I Tombaroli,Scavatori di Tombe Etrusche

 

BENEDETTI TOMBAROLI !

Ovvero la storia del Sacco di Vulci: da Luciano Bonaparte allo "spontaneismo archeologico" di quest'ultimo scorcio di secolo 

                                                                              di Giuseppe Moscatelli

Vita da tombaroli

Una vera vitaccia quella del tombarolo. Si lavora di notte, o all'imbrunire. Meglio se è nuvoloso o senza luna: col buio è più facile dileguarsi, alla bisogna. C'è da faticare: si scava col piccone e con la pala; con le mani, quando occorre. Si striscia con il corpo sul terriccio e tra la guazza. Ci si fa strada in cunicoli  tortuosi e angusti. Ci si cala in antri umidi e malsani, a diretto contatto con ogni specie di aracnidi e di vermi. Talvolta devi interrompere il lavoro a mezza via, o magari a cose fatte, abbandonando precipitosamente gli strumenti e tutto il resto. Talvolta devi spartire  con i proprietari dei terreni o, peggio, oliare qualche ingranaggio per avere libero il campo.  Il più delle volte ti affanni tanto per poi scoprire che anche quella tomba è già stata "visitata", e ti ritrovi, sporco e infangato, con un mucchietto di ossa e di frammenti  ceramici  tra i piedi.

Strano lavoro quello del tombarolo, tanto più frustrante quanto più sei appassionato. In quale altro lavoro devi nascondere  i frutti del tuo ingegno? con tanta maggior cura quanto più sono importanti? Se, si dà il caso,  t'imbatti in  qualcosa di bello,  non dico di valore, da esserne orgoglioso ed anche emozionato, devi  startene zitto e far finta di niente! anche se vorresti, come fanno i cacciatori con la selvaggina,  mostrarla a tutti e dire che sei stato proprio tu.

Curioso destino quello del tombarolo: talvolta vilipeso, diffamato, denunciato, condannato in tribunale… Altre volte vezzeggiato, circuito, sdoganato, invitato come "esperto" nei talk show televisivi… Ma andiamo con ordine, anche i tombaroli hanno fatto, in qualche modo, la storia. E possono vantare padri nobili, anzi aristocratici.

 

Padri nobili

I primi ad interessarsi di cose etrusche furono, all'inizio della seconda metà dello scorso millennio, volendo prendere le cose alla lontana, eruditi ed antiquari che iniziarono per diletto e per amore degli antichi  a raccogliere e a collezionare i primi reperti. In verità la violazione delle tombe è sempre esistita, fin dal tempo degli etruschi potremmo dire, ma si trattava pur sempre di fenomeno  sporadico, di valenza criminale e non certo culturale. In sostanza non vi era, e per molti secoli non vi fu, alcun condiviso orientamento socio-culturale che vedeva nella pratica degli scavi la lecita esplicazione di un'attività dai possibili esiti economici, oltreché storico-artistici. Chi profanava le tombe era per tutti  un ladro e un sacrilego.

Le cose cambiarono nei primi decenni dell'ottocento, quando esplose in tutta la sua virulenza una vera e propria "febbre da tomba".  Non contagiosa però, visto che ad esserne infettati furono quasi esclusivamente ricchi aristocratici e grandi proprietari terrieri. In sostanza si dedicò agli scavi chi poteva permetterselo, per censo, cultura e in quanto proprietario dei latifondi su cui cominciavano a venire alla luce le necropoli. La gente comune  ne restò sostanzialmente fuori. Lo spontaneismo archeologico di massa è infatti cosa relativamente recente: ebbe inizio sul principio degli anni cinquanta per poi esaurirsi (o quasi) nel corso degli anni novanta.

Ma torniamo ai "signori": furono loro i primi veri tombaroli e a loro è in gran parte imputabile il sacco dell'Etruria. Furono nobili e aristocratici, non sempre illuminati, a pianificare, organizzare e gestire la predazione delle ricchezze archeologiche del nostro territorio, che del resto era loro proprietà. Furono loro, per quasi un secolo, ad avere l'esclusiva degli scavi. Per gli altri, per il popolo, non rimarranno che le briciole.

Un nome per tutti, il più importante e il più famoso: Luciano Bonaparte, il principe tombarolo.

          

Il Principe dei tombaroli

Siamo abituati a pensare a Luciano Bonaparte, fratello dell'Imperatore, come ad un tranquillo signorotto di campagna che dal suo eremo di Musignano organizzava battute di caccia  e campagne di scavi. Oppure come ad un ex-politico caduto in disgrazia ed esiliato nel piccolo borgo di Canino; una specie di pensionato di lusso venuto a svernare in questa parte d'Etruria l'estrema fase  della sua vita.  O, peggio, come ad uno che visse di luce riflessa all'ombra del Grande Fratello, da cui ottenne favori e onori.

Le cose non stanno propriamente così.

Si trattò infatti di un uomo dalla personalità forte e complessa, a tratti contraddittoria: rivoluzionario e papalino, repubblicano e  aristocratico, intellettuale e  mercante. Un animo inquieto, alimentato da uno   spirito audace e risoluto. Fu politico, ministro, ambasciatore, scrittore, poeta, archeologo e giurista. Uno che visse una vita travagliata, facendo le debite proporzioni,  quasi quanto quella dell'illustre fratello. Uno  che per ben due volte seppe dire di no all'Imperatore.

Napoleone gli deve molto: fu Luciano a inscenare la memorabile pantomima, il geniale colpo di teatro che rivoltò le sorti del 18 brumaio 1799, allorchè, di fronte ai tumulti dell'assemblea dei cinquecento da lui stesso presieduta e che stava per dichiarare Napoleone fuorilegge, afferrò una spada e la puntò enfaticamente contro l'illustre fratello, dichiarando a gran voce che lui per primo l'avrebbe ucciso se Napoleone avesse osato violare la libertà della Francia. Sappiamo poi come  è andata a finire.

Determinato nel respingere ogni intrusione e interferenza nella propria sfera di  libertà privata ed autonomia di giudizio,  per nulla incline a modi cortigiani,  preferì l'amore alla politica e, contro la volontà di Napoleone, sposò  in seconde nozze la borghese Alessandrina  de Bleschamps, vedova di un agente di cambio, venendo così definitivamente in urto con il fratello -di cui per altro disapprovava politica e sistemi di governo-  che caldeggiava per lui un matrimonio politico.

Nonostante i contrasti, le pressioni e i  condizionamenti (Napoleone aveva già osteggiato il  primo matrimonio di Luciano con Cristina Boyer, nel frattempo deceduta); nonostante l'allontanamento dalla corte di Parigi e il volontario "esilio" in terra di Tuscia, Luciano si sentì sempre  legato a  Napoleone  e lo amò con  affetto sincero e fraterno, tanto da essergli vicino nei  momenti più  difficili della sua vita. La sua figura meriterebbe senz'altro un approfondimento, ma non è questa la sede.

A noi Luciano interessa come pioniere, patrono e artefice della prima fase di scavi in questa parte d'Etruria.

 

Il sacco di Vulci

Ma quando avvenne ciò, con esattezza?

George  Dennis,  nel suo celebratissimo "Città e Necropoli d'Etruria",  ci fornisce in proposito una data abbastanza precisa: la primavera del 1828, allorchè la volta di una tomba a cassone nelle vicinanze del castello di Vulci franò sotto il peso dei buoi che aravano un campo, rivelando così la presenza di pochi (per la verità) frammenti ceramici. Fu quello il "via", l'inizio di una "caccia al tesoro" che non si è ancora  conclusa.

A noi, tuttavia, questa versione appare poco più che un pretesto letterario: non dimentichiamo che il Dennis, archeologo e viaggiatore per passione, scrittore e diplomatico per professione, si rivolgeva ai suoi connazionali inglesi (la prima edizione della sua opera fu pubblicata in due volumi a Londra nel 1848) e come ogni narratore avvertiva l'esigenza di rendere avvincente la lettura  e organico lo svolgimento del racconto. Di qui l'episodio, per altro assai  verosimile, dei buoi che sprofondano nel terreno. In verità i nostri contadini e pastori hanno da sempre utilizzato le  tombe e le grotte etrusche come ricoveri per se stessi e per le greggi, o come depositi per il raccolto. E le alluvioni, già molto prima dei moderni mezzi agricoli, avevano dilavato e livellato i fondi facendo emergere  una gran quantità di residui ceramici. La scoperta casuale di pochi frammenti avrebbe quindi lasciato pressochè indifferente chi già da tempo usava le olle e i vasi etruschi come contenitori o mangiatoie. Ma questo i lettori inglesi non potevano saperlo.  Ciò, evidentemente, nulla toglie alla autenticità e verità del racconto del Dennis, frutto di accurate ricerche condotte sui luoghi, che l'Autore percorse, si può dire, palmo a palmo, e che rappresenta tutt'oggi una fonte imprescindibile  per chi si occupa di cose etrusche.

Fatto sta che verso la fine dell'anno Luciano Bonaparte iniziò "la fabbrica degli scavi" con esiti veramente sorprendenti:  in poche settimane setacciò sistematicamente un'area di circa due ettari portando alla luce oltre duemila  reperti!

Va a merito di Luciano l'aver intuito la valenza culturale e, soprattutto, le potenzialità economiche di un mercato ancora agli albori ma che avrebbe conosciuto nei decenni successivi uno straordinario sviluppo, per la necessità di alimentare collezioni pubbliche e private e soprattutto rifornire i nascenti musei. Com'è naturale molti di questi reperti finirono all'estero, ma ciò non deve scandalizzarci considerato che nessuna legge vietava lo scavo e il commercio di tali oggetti.

Luciano mostrò da subito una  spiccata passione per i vasi dipinti, tanto da ordinare al soprintendente che aveva assunto per la direzione degli scavi di recuperarne anche il più piccolo frammento. I frammenti recuperati venivano quindi abilmente  ricomposti e, nel caso, integrati. I vasi così ricostituiti finivano  poi  sul mercato, specialmente europeo.

Questa pratica contribuì indubbiamente al  recupero e alla salvaguardia di una gran quantità di pezzi pregiati, che sarebbero altrimenti andati dispersi; favorì altresì la formazione di una nuova classe di valenti artigiani ceramisti e restauratori (gli stessi che si daranno poi alla creazione di falsi e imitazioni…); decretò tuttavia l'ostracismo e la definitiva condanna del vasellame grezzo e meno pregiato, buccheri e terrecotte non figurate, che venne perlopiù distrutto all'apertura delle tombe, per evitare interferenze sui mercati e  il calo dei prezzi.  Tutto ciò potrà anche apparire brutale, ma risponde pienamente alle logiche di mercato (la rarità incrementa il valore), e del resto i tantissimi pezzi andati così perduti, pressochè privi di valore economico e  poco significativi anche dal punto di vista storico-culturale,  corrispondono pur sempre a tipologie di vasellame talmente comuni che tutt'oggi se ne trovano in quantità.

Vulci, evidentemente poco battuta nelle precedenti campagne  "storiche" di spoliazione delle necropoli (già ai tempi di Giulio Cesare erano di gran moda i vasi attici dipinti e l'imperatore  Teodorico ordinò con un suo editto di ripulire tutti i sepolcri d'Italia per recuperare oro e metalli…),  si rivelò una vera e propria "miniera di vasi" e Luciano proseguì al meglio la sua "opera" praticamente fino alla morte, avvenuta a Viterbo nel 1840. Non gli mancò qualche successo: fu lui infatti a scoprire gli importanti sepolcreti della Cuccumella e della Cuccumelletta. Si lasciò tuttavia sfuggire la perla più preziosa, che forse avrebbe consegnato alla storia il suo nome non solo con il malinconico attributo di "Principe di Canino": ci riferiamo evidentemente  al monumento forse più illustre di tutta l'Etruria, vale a dire la favolosa Tomba François (per altro non distante dai citati sepolcreti) scoperta nel 1857, per conto dei Torlonia, dall'archeologo francese Alexandre Francçois, da cui prese il nome. Luciano è passato alla storia come un predatore di tombe, ma questo giudizio ci appare eccessivamente ingeneroso. Il suo amore per le antichità fu genuino, non a caso fu il più grande collezionista della sua epoca. Certo non disprezzò il mercato, ma conservò per sé i pezzi più belli. La sua collezione andrà tuttavia dispersa ad opera dei suoi eredi.  

Alla morte di Luciano, infatti,  gli scavi non si interrompono… anzi subiscono una definitiva sterzata sul versante affaristico-mercantile. E' a questo punto che compare sulla scena un personaggio rimasto fino ad ora nell'ombra, ma che probabilmente aveva già influenzato, se non decisamente orientato, le scelte  del Principe di Canino: si tratta di  Alessandrina de Bleschamps, vedova di Luciano.

 

La señora delle tombe

Alessandrina de Bleschamps, seconda moglie di Luciano, personaggio discreto, defilato, quasi appartato, fu invece l'autentica Tomb Raider della Tuscia.

Alla morte del marito, piuttosto che ritirarsi nel lutto per la prematura perdita di tanto consorte, si rimboccò le maniche e, presa decisamente in mano la situazione,  pensò bene di non lasciarsi sfuggire tanta abbondanza. Ammantata nel suo titolo simil-regale, si faceva chiamare da tutti semplicemente "la principessa", liberatasi da ogni  residuo alibi o scrupolo pseudo-culturale, gestì l'industria degli scavi con criteri managerial-militari, puntando a conseguire il maggior lucro possibile.

Quando il Dennis visitò Vulci nel 1842 Luciano Bonaparte era già morto da un paio d'anni, ma l'industria degli scavi era nel suo pieno fervore, sotto la guida energica della vedova. Il Dennis fu anche testimone oculare dei metodi alquanto spicci e brutali con i quali la señora, da autentica predatrice, realizzava i suoi programmi. Una squadra di scavatori lavorava sotto la sorveglianza armata di uno sgherro munito di fucile, uomo di fiducia della "principessa", pronto a sparare  nella pur improbabile ipotesi che  qualche  pezzo venisse trafugato. La tomba veniva aperta e rapidamente perlustrata; ogni frammento dipinto era raccolto e riposto accuratamente in una cesta; tutto il restante vasellame veniva sistematicamente distrutto e triturato; dopodichè la tomba veniva nuovamente chiusa e interrata, e si passava alla successiva. Il Dennis, colpito da tanta efferata insensibilità nei confronti di così antiche testimonianze storiche e artistiche, chiese al "capoccia" che dirigeva i lavori di poter avere almeno uno di quei vasetti di nessun valore destinati al macero. Ma questi gli rispose che era ordine  tassativo della principessa che nessuno di quei reperti venisse  risparmiato. Al punto che l'illustre viaggiatore lasciò Vulci senza portare con sé neanche un souvenir!

Prima però si recò in visita al castello di Musignano, residenza della principessa, dove fu accolto dal genero della stessa, anche lui evidentemente coinvolto nell'impresa di famiglia,  e dove la catena di montaggio dell'industria degli scavi aveva il suo terminale. La casa e il giardino erano invasi da una gran quantità di reperti alla rinfusa. Dennis poté constatare le serie dei vasi pronti per essere esportati ed un restauratore all'opera nella delicata operazione di ricomposizione dei frammenti.

Ciò nondimeno la principessa, imprenditrice rampante ma oculata, non si lasciò sedurre del tutto dalle sirene della new economy archeologica, ma tenne nel debito conto la ricchezza tradizionale di famiglia, vale a dire l'agricoltura. Per cui gli scavi venivano effettuati nelle pause dei lavori agricoli (dall'autunno alla primavera) e le tombe venivano accuratamente reinterrate  per non compromettere la coltivazione dei fondi. Quando si dice agricoltura intensiva!

La vedova Bonaparte, autentica zarina della Tuscia, spremette Vulci come un limone. E, come una zarina, amava presentarsi in pubblico indossando preziose parure di gioielli etruschi trafugati dalle tombe. Nessuno può dire con esattezza quante tombe abbia violato (sicuramente migliaia), di moltissime si è persa la memoria storica e non sono state più individuate; così pure nessuno può dire di quanti reperti si sia impossessata e quanti ne abbia distrutti. Sappiamo solo che nei musei archeologici di tutto il mondo possiamo ammirare pezzi provenienti da Vulci e che, a cose fatte (o quasi), la señora e gli altri eredi Bonaparte vendettero tutto ai principi Torlonia.

 

Cari vecchi tombaroli

Non bisogna tuttavia pensare che quello del ramo caninese dei Bonaparte sia stato l'unico esempio di spregiudicato sfruttamento di risorse archeologiche. Come si è accennato tutti (o quasi) i "signori" di dedicarono, chi più chi meno, alla nuova moda degli scavi: i Campanari, i Fossati, i Candelori, i Feoli, i Cini, i Torlonia Che dire, per esempio, di questi ultimi che dopo la scoperta della tomba François ne distaccarono frettolosamente i grandiosi cicli di affreschi "non propriamente a regola d'arte", come osservò lo studioso tedesco Stephan Steingraber, per poi confinarli nella loro residenza romana di Villa Albani?

Se così stanno le cose è ben evidente che i tombaroli di questo ultimo scorcio di secolo hanno ben minori responsabilità di quante normalmente vengano loro attribuite. Non hanno depredato e saccheggiato il nostro territorio, come spesso si sente dire, per il semplice fatto  che il saccheggio era in gran parte già avvenuto. Hanno potuto solo spigolare tra le tombe, dove altri avevano già mietuto.

Se così stanno le cose è anche evidente che una normativa esclusivamente proibizionistica non ha più un gran che senso. Cosa si vuole proteggere, qualche residuo bucchero già frantumato e reinterrato dagli eredi Bonaparte? Cosa si vuol impedire, che qualche terracotta fortunosamente sfuggita al setaccio dei "signori" capiti nelle rozze mani di un "clandestino" (come vengono burocraticamente chiamati i tombaroli, quasi a disconoscerne l'esistenza stessa) che poi magari ci lucra sopra, quando va bene, qualche centinaio di euro? Certo quel bucchero e quella terracotta finiranno sugli scaffali di un collezionista o nelle vetrine di qualche museo straniero; ma, a pensarci bene, non potrebbe essere questa una sorte, per certi versi, migliore di quella di stare sottoterra o in qualche deposito sotterraneo di museo italiano?

Il problema è complesso e non ci piacciono le semplificazioni. Abbiamo solo voluto gettare il sasso. Agitare le acque. Anche ricorrendo, un po’ provocatoriamente, a qualche ipotesi politicamente assai scorretta. In fondo anche i tombaroli hanno il diritto di dire la loro. E quelle riportate sono alcune tra le loro motivazioni più sentite. Potremo comunque ritornare in modo più organico sull'argomento se qualche lettore ne farà richiesta.

Un'ultima cosa vogliamo aggiungere: quando in una vetrina del Metropolitan museum di New York, del M.F.A. di Boston, del Louvre di Parigi o del British museum di Londra ci capita di leggere a fianco di qualche reperto dall'aria familiare "from Vulci" o "from Bisenzio" ci viene da sorridere e da pensare, con un pizzico di malizia e, perché no?, di gratitudine, "ma come ci è giunto questo pezzo fino a qui?!": è allora che il nostro pensiero corre a loro, ai nostri vecchi cari tombaroli.

 

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Cristina Boyer
 
 

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Luciano Bonaparte
 
 

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Luciano Bonaparte

 
 

Immagini della Tomba François

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Alessandrina de Bleschamps

 

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