Esperienze e confidenze |
Parte Prima |
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di Felice Socciarelli |
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La famiglia
Socciarelli |
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"Entrai nella famiglia delle Scuole dell' Agro
Romano col sentimento di chi parte missionario per chissà
quali remote regioni. Avevo con me una cassetta di libri, una
valigia con poche cose e un tesoro di sogni nell'anima".
Le prime armi come insegnante le avevo fatte durante la guerra negli
ospedali militari di Roma dove erano state istituite scuole
per i feriti dal «Comitato Femminile Romano di Assistenza Ospitaliera». Avevo visto tanti bravi giovani scendere, la
sera, dalle corsie con le stampelle, col carrozzino triciclo
e perfino con la barella per venire alle lezioni che
ascoltavano col più vivo interesse. Avevo visto soldati,
appena alle porte dell'alfabeto, passare giornate intere
curvi su un libro, rinunziando ad ogni altro di quei
passatempi che, per la gioventù, non mancano neppure nei
luoghi di dolore; avevo visto proprio piangere, e udito
rimpiangere il tempo trascorso senza istruirsi, la scuola
disertata o mancata quando era più opportuna da tanti
commilitoni e amici, e tutto questo mi aveva detto che
l'istruzione nelle campagne doveva essere veramente un
bisogno sentito.
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Con tali precedenti il 22 ottobre 1919
entrai nella famiglia delle “Scuole dell'Agro Romano”, come il
garibaldino che correva a ingrossare le file attratto dal suo
ideale, col sentimento di chi parte missionario per chi sa quali
remote regioni.
Avevo con me una cassetta di libri, una valigia con poche cose e un
tesoro di sogni nell'anima. In treno non parlai: la fantasia e la
gioia volevano anticiparmi qualche impressione che mi sfuggiva al
momento di fermarla. Mi accompagnava il direttore della mia zona,
Pietro Starna, il quale cercava di prevenirmi che sarei andato in
un villaggio di primitive capanne: o rispondevo con qualche
monosillabo, o tacevo.
Giunti a S. Cesareo e messici per un viottolo di campagna, vedemmo subito
il villaggio di capanne omonimo che, col suo squallore, mi diede un
senso di profonda malinconia. Capanne isolate ne avevo viste e nel
vero e nell'arte cambellottiana, ma un villaggio, un paese direi,
tutto di capanne, in Italia, mi era cosa affatto nuova e
straordinaria.
Ogni poco incontravamo qualche contadino che salutava il direttore
con cordiale familiarità. Ciò mi diceva quanto fosse cara e gradita
l'assistenza morale della scuola tra quella povera gente; e mi era
motivo di coraggio e di gioia.
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Esterno della
scuola di Mezzaselva |
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Felice Socciarelli (a sinistra) insieme
a Giuseppe Lombardo
Radice |
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Avvicinatici ancor più ai Colli Albani, trovammo il
villaggio di Colle di Fuori con la sua scuoletta in muratura,
sorta per volontà dei contadini che avevano sottoscritto
dieci lire a famiglia per la costruzione; la graziosa scuola
cara al compianto Giovanni Cena, riccamente decorata
dall'arte sapiente e possente del Cambellotti, mezzo nascosta
tra i sambuchi, col suo campaniletto civettuolo mi parve il
tempio di una fede perseguitata. Anche qui le abitazioni
erano capanne, ma qua e là rosseggiava fra gli alberi qualche
tetto di casina.
Mi confortò la festosa accoglienza che i contadini fecero
al direttore e mi consolò l'onesto e sincero viso del maestro
che cercava di vincere il mio mutismo con frasi buone,
allegre, amichevoli, rivelandosi subito quel fraterno cuore
che è stato poi sempre per me. Ottimo e caro Pietro Pericoli,
ricordi tu bene quel primo nostro incontro?
“Diverrete buoni amici” disse il direttore “a pochi
minuti di cammino l'uno dall'altro, potrete vedervi spesso,
consigliarvi e aiutarvi a vicenda”.
Un sorriso, una stretta di mano che dicono più di una
promessa, e via! Volgemmo verso levante e subito là, nello
sfondo cupo della strada incassata risalente dalla valle,
apparvero le prime capanne di Carchitti a Mezzaselva: tra una
macchia di sambuchi parevano covi di animali non amici
dell'uomo.
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Una campanella sul palo
Dopo circa quindici minuti il direttore ed io entravamo nel villaggio.
Capanne tristissime, vicine l'una all'altra, collegate da fratte di
seccume; strade sporche e strette nelle quali si immetteva lo scolo di
numerosi porcili, capanne più piccole e basse da cui uscivano striduli
grugniti; non un tetto, non un pò d'aria aperta: non si vedeva dieci
passi avanti in nessun punto del villaggio.
Il direttore mi accompagnò alla scuola, che sorge in un piazzale ampio
abbastanza, proprio nel cuore del villaggio: due padiglioni (uno per
l'asilo infantile) belli, con le pareti laterali a vetri dall'altezza
di un metro in su, ricchi perciò di luce e di aria. Un rozzo steccato
attorno, la campanella in alto fra le branche di un palo terminante a
forcina; tutto mostrava, con l'adattamento all'ambiente, opera di
vigile amore e sincera fede di persone ispirate da un santo scopo.
Nell'animo mio, benché velato di una indefinibile tristezza, brillava di
luce ideale, realizzato, il sogno che mi aveva tenuto come sospeso
durante il viaggio.
Il mio superiore mi diede degli avvertimenti, mi indicò l'abitazione
(una casetta solitaria in aperta campagna a circa un chilometro dal
villaggio), poi se ne andò dicendomi:
“Badi che lei qui è il maestro, il consigliere, il segretario, il
medico, il sindaco, tutto”.
Rimasi per qualche istante a pensare; riguardai le capanne e un
profondo senso di compassione per la gente che le abitava mi invase
l'animo, mentre mi commuoveva il pensiero di essere lì per fare qualche
bene.
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Parte Prima |
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(da
"Scuola e vita a Mezzaselva", La Scuola, Editrice. V Edizione)
Foto e articolo tratti dalla rivista “Scuola Italiana Moderna”, Anno LXX, 5°
fascicolo monografico, 20 marzo 1961 |
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