Esperienze e confidenze

Parte Quinta


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di Felice Socciarelli


 

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L’arrivo del cappellano, Don Igino (Zì Prete)

 



 

Sette foglietti

Agostino P. mi scrisse:
«Il mio pennino è raspeloso ».
Con la parola «raspeloso», forse coniata da lui perché non l'ho sentita ripetere da nessuno, voleva dire che il suo pennino raspava la carta e si caricava di peli alla punta. Sottinteso che ne voleva un altro.
* * *

Francesco V.:
«Tenemo da rescì perchè i tigno lasino chiuso ala capannola» (= Dobbiamo uscire perché io tengo l'asino chiuso nella capannella).
Indubbiamente il padre gli aveva detto che andasse a pascolare il paziente servitore quadrupede e lui, impaziente, mi faceva conoscere la sua situazione.

* * *
Giovannino S.:
«Sor maé, ala capanna de Gigetto ce sei ito, perchè ala capanna mea non ce vieni mai (?) ».
Bella espressione, quasi di protesta, in una frase compiutissima e da cui appare un'intelligenza viva e uno spirito aperto.

***


Panfilio chiede di uscire un momento scrivendo la frase d'uso. “E' permesso dandà fori (?)” (= di andare fuori ?).
***

Luigi S. (il Gigetto di Giovannino, quello dei pugni, il balbuziente che io curai con esercizi di sillabazione, fino a fargli scomparire il difetto) fu breve: .
«Famme legge» (= fammi leggere).
Preoccupato che quel giorno io dimenticassi di fargli fare i soliti esercizi terapeutici al sillabario, me lo ricordava con quella delicatezza.

***
Settimio P. dopo alcuni giorni, una mattina, appena giunto a scuola scrive in fretta e mi consegna il foglio con l'aria di chi. espone cosa che preme:
« Pàremo (= mio padre) adetto se jé poi da un foietto de carta» (ha detto se puoi dargli un foglietto di carta).
C'è da pensare ch'egli avesse aspettato l'occasione per dire cosa utile.
 

 

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Felice Socciarelli

 


 
"Come hai fatto ad imparare tutte queste cose?"
  Dopo una lezione sulle piante, nella quale avevo spiegato certi fenomeni che gli alunni mi dissero di aver osservato, le mie cinque scolare si riunirono a parlare fra loro e capii che si concertava qualche cosa per me. Giulia P. prese il foglio e si mise a scrivere; le altre attorno guardavano e discutevano. Venne poi Ermelinda P. a consegnarmi lo scritto. Lessi:
«Sor maestro (,) come hai fatto a imparare tutte 'ste cose (?) ».
Sebbene scritta da una sola, la domanda era fatta collettivamente dalle cinque bambine; nella quale si vedono evitate le forme dialettali per l'accorgimento di più d'una persona.
Povere ragazzette! Quella vostra curiosità ingenua e naturale mi fece ripensare alla mia infanzia, alla mia prima scuola, quando anch'io ritenevo il maestro come l'essere perfetto che tutto sa e tutto è. Meno male che i vostri occhi vedono in me quello che vorrei essere e non quello che veramente sono!
E' notevole la scheletricità di quelle espressioni. Ci si vorrebbe vedere un pò di più; manca, come si dice, la grazia: le parole son contate; è l'abitudine. L'anima del bambino in genere e del contadino in specie sdegna i fronzoli e va al concreto di cui è costituita la sua vita.
I fanciulli e i contadini sono poeti se trovano la poesia nelle cose e non si aggiogano al carro delle muse con le sole parole; per essi il fonte d'Ippocrene sgorga dalla realtà.
 

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(da "Scuola e vita a Mezzaselva", La Scuola, Editrice. V Edizione)
Foto e articolo tratti dalla rivista “Scuola Italiana Moderna”, Anno LXX, 5° fascicolo monografico, 20 marzo 1961