Ricatti, estorsioni e
omicidi
Andavano sempre a coppia, come i carabinieri si direbbe oggi.
Ma erano il loro opposto, i loro più temibili nemici: erano
briganti.
Tiburzi e Fioravanti, Menichetti e Ansuini, Biscarini e
Pastorini… nomi (anzi cognomi) il cui ricordo alita ancora
sulle macchie della Tuscia e che oggi, sdoganati,
sponsorizzano itinerari turistico-eno-gastronomici sul
percorso di antichi sentieri che lungimiranti amministratori
locali hanno a ragion veduta ripristinato.
Nomi talora ammantati di un alone di casereccia leggenda, di
sottaciuta ammirazione; e oggetto, in questi nostri tempi,
di una forma di revisionismo che, se non è storico, è almeno
lessicale: al punto che oggi il termine "brigante", lungi
dallo spaventare o offendere qualcuno, è diventato quasi un
vezzeggiativo; o, al peggio, l'espressione di un benevolo
rimbrotto paternalistico o di una compiaciuta complicità
amicale.
La realtà, invece, è un'altra. Non c'è eroismo, non c'è
leggenda, non c'è "nobiltà" alcuna nelle meschine e
criminali imprese dei Rambo della Tuscia. L'epiteto mi è
suggerito dal loro vivere alla macchia e dalle foto
"ufficiali" in cui, al pari del riccioluto eroe
cinematografico, appaiono armati fino ai denti: lo schioppo
sempre al fianco, revolver e coltello a pronta mano, e
avviluppati da cartucciere stracolme di proiettili, come tra
le spire di un serpente.
Non c'è ribellismo politico nelle loro gesta; non c'è ombra di
protesta o rivendicazione di carattere socioeconomico; non
c'è tentativo di lotta o affrancazione di classi subalterne
da antiche servitù. Erano criminali, e basta.
Non rubavano ai ricchi per dare ai poveri: rubavano ai ricchi
e ai poveri. Non difendevano i contadini dai soprusi dei
potenti, pensavano solo a se stessi e ai loro parenti.
Adusi alle macchie non meno dei cinghiali, disvelavano una
ferinità primordiale, una efferatezza spietata e crudele.
Menichetti, per dire, uccise a schioppettate nelle macchie di
San Magno, presso Gradoli, il brigadiere Sebastiano Preta,
comandante della stazione carabinieri di Latera: era il 3
giugno 1891 e l'eroico milite cadde nel generoso tentativo
di soccorrere un guardiano dei Brenciaglia, tal Giuseppe
Papi, che i banditi volevano ammazzare per intimidire i suoi
padroni. Andò meglio a Lucio Grassi, fattore in quel di
Gallese, che Menichetti prese a coltellate - senza però che
rimanesse ucciso - perché deluso e insoddisfatto per i
modesti esiti di una rapina nel suo casale; mentre Ansuini,
suo degno compare, pure presente ai fatti di San Magno,
malmenava la moglie del Grassi che invocava pietà.
Ma per misurare la ferocia dei due occorre ricordare un altro
brutale delitto, quanto mai odioso, essendo la vittima un
ragazzo di appena diciannove anni. Il 19 agosto 1890,
infatti, Menichetti e Ansuini in prossimità di Viterbo
uccisero - sparandogli a bruciapelo - il giovane Giuseppe
Leandri, figlio di possidenti, mentre insieme ad uno zio
tornava a casa su un carretto trainato da un cavallo. Le
ragioni del vile agguato sono ancora una volta da ricercarsi
nella volontà di intimidazione dei banditi che,
terrorizzando le vittime, rendevano più efficaci e sicure le
loro estorsioni e i loro ricatti.
Orribile fu anche la fine di Pasquale Signorelli, allevatore
di pecore, che Menichetti e Ansuini sequestrarono nei pressi
di Viterbo poco dopo Natale dello stesso anno - non è chiaro
se per ricatto o per vendetta - e che uccisero con sette
pugnalate, gettandolo poi in un fosso. Il suo corpo fu
ritrovato seguendo una cagna che da qualche giorno nutriva i
suoi cuccioli con brandelli di carne che si rivelò essere
umana… Lasciata la cagna a digiuno, una volta liberata,
condusse i carabinieri dritto dritto ai poveri resti del
corpo del Signorelli che la corrente aveva depositato lungo
il greto del fosso.
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Ansuini |
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Menichetti |
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Menichetti |
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Tiburzi |
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Alcuni libri sul brigante Tiburzi |
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Il signore delle macchie
Domenico Tiburzi, per tutti Domenichino, nacque a Cellere
il 28 maggio 1836.
Da Cellere alla macchia il passo è, non solo
metaforicamente, breve; ma Tiburzi ci mise un po’ a
compierlo: commise infatti il suo primo omicidio alla
bella età di trentun'anni, quando ormai sembrava avviato
ad una relativamente tranquilla vita familiare. Non che
da ragazzo non avesse già dato chiaro segno di
squilibrio; ed in gioventù qualche "intemperanza" se
l'era pure permessa: furti, aggressioni e finanche un
tentato omicidio; ma per datare il suo "battesimo del
sangue" dobbiamo arrivare al 1867 quando, a trentun'anni
suonati, lasciò sul lastrico di Cellere, dopo avergli
sparato una fucilata, tal Angelo Del Buono che aveva
avuto il torto di rinfacciargli una delle sue tante
prepotenze.
In seguito a questo delitto Domenichino poté saggiare per
un paio d'anni la vita alla macchia: tanto durò infatti
la sua latitanza prima di essere arrestato, condannato,
e spedito ad espiare diciotto anni di galera alle saline
di Tarquinia. Di qui però, dopo solo tre anni, riuscì
fortunosamente ad evadere portandosi appresso Domenico
Biagini, che sarà il suo più fido sodale e compagno di
nefandezze.
Il "cursus honorum" criminale di Tiburzi è a dir poco
impressionante: tralasciando rapine, ricatti, sequestri,
estorsioni, ferimenti ed altri reati di "poco" conto,
vediamo Domenichino tornare ad uccidere in paese già
agli inizi del 1874, per compiere un'atroce vendetta ai
danni di un certo Domenico Cerasoli, che con una
fucilata lasciò morto stecchito davanti alla farmacia di
Cellere la notte del 25 gennaio; e poco giova, a questo
punto, ricordare che il poveretto fu vittima di uno
scambio di persona e che nulla a che fare aveva con
Tiburzi.
L'incontro col Biagini, comunque, fu assai proficuo dal
punto di vista criminale, tanto che i due misero su
ditta, creando un binomio di ineguagliato prestigio. I
"frutti" non mancarono. Nel marzo del 1883 i nostri,
nelle vicinanze di Farnese, ammazzarono Antonio Vestri,
presunto delatore, dividendosi bene i compiti: Biagini
gli sparò addosso una schioppettata e Tiburzi, per
aggiunta, lo sgozzò; al che Biagini, per non essere da
meno, sventrò col suo pugnale i due muli con i quali il
Vestri trasportava la legna appena raccolta nel Lamone.
Lo stesso Biagini non difettava certo d'iniziativa quando
c'era da liberare il campo da "teste calde" che, in
qualche modo, potevano insidiare il primato che divideva
con Tiburzi. Ne sa qualcosa il farnesano Giuseppe
Basili, anche lui brigante: giovane, audace e
spregiudicato era avviato ad una promettente carriera
criminale, essendo - tra l'altro - già stato condannato
a morte, quando Biagini, vedendo in lui un temibile
concorrente, lo ammazzò a tradimento, mentre dormiva,
sparandogli in faccia a bruciapelo.
Ammazzarsi tra briganti, del resto, non era poi cosa rara:
Tiburzi, per dire, fece fuori il "collega" Pastorini
mentre erano insieme a tavola, nella campagna di
Manciano, in seguito ad uno scambio di battute
degenerato in lite. Tiburzi e Biagini, poi, insieme, si
liberarono di un altro concorrente scomodo, il brigante
Bettinelli, secondo il "rituale" già sperimentato con il
"delatore" Vestri: uno gli sparò di fronte, l'altro
infierì sul povero corpo a coltellate.
Tolti di mezzo rivali e concorrenti Tiburzi e Biagini
spadroneggiarono incontrastati dalla Tuscia alla
Maremma, fino a quando anche Biagini cadde sotto i colpi
dei carabinieri, in un agguato nella macchia di
Gricciano, sul Fiora.
Era il 6 agosto 1889: il vecchio bandito aveva ormai 67
anni e da venti viveva alla macchia.
Tiburzi non si perse d'animo: accolto con sé Luciano
Fioravanti, nipote del Biagini, non meno determinato e
feroce del famigerato zio, continuò le sue scorribande.
La più famosa e memorabile fu l'assassinio - il 22 giugno
1890, nelle campagne di Montalto di Castro - di Raffaele
Gabrielli, fattore dei Guglielmi. Fu una vera e propria
esecuzione pubblica: Tiburzi e Fioravanti si
materializzarono, uscendo dalla macchia, di fronte a
molte decine di mietitori che, seduti sul campo,
facevano colazione insieme al fattore e a due suoi
collaboratori. Chiamatolo ad alta voce si allontanarono
con lui di pochi metri e, di fronte ai mietitori
atterriti, Tiburzi "giustiziò" il Gabrielli sparandogli
alla testa. La colpa del fattore sarebbe stata quella di
non aver avvertito i banditi della presenza dei
carabinieri, il giorno in cui questi uccisero il
Biagini.
Vogliamo infine ricordare un'altra infamia di Tiburzi, il
quale, pur vivendo alla macchia - impegnato ad
"amministrare" il suo vasto territorio - non trascurava
certo la famiglia: due anni prima dei fatti suddetti
arrivò ad assassinare, in quel di Montalto, tal
Raffaello Pecorelli, la cui sola colpa era quella di
aver ucciso un maialetto di proprietà di suo figlio
Nicola! |
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