Il Principe tombarolo
L'archeologia fu la sua grande passione: entusiasmi, successi e cantonate di Luciano Bonaparte, Principe di Canino

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di Giuseppe Moscatelli

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Come salvarsi la vita

  Immaginate di essere sull'orlo del crac finanziario, con i creditori alle porte, le banche che vi chiudono i conti, gli amici che non si fanno trovare temendo la richiesta di prestiti. A ciò aggiungete una famiglia numerosa: dieci bocche da sfamare e una moglie ambiziosa. E in più una ventina tra servitori, guardiani e dame di compagnia. E ancora: un nome importante e un titolo da onorare, anche con un adeguato tenore di vita. Metteteci pure qualche viziuccio da soddisfare e l'aver dilapidato una somma favolosa per una attempata amante. Cosa fareste voi? Chiedereste soldi ai parenti stretti. E poi? Vendereste i vostri immobili. E se anche questo non bastasse? Forse non vi resterebbe che fare come il Principe di Canino…
La crisi finanziaria che Luciano Bonaparte attraversava negli anni immediatamente successivi alla sua nomina a Principe di Canino era decisamente drammatica e tutti gli interventi per arginarla si erano rivelati semplici palliativi. Intanto non era riuscito a farsi restituire il prestito di 500.000 franchi (cifra favolosa, non solo per quei tempi) concesso alla sua amante storica, la marchesa Ana Maria di Santa Cruz, al tempo della sua ambasciata in Spagna. Non solo, il suo clan famigliare tra figli e famigli era in continuo aumento.
 

 
 


Luciano Bonaparte
 
 


 
 
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Kantharos attico a figure nere,
Ercole ed il centauro
(Antikensammlung di Berlino)
 

 
 
 

  
  Nel tentativo di salvare il salvabile si era già visto costretto a vendere la sua residenza romana, quel Palazzo Nuňez nel cuore di Roma dove Luciano aveva condotto una vita fastosamente mondana. Identica sorte era toccata alla splendida villa la Rufinella, suo buen retiro presso Frascati. Ma non era bastato. Con l'acqua alla gola e con l'istanza di fallimento incombente a Luciano non restò che sollecitare la solidarietà familiare, per evitare lo scandalo di un principe, per di più un Bonaparte, trascinato dai creditori in tribunale.
Risposero all'appello lo zio cardinale Fesh, forse per spirito di cristiana carità, e il fratello Maggiore Giuseppe, ex re di Napoli, ex re di Spagna, che si era rifatto una vita in America riciclandosi come Conte di Survilliers.
Tamponata l'emergenza, il problema restava e non si intravedevano vie d'uscita. E' a questo punto che interviene un fatto nuovo, di tale portata da risolvere non solo tutti i suoi guai finanziari ma da condizionare la sua stessa futura esistenza: la scoperta della necropoli di Vulci.
L'evento è ricordato da Luciano in uno dei suoi scritti ed è confermato, come vedremo, dal Dennis. Troppa grazia! verrebbe da dire: ci appare assolutamente poco credibile che una necropoli con decine di migliaia di tombe possa spuntare da un giorno all'altro, così come un fungo. Ci sembra evidente che il Principe di Canino abbia voluto "nobilitare" la sua nuova intrapresa economica: la sua geniale intuizione di sfruttare economicamente le ricchezze archeologiche delle sue terre per creare e alimentare il mercato internazionale delle antichità. Elevato il rischio d'impresa: poteva essere il colpo di grazia per le sue dissestate finanze. Ma si trattò di una svolta quasi necessitata. Poteva essere un flop, fu un autentico trionfo, non solo dal punto di vista economico.
Fu come una rinascita: scese in campo Luciano Bonaparte, il principe tombarolo.
 

Padri nobili
  Luciano Bonaparte non fu certo il primo ad interessarsi di cose etrusche. Già all'inizio della seconda metà dello scorso millennio, eruditi ed antiquari per diletto e per amore degli antichi iniziarono a raccogliere e a collezionare i primi reperti. In verità la violazione delle tombe è sempre esistita, addirittura fin dal tempo degli etruschi, per quanto relegata in ambito sacrilego o comunque riprovevole: fenomeno di valenza criminale quindi, e non certo culturale. In sostanza non vi era, e per molti secoli non vi fu, alcun condiviso orientamento socio-culturale che vedeva nella pratica degli scavi la lecita esplicazione di un'attività dai possibili esiti economici, oltreché storico-artistici. Chi profanava le tombe era per tutti un ladro e un sacrilego.
Le cose cambiarono nei primi decenni dell'ottocento, e una spinta determinante in questa direzione fu data proprio dalle scoperte del Principe di Canino. Esplose allora in tutta la sua virulenza una vera e propria "febbre da tomba". Non contagiosa però, visto che ad esserne infettati furono quasi esclusivamente ricchi aristocratici e grandi proprietari terrieri. In altre parole si dedicò agli scavi chi poteva permetterselo: per censo, cultura e in quanto proprietario dei latifondi su cui cominciavano a venire alla luce le antiche necropoli. La gente comune ne restò sostanzialmente fuori. Lo "spontaneismo archeologico" su larga scala è infatti cosa relativamente recente: ebbe inizio sul principio degli anni cinquanta per poi esaurirsi (o quasi) nel corso degli anni novanta.
Ma torniamo ai "signori": furono loro i primi veri tombaroli e a loro è in gran parte imputabile il sacco dell'Etruria. Furono nobili e aristocratici, non sempre illuminati, a pianificare, organizzare e gestire la predazione delle ricchezze archeologiche del nostro territorio, che del resto era loro proprietà: per quasi un secolo ebbero l'esclusiva e il monopolio degli scavi. Per gli altri, per il popolo, non rimarranno che le briciole.
Luciano fu naturalmente in prima fila, fu lui il portabandiera.
 

 
 

 
 

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