove generazioni, in un ordito di colpe ataviche che dai padri ricadono sui figli e da quest’ultimi si diramano, poi, verso tutte le generazioni future.

Oberdan ed Elena non si erano mai conosciuti prima d’allora: come nella più prototipica delle trame romanzesche, il loro incontro era stato ritardato dall’esilio coatto di Oberdan a Firenze. Per dieci anni, Elena non aveva neppure sospettato l’esistenza del bel cognato e mai avrebbe potuto immaginare che quello sconosciuto le avrebbe sconvolto l’esistenza.

 

Ma ora che è arrivata in compagnia, spaesata per quella nuova vita e per quell’insolita famiglia, a farle compagnia trova  sempre e solo lui, il biondo e ruvido Oberdan.

Oberdan è diverso dagli altri: la gran parte del tempo la vive isolato, a leggere o a dormire. Quando, durante il giorno, tutti gli uomini della troupe sono sprofondati nei bar fumosi e maleodoranti dei paesi, a giocare a carte o a biliardo, lui preferisce un’anacoretica solitudine. Non ama gli umori della folla, né i passatempi della massa, nè tanto meno il chiacchiericcio vano degli uomini.

Ma anche Elena è per lui un animale grazioso e benigno, una creatura accogliente e curiosa, perché del tutto incapace di porre un confine tra ciò che prova e ciò che manifesta. Elena gli appare quasi come quella levatrice che, sola, avrebbe potuto ridare vita a quel “bambino” che mai nessuno in fondo aveva partorito.

 

E così, passati non più che pochi mesi dall’arrivo di Elena in compagnia, quasi fosse vittima di un ingannevole gioco di specchi tra realtà e finzione, Oberdan si innamorò della fascinosa cognata.

Una nuova tragedia stava per avere inizio: una tragedia che vedrà due fratelli odiarsi con una ferocia mai sopita; bambini che si chiameranno “fratelli” e insieme “cugini”; zii che rivestiranno il ruolo di padri e padri considerati poco più che lontani parenti. Tutte le trame più torbide del mito greco sembreranno rinnovarsi nella famiglia Nistri: dalla guerra fratricida di Eteocle e Polinice, ai confusi legami tra Edipo e i suoi figli, fino all’odiosa figura di Creonte, zio e tiranno, e a quella, decisamente più sbiadita, del defraudato Menelao.

 

 

Oberdan Nistri ed Elena Balestrelli, Roma 1946. Collezione privata Mauro Ballerini

Ma gli dèi non lasciano mai impunita una colpa e il castigo raggiunse fulmineo il novello Paolo e la novella Francesca. Oberdan ed Elena vennero ben presto cacciati dalle loro rispettive famiglie e si ritrovarono di colpo senza più una patria né una casa, in balìa di un destino imprevedibile, e simili in tutto e per tutto a quei soldati reduci da Ilio, costretti ad errare senza meta per la bizzarra volontà dei numi.

I due si misero immediatamente alla ricerca di una compagnia nella quale andare scritturati, pronti ad imbattersi in mostri e sirene, maghe ed incantesimi, naufraghi e terre beate…

 

Oberdan, scappando, portò via con sé tutto ciò che per un attore era indispensabile: una calzamaglia e un paio di scarpe vecchie. Niente più. Altro non gli sarebbe stato richiesto; altro non avrebbe potuto permettersi. Ma con sé portava via la propria felicità: quella ragazza mora e dagli occhi color smeraldo che, prima e sola, gli aveva insegnato la follia dell’amore.

La ricerca della compagnia non fu sull’immediato cosa semplice: si era già in pieno anno comico e il casellario dei ruoli era già tutto riempito.

Ma la sorte sembrò invece divenire d’un tratto propizia ai due fuggiaschi: anche se solo per qualche mese (1937), ebbero l’onore di essere accolti come generici nella “paradisiaca” compagnia del Cavalier Emmanuel Palmi, con prima attrice sua moglie, Bianca D’Origlia, definita con evidente ammirazione e sagace ironia «la Duse del teatro d’appendice, la Pavlova del teatro parrocchiale, la Wanda Osiris dei convitti per suore».

Per gli attori dell’epoca, approdare sulle rive della D’Origlia-Palmi rappresentava una vera e propria “scalata sociale”.

 

Gli anni 1938-39 videro ancora i due cognati-amanti in fuga dalle loro famiglie e scritturati nella compagnia diretta dall’attore – e inguaribile seduttore - Oreste Cordiviola, figlio della celebre Elettra Croce, vecchia conoscenza dei Nistri.

Con il Cordiviola, Oberdan batterà i piccoli centri del Nord Italia e in particolare del Piemonte, dell’Emilia e della Lombardia. Ma la gelosia spinse ben presto Oberdan a lasciare anche il Cordiviola: non poteva più sopportare quella presenza maschile, fascinosa e senza scrupoli, che sembrava insidiare quella ragazza per la quale lui aveva sacrificato ogni altro affetto.

Eppure neanche l’amore che Oberdan nutriva per Elena riuscì a sopire, nel suo animo tumultuoso e talvolta dissoluto, il desiderio di godere di giovani attrici e attricette. Quel ragazzo eremita e solitario si dimostrò presto un seduttore così folle da fuggire all’inseguimento di ogni illusione  e di ogni promessa di piacere. Ed Elena, la pazza Elena che aveva osato compiere l’atto più criminoso, lo insegue per ogni dove, ebbra di rabbia e di passione, per ricondurlo ogni volta, un po’ ammansito, a sé e al suo cuore di amante, moglie e madre. 

Ma dopo ogni fuga, ogni volta che lei si ritrova sola, lontano da casa, tra nomadi, senza poter contare su nulla e nessuno, anche il suo amore sembra lentamente, e impercettibilmente, raffreddarsi ed essiccarsi.


Oberdan Nistri interpretata Don Carlos. Foto di scena 1941 ca.

Collezione privata Mauro Ballerini

IRACONDIA

«Volevo diventare un pifferaio
stregare il mondo ed ogni sua creatura,
crescere spighe di grano a gennaio,
sfidar la morte senza aver paura »

(Claudio Baglioni, Acqua dalla luna)

 

Dopo anni di disperazione e fame, l’Italia sembrò finalmente uscire dal baratro in cui era stata gettata: la fine della guerra aprì per tutti speranze nuove e liberò energie rimaste finora inespresse.

Oberdan ed Elena, nel 1946, dopo aver vagato attraverso tante compagnie (Verdirosi, De Rosa, quella del fratello Manlio), decisero di affrontare una nuova esperienza: quella del cinema

E così, per un anno intero, si trasferirono nella Capitale per toccare con mano che cosa fosse quella tanto decantata Cinecittà che, da lì a pochi anni, avrebbe conteso a Hollywood il primato della cinematografia mondiale.

Oberdan sembrava possedere davvero tutti i requisiti per poter sfondare: padroneggiava il mestiere dell’attore come solo chi lo ha succhiato dal seno materno può padroneggiarlo; aveva un’innata eleganza nel portamento, una dizione perfetta, oltre che una bellezza così atipica da “bucare lo schermo”.

Ma contro di lui, purtroppo, giocava un temperamento troppo irascibile, a tratti altezzoso, che non gli permetteva in nessun caso di scendere a compromessi, né di confondersi con le folle scalmanate che, all’epoca, si accalcavano ai cancelli di Cinecittà per tentare, senza alcun talento, la fortuna. Oberdan, da quella promiscuità, si sentì immediatamente ferito, umiliato, forse addirittura offeso nella sua dignità di figlio d’arte.

L’ambiente del cinema gli si rivelò fin da subito come un mondo dove l’arte viene continuamente spodestata dall’astuzia, dall’intrigo e dalla facile disponibilità ad ogni sorta di compromesso. Vedeva di continuo passargli avanti persone prive di ogni qualità, pronte a millantare doti inesistenti. Egli, al contrario, ha come una pudica riluttanza ad ostentare le proprie virtù, abituato com’è a muoversi tra gente che ha avuto modo di apprezzare l’arte di sua madre, di sua nonna e di tutta la sua schiatta. Il cinema richiedeva duttilità, trasformismo, remissività ai voleri del regista-padrone; i suoi ritmi erano veloci, talvolta fulminei: gli interpreti venivano reclutati in pochi istanti, da sguardi rapidi e spesso distratti e, in quel breve lasso di tempo, bisognava essere disposti a giocarsi il tutto per tutto.

Oberdan al contrario ha un’indole monolitica, incapace di piegarsi agli ordini e refrattaria alla vita in società. È autarchico prima ancora che anarchico. Un’inamovibile durissima roccia.

E così, tra insulti lanciati contro registi e produttori, liti furibonde ingaggiate ad ogni provino, dopo aver mandato in malora tecnici, macchinisti, fotografi e reclutatori di comparse, esclusa una “particina” in un film con Rossano Brazzi, l’anno romano fu per Oberdan una clamorosa disfatta.

 

 

Eppure l’abbandono di quel progetto e il ritorno alle tavole del palcoscenico, non rappresentò per lui in alcun modo una sconfitta, quanto piuttosto un vero e proprio ritorno all’Eden perduto, un recupero di sé e della propria dignità. Oberdan rinunciò senza rimpianti a guardare ad un futuro forse luminoso, per volgersi con orgoglio al passato, a quel mondo ormai anacronistico che era il “teatro di giro”.

 

Immediatamente però, proprio come Ercole al bivio, si trovò di nuovo posto di fronte un altro angoscioso dubbio, quello che da sempre aveva tormentato i suoi predecessori.

Per un verso, avrebbe potuto battere una carriera redditizia da attore scritturato, regolarmente stipendiato, in tournée nei grandi teatri italiani, al seguito di artisti rinomati. Si sarebbe però dovuto rassegnare ad essere null’altro che uno sbiadito utilité che, perennemente, vede il proprio nome oscurato da quello altisonante dei primi attori ed è costretto a leggere sul proprio conto – nelle recensioni teatrali – niente più che un laconico bene gli altri.

Per altro verso, gli si delineava di fronte una vita intessuta forse di fatica e di stenti, fors’anche di squallide camere d’affitto e di trattorie scalcinate, ma ogni sera impreziosita dal proprio nome scritto in grande sul cartellone, osannato da un pubblico che sarebbe accorso ad ammirare lui solo e la sua arte e a tributare il proprio applauso esclusivamente all’esimio artista Oberdan Nistri. Ma è proprio in quell’applauso che lui crede sia racchiuso il senso di tutto il suo esistere.

 

Posto di fronte a tale bivio, Oberdan aveva l’enorme vantaggio di poter guardare al proprio retroterra famigliare e di rintracciare, proprio lì, la risposta al proprio amletico dilemma: un secolo prima, il suo più illustre antenato, Carlo Cola, primo attor giovane a fianco delle più fulgide stelle del teatro italiano di fine Ottocento (da Virginia Marini a Giovanni Emanuel, da Alamanno Morelli alla Reiter), con un colpo di coda aveva rinunciato a quella gloriosa carriera per vivere l’incanto di essere lui, e lui soltanto, il Cavalier Carlo Cola, la prima luminosa stella che compare in cielo sul far della sera. E la medesima scelta l’aveva poi ripetuta sua madre Giuseppina, orgogliosa, fino alla fine dei suoi giorni, del titolo ineguagliabile di prima donna, fosse anche nei teatrini del Dopolavoro ferroviario.

Nel sangue dei Nistri, dei Cresseri, dei Cola, dei Feoli scorreva l’inesauribile bisogno di non vedere altro che il riflesso del proprio volto, del proprio “sé” che diviene  ̶ nella stanza degli specchi chiamata palcoscenico  ̶  l’universo intero.

Quell’io-mondo che ha condotto i Feoli, i Cola, i Cresseri e i Nistri ad essere da sempre e per sempre banditi, con irosa superbia, dal mondo dei nessuno.

 

 

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