Vita
da tombaroli
Una vera vitaccia quella del tombarolo. Si lavora di notte,
o all'imbrunire. Meglio se è nuvoloso o senza luna: col buio è
più facile dileguarsi, alla bisogna. C'è da faticare: si scava
col piccone e con la pala; con le mani, quando occorre. Si
striscia con il corpo sul terriccio e tra la guazza. Ci si fa
strada in cunicoli tortuosi
e angusti. Ci si cala in antri umidi e malsani, a diretto contatto
con ogni specie di aracnidi e di vermi. Talvolta devi interrompere
il lavoro a mezza via, o magari a cose fatte, abbandonando
precipitosamente gli strumenti e tutto il resto. Talvolta devi
spartire con i
proprietari dei terreni o, peggio, oliare qualche ingranaggio per
avere libero il campo. Il
più delle volte ti affanni tanto per poi scoprire che anche
quella tomba è già stata "visitata", e ti ritrovi,
sporco e infangato, con un mucchietto di ossa e di frammenti ceramici tra i
piedi.
Strano lavoro quello del
tombarolo, tanto più frustrante quanto più sei appassionato. In
quale altro lavoro devi nascondere i frutti del tuo ingegno? con tanta maggior cura quanto più
sono importanti? Se, si dà il caso,
t'imbatti in qualcosa
di bello, non dico di
valore, da esserne orgoglioso ed anche emozionato, devi
startene zitto e far finta di niente! anche se vorresti,
come fanno i cacciatori con la selvaggina,
mostrarla a tutti e dire che sei stato proprio tu.
Curioso destino quello del
tombarolo: talvolta vilipeso, diffamato, denunciato, condannato in
tribunale… Altre volte vezzeggiato, circuito, sdoganato,
invitato come "esperto" nei talk show televisivi… Ma
andiamo con ordine, anche i tombaroli hanno fatto, in qualche
modo, la storia. E possono vantare padri nobili, anzi
aristocratici.
Padri nobili
I primi ad interessarsi di cose etrusche furono, all'inizio
della seconda metà dello scorso millennio, volendo prendere le
cose alla lontana, eruditi ed antiquari che iniziarono per diletto
e per amore degli antichi a
raccogliere e a collezionare i primi reperti. In verità la
violazione delle tombe è sempre esistita, fin dal tempo degli
etruschi potremmo dire, ma si trattava pur sempre di fenomeno
sporadico, di valenza criminale e non certo culturale.
In sostanza non vi era, e per molti secoli non vi fu, alcun
condiviso orientamento socio-culturale che vedeva nella pratica
degli scavi la lecita esplicazione di un'attività dai possibili
esiti economici, oltreché storico-artistici. Chi profanava le
tombe era per tutti un
ladro e un sacrilego.
Le cose cambiarono nei primi
decenni dell'ottocento, quando esplose in tutta la sua virulenza
una vera e propria "febbre da tomba".
Non contagiosa però, visto che ad esserne infettati furono
quasi esclusivamente ricchi aristocratici e grandi proprietari
terrieri. In sostanza si dedicò agli scavi chi poteva
permetterselo, per censo, cultura e in quanto proprietario dei
latifondi su cui cominciavano a venire alla luce le necropoli. La
gente comune ne restò
sostanzialmente fuori. Lo spontaneismo archeologico di massa è
infatti cosa relativamente recente: ebbe inizio sul principio
degli anni cinquanta per poi esaurirsi (o quasi) nel corso degli
anni novanta.
Ma torniamo ai
"signori": furono loro i primi veri tombaroli e a loro
è in gran parte imputabile il sacco dell'Etruria. Furono nobili e
aristocratici, non sempre illuminati, a pianificare, organizzare e
gestire la predazione delle ricchezze archeologiche del nostro
territorio, che del resto era loro proprietà. Furono loro, per
quasi un secolo, ad avere l'esclusiva degli scavi. Per gli altri,
per il popolo, non rimarranno che le briciole.
Un nome per tutti, il più
importante e il più famoso: Luciano Bonaparte, il principe
tombarolo.
Il Principe dei tombaroli
Siamo abituati a pensare a Luciano Bonaparte,
fratello dell'Imperatore, come ad un tranquillo signorotto di
campagna che dal suo eremo di Musignano organizzava battute di
caccia e campagne di
scavi. Oppure come ad un ex-politico caduto in disgrazia ed
esiliato nel piccolo borgo di Canino; una specie di pensionato di
lusso venuto a svernare in questa parte d'Etruria l'estrema fase della sua vita. O,
peggio, come ad uno che visse di luce riflessa all'ombra del
Grande Fratello, da cui ottenne favori e onori.
Le cose non stanno propriamente
così.
Si trattò infatti di un uomo
dalla personalità forte e complessa, a tratti contraddittoria:
rivoluzionario e papalino, repubblicano e
aristocratico, intellettuale e
mercante. Un animo inquieto, alimentato da uno
spirito audace e risoluto. Fu politico, ministro,
ambasciatore, scrittore, poeta, archeologo e giurista. Uno che
visse una vita travagliata, facendo le debite proporzioni,
quasi quanto quella dell'illustre fratello. Uno
che per ben due volte seppe dire di no all'Imperatore.
Napoleone gli deve molto: fu
Luciano a inscenare la memorabile pantomima, il geniale colpo di
teatro che rivoltò le sorti del 18 brumaio 1799, allorchè, di
fronte ai tumulti dell'assemblea dei cinquecento da lui stesso
presieduta e che stava per dichiarare Napoleone fuorilegge, afferrò
una spada e la puntò enfaticamente contro l'illustre fratello,
dichiarando a gran voce che lui per primo l'avrebbe ucciso se
Napoleone avesse osato violare la libertà della Francia. Sappiamo
poi come è andata a
finire.
Determinato nel respingere ogni
intrusione e interferenza nella propria sfera di
libertà privata ed autonomia di giudizio,
per nulla incline a modi cortigiani,
preferì l'amore alla politica e, contro la volontà di
Napoleone, sposò in seconde nozze la borghese Alessandrina
de Bleschamps, vedova di un agente di cambio, venendo
così definitivamente in urto con il fratello -di cui per altro
disapprovava politica e sistemi di governo-
che caldeggiava per lui un matrimonio politico.
Nonostante i contrasti, le
pressioni e i condizionamenti (Napoleone aveva già osteggiato il
primo matrimonio di Luciano con Cristina Boyer, nel
frattempo deceduta); nonostante l'allontanamento dalla corte di
Parigi e il volontario "esilio" in terra di Tuscia,
Luciano si sentì sempre legato
a Napoleone
e lo amò con affetto
sincero e fraterno, tanto da essergli vicino nei
momenti più difficili
della sua vita. La sua figura meriterebbe senz'altro un
approfondimento, ma non è questa la sede.
A noi Luciano interessa come
pioniere, patrono e artefice della prima fase di scavi in questa
parte d'Etruria.
Il sacco di Vulci
Ma quando avvenne ciò, con esattezza?
George
Dennis, nel
suo celebratissimo "Città e Necropoli d'Etruria",
ci fornisce in proposito una data abbastanza precisa: la
primavera del 1828, allorchè la volta di una tomba a cassone
nelle vicinanze del castello di Vulci franò sotto il peso dei
buoi che aravano un campo, rivelando così la presenza di pochi
(per la verità) frammenti ceramici. Fu quello il "via",
l'inizio di una "caccia al tesoro" che non si è ancora conclusa.
A noi,
tuttavia, questa versione appare poco più che un pretesto
letterario: non dimentichiamo che il Dennis, archeologo e
viaggiatore per passione, scrittore e diplomatico per professione,
si rivolgeva ai suoi connazionali inglesi (la prima edizione della
sua opera fu pubblicata in due volumi a Londra nel 1848) e come
ogni narratore avvertiva l'esigenza di rendere avvincente la
lettura e organico lo
svolgimento del racconto. Di qui l'episodio, per altro assai
verosimile, dei buoi che sprofondano nel terreno. In verità
i nostri contadini e pastori hanno da sempre utilizzato le
tombe e le grotte etrusche come ricoveri per se stessi e
per le greggi, o come depositi per il raccolto. E le alluvioni, già
molto prima dei moderni mezzi agricoli, avevano dilavato e
livellato i fondi facendo emergere
una gran quantità di residui ceramici. La scoperta casuale
di pochi frammenti avrebbe quindi lasciato pressochè indifferente
chi già da tempo usava le olle e i vasi etruschi come contenitori
o mangiatoie. Ma questo i lettori inglesi non potevano saperlo.
Ciò, evidentemente, nulla toglie alla autenticità e verità
del racconto del Dennis, frutto di accurate ricerche condotte sui
luoghi, che l'Autore percorse, si può dire, palmo a palmo, e che
rappresenta tutt'oggi una fonte imprescindibile
per chi si occupa di cose etrusche.
Fatto sta che verso la fine
dell'anno Luciano Bonaparte iniziò "la fabbrica degli
scavi" con esiti veramente sorprendenti:
in poche settimane setacciò sistematicamente un'area di
circa due ettari portando alla luce oltre duemila
reperti!
Va a merito di Luciano l'aver
intuito la valenza culturale e, soprattutto, le potenzialità
economiche di un mercato ancora agli albori ma che avrebbe
conosciuto nei decenni successivi uno straordinario sviluppo, per
la necessità di alimentare collezioni pubbliche e private e
soprattutto rifornire i nascenti musei. Com'è naturale molti di
questi reperti finirono all'estero, ma ciò non deve
scandalizzarci considerato che nessuna legge vietava lo scavo e il
commercio di tali oggetti.
Luciano mostrò da subito una
spiccata passione per i vasi dipinti, tanto da ordinare al
soprintendente che aveva assunto per la direzione degli scavi di
recuperarne anche il più piccolo frammento. I frammenti
recuperati venivano quindi abilmente
ricomposti e, nel caso, integrati. I vasi così
ricostituiti finivano poi
sul mercato, specialmente europeo.
Questa pratica contribuì
indubbiamente al recupero e alla salvaguardia di una gran quantità di pezzi
pregiati, che sarebbero altrimenti andati dispersi; favorì altresì
la formazione di una nuova classe di valenti artigiani ceramisti e
restauratori (gli stessi che si daranno poi alla creazione di
falsi e imitazioni…); decretò tuttavia l'ostracismo e la
definitiva condanna del vasellame grezzo e meno pregiato, buccheri
e terrecotte non figurate, che venne perlopiù distrutto
all'apertura delle tombe, per evitare interferenze sui mercati e
il calo dei prezzi. Tutto
ciò potrà anche apparire brutale, ma risponde pienamente alle
logiche di mercato (la rarità incrementa il valore), e del resto
i tantissimi pezzi andati così perduti, pressochè privi di
valore economico e poco
significativi anche dal punto di vista storico-culturale,
corrispondono pur sempre a tipologie di vasellame talmente
comuni che tutt'oggi se ne trovano in quantità.
Vulci, evidentemente poco
battuta nelle precedenti campagne
"storiche" di spoliazione delle necropoli (già
ai tempi di Giulio Cesare erano di gran moda i vasi attici dipinti
e l'imperatore Teodorico
ordinò con un suo editto di ripulire tutti i sepolcri d'Italia
per recuperare oro e metalli…),
si rivelò una vera e propria "miniera di vasi" e
Luciano proseguì al meglio la sua "opera" praticamente
fino alla morte, avvenuta a Viterbo nel 1840. Non gli mancò
qualche successo: fu lui infatti a scoprire gli importanti
sepolcreti della Cuccumella e della Cuccumelletta.
Si lasciò tuttavia sfuggire la perla più preziosa, che forse
avrebbe consegnato alla storia il suo nome non solo con il
malinconico attributo di "Principe di Canino": ci
riferiamo evidentemente al
monumento forse più illustre di tutta l'Etruria, vale a dire la
favolosa Tomba François (per altro non distante dai citati
sepolcreti) scoperta nel 1857, per conto dei Torlonia,
dall'archeologo francese Alexandre Francçois, da cui prese
il nome. Luciano è passato alla storia come un predatore di
tombe, ma questo giudizio ci appare eccessivamente ingeneroso. Il
suo amore per le antichità fu genuino, non a caso fu il più
grande collezionista della sua epoca. Certo non disprezzò il
mercato, ma conservò per sé i pezzi più belli. La sua
collezione andrà tuttavia dispersa ad opera dei suoi eredi.
Alla morte di Luciano, infatti, gli scavi non si interrompono… anzi subiscono una definitiva
sterzata sul versante affaristico-mercantile. E' a questo punto
che compare sulla scena un personaggio rimasto fino ad ora
nell'ombra, ma che probabilmente aveva già influenzato, se non
decisamente orientato, le scelte
del Principe di Canino: si tratta di
Alessandrina de Bleschamps, vedova di Luciano.
La señora delle tombe
Alessandrina de Bleschamps,
seconda moglie di Luciano, personaggio discreto, defilato, quasi
appartato, fu invece l'autentica Tomb
Raider della Tuscia.
Alla morte del marito,
piuttosto che ritirarsi nel lutto per la prematura perdita di
tanto consorte, si rimboccò le maniche e, presa decisamente in
mano la situazione, pensò
bene di non lasciarsi sfuggire tanta abbondanza. Ammantata nel suo
titolo simil-regale, si faceva chiamare da tutti semplicemente
"la principessa", liberatasi da ogni
residuo alibi o scrupolo pseudo-culturale, gestì
l'industria degli scavi con criteri managerial-militari, puntando
a conseguire il maggior lucro possibile.
Quando il Dennis visitò
Vulci nel 1842 Luciano Bonaparte era già morto da un paio d'anni,
ma l'industria degli scavi era nel suo pieno fervore, sotto la
guida energica della vedova. Il Dennis fu anche testimone
oculare dei metodi alquanto spicci e brutali con i quali la
señora,
da autentica predatrice,
realizzava i suoi programmi. Una squadra di scavatori lavorava
sotto la sorveglianza armata di uno sgherro munito di fucile, uomo
di fiducia della "principessa", pronto a sparare
nella pur improbabile ipotesi che
qualche pezzo
venisse trafugato. La tomba veniva aperta e rapidamente
perlustrata; ogni frammento dipinto era raccolto e riposto
accuratamente in una cesta; tutto il restante vasellame veniva
sistematicamente distrutto e triturato; dopodichè la tomba veniva
nuovamente chiusa e interrata, e si passava alla successiva. Il Dennis,
colpito da tanta efferata insensibilità nei confronti di così
antiche testimonianze storiche e artistiche, chiese al
"capoccia" che dirigeva i lavori di poter avere almeno
uno di quei vasetti di nessun valore destinati al macero. Ma
questi gli rispose che era ordine tassativo della principessa che nessuno di quei reperti
venisse risparmiato.
Al punto che l'illustre viaggiatore lasciò Vulci senza portare
con sé neanche un souvenir!
Prima però si recò in visita
al castello di Musignano, residenza della principessa, dove
fu accolto dal genero della stessa, anche lui evidentemente
coinvolto nell'impresa di famiglia,
e dove la catena di montaggio dell'industria degli scavi
aveva il suo terminale. La casa e il giardino erano invasi da una
gran quantità di reperti alla rinfusa. Dennis poté
constatare le serie dei vasi pronti per essere esportati ed un
restauratore all'opera nella delicata operazione di ricomposizione
dei frammenti.
Ciò nondimeno la principessa,
imprenditrice rampante ma oculata, non si lasciò sedurre del
tutto dalle sirene della new
economy archeologica, ma tenne nel debito conto la ricchezza
tradizionale di famiglia, vale a dire l'agricoltura. Per cui gli
scavi venivano effettuati nelle pause dei lavori agricoli
(dall'autunno alla primavera) e le tombe venivano accuratamente
reinterrate per non
compromettere la coltivazione dei fondi. Quando si dice
agricoltura intensiva!
La vedova Bonaparte, autentica
zarina della Tuscia, spremette Vulci come un limone. E, come una
zarina, amava presentarsi in pubblico indossando preziose parure
di gioielli etruschi trafugati dalle tombe. Nessuno può dire con
esattezza quante tombe abbia violato (sicuramente migliaia), di
moltissime si è persa la memoria storica e non sono state più
individuate; così pure nessuno può dire di quanti reperti si sia
impossessata e quanti ne abbia distrutti. Sappiamo solo che nei
musei archeologici di tutto il mondo possiamo ammirare pezzi
provenienti da Vulci e che, a cose fatte (o quasi), la señora
e
gli
altri eredi Bonaparte vendettero tutto ai principi Torlonia.
Cari vecchi tombaroli
Non bisogna tuttavia pensare che quello del ramo caninese
dei Bonaparte sia stato l'unico esempio di spregiudicato
sfruttamento di risorse archeologiche. Come si è accennato tutti
(o quasi) i "signori" di dedicarono, chi più chi meno,
alla nuova moda degli scavi: i Campanari, i Fossati,
i Candelori, i Feoli, i Cini, i Torlonia…
Che dire, per
esempio, di questi ultimi che dopo la scoperta della tomba François
ne distaccarono frettolosamente i grandiosi cicli di affreschi
"non propriamente a regola d'arte", come osservò lo
studioso tedesco Stephan Steingraber, per poi confinarli
nella loro residenza romana di Villa Albani?
Se così stanno le cose è ben
evidente che i tombaroli di questo ultimo scorcio di secolo hanno
ben minori responsabilità di quante normalmente vengano loro
attribuite. Non hanno depredato e saccheggiato il nostro
territorio, come spesso si sente dire, per il semplice fatto che
il saccheggio era in gran parte già avvenuto. Hanno potuto solo
spigolare tra le tombe, dove altri avevano già mietuto.
Se così stanno le cose è
anche evidente che una normativa esclusivamente proibizionistica
non ha più un gran che senso. Cosa si vuole proteggere, qualche
residuo bucchero già frantumato e reinterrato dagli eredi
Bonaparte? Cosa si vuol impedire, che qualche terracotta
fortunosamente sfuggita al setaccio dei "signori" capiti
nelle rozze mani di un "clandestino" (come vengono
burocraticamente chiamati i tombaroli, quasi a disconoscerne
l'esistenza stessa) che poi magari ci lucra sopra, quando va bene,
qualche centinaio di euro? Certo quel bucchero e quella terracotta
finiranno sugli scaffali di un collezionista o nelle vetrine di
qualche museo straniero; ma, a pensarci bene, non potrebbe essere
questa una sorte, per certi versi, migliore di quella di stare
sottoterra o in qualche deposito sotterraneo di museo italiano?
Il problema è complesso e non
ci piacciono le semplificazioni. Abbiamo solo voluto gettare il
sasso. Agitare le acque. Anche ricorrendo, un po’
provocatoriamente, a qualche ipotesi politicamente assai
scorretta. In fondo anche i tombaroli hanno il diritto di dire la
loro. E quelle riportate sono alcune tra le loro motivazioni più
sentite. Potremo comunque ritornare in modo più organico
sull'argomento se qualche lettore ne farà richiesta.
Un'ultima cosa vogliamo
aggiungere: quando in una vetrina del Metropolitan museum di
New York, del M.F.A. di Boston, del Louvre di Parigi
o del British museum di Londra ci capita di leggere a
fianco di qualche reperto dall'aria familiare "from
Vulci" o "from Bisenzio" ci viene da sorridere e da
pensare, con un pizzico di malizia e, perché no?, di gratitudine,
"ma come ci è giunto questo pezzo fino a qui?!": è
allora che il nostro pensiero corre a loro, ai nostri vecchi cari
tombaroli.
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Cristina
Boyer
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Luciano
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Luciano
Bonaparte
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Immagini
della Tomba François
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Alessandrina
de Bleschamps
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