Esperienze e confidenze

Parte Terza


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di Felice Socciarelli


 

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Il maestro Socciarelli con i suoi alunni

 



 

Primo giorno
  Al primo suono della campanella m'irruppe in classe una masnada di gente da farmi cacciare le mani nei capelli. Maestro nuovo, prevedevo che sarebbero stati in soggezione, quei contadinelli, almeno per le prime volte, anche troppo. Ma sì! Andate a fissar leggi sulla natura umana, andate a prestabilire forme di educazione, a prevedere tendenze e caratteri, e starete freschi! Quasi nessuno si era levato il cappello, pochi s'erano seduti al banco; degli altri, una parte c'era saltata sopra coi piedi, un'altra si assiepava fra le file, divertendosi ad un poco grazioso scambio di scapaccioni; altri s'erano buttati verso le carte geografiche non mancando di stamparvi su l'impronta delle sudice mani. Insieme a tutto questo, un chiasso assordante.
Dissi che prendessero posto e che facessero un po' di silenzio, dapprima con buone maniere, poi con intimazioni recise, ma il silenzio non durava più delle mie parole.
Dovetti cacciarli fuori tutti e farli entrare uno alla volta ad iscriversi.
«Come ti chiami?».
«Giuseppe ».
«E il cognome? ».
«Giuseppe D. ».
«Dove sei nato? ».
«I' nò lo saccio ».
«Quanti anni hai? ».
«Nò lo saccio ».
«Và a chiamare tua madre ».
 

La madre viene.
«Quanti anni ha Giuseppe? ».
«Otto».
«In che giorno e in che mese è nato? ».
«Lo mese, sor maestro, non te lo saccio dice: 'sto riazzo nasceste (= nacque) quanno se coceste (= bruciò) la capanna de compare Pasquale ».
Si presenta un bel ragazzetto dagli occhi vivaci.
«Come ti chiami? ».
«P. Antonio ».
« Dove sei nato? ».
«A Roma».
«Tuo padre, come si chiama? ».
«I’ sogno (= sono) bastardo ».
Una donna viene ad iscrivere una bambina e, quando arrivo a domandarle la data di nascita, mi risponde col tono più naturale del mondo:
«Ne sò fatti tanti, sor maè, che quanno sò nati proprio non me ne posso ricordà ».
Altra donna si presenta con una bambina. dagli occhi dolcissimi è dai lineamenti fini.
«Come si chiama questa ragazzina? ».
«Anna S. ».
«E il padre? ».
«Non ce l'ha; è una mulazzetta ».
«Come l'avete avuta? ».
«Sò ita a pigliarmela a gliu befotrofio a Roma, sor maè; io e gliu marito meo eravamo restati soli: sò fatto sette figli, sette garofali, e me sò tutti morti ».
Si fa avanti un uomo con un suo ragazzetto a una mano e un bastoncello nell'altra.
«Come si chiama questo figliuolo?».
«M. Augusto».
Dopo avermi dato tutte le generalità necessarie aggiunge: «Sor maestro, èccote questo bastone; quanno mì figlio nun fa quello che tu je dici, fajece le spalle rosse. Iesso nun deve venì ignorante come me: quann'ero al fronte m'arriveste ( = mi arrivò) da casa una lettera ch'aspettavo tanto, ma siccome erano momenti brutti, me la toccheste a tenè (= mi toccò tenerla) chiusa in tasca cinque giorni perché cuigli (= nessuno) me la poteva lègge. Si iesso non s'impara, l'ammazzo ».
 

 

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Foto ricordo del maestro Socciarelli
con i suoi alunni

 

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Felice Socciarelli (il primo a destra) con Bargellini e i direttori Tozzi e Stella

La scoperta
  Una mattina il caso mi rivelò chiara la triste conseguenza del mio vecchio metodo, del mio affannarmi intorno alle parole prese a sé come in un vocabolario: i miei alunni non si erano accorti che fra due o più parole può essere nesso logico, espressione di un pensiero, enunci azione di un fatto. S'intende che parlo di una prima classe dove i bambini non erano ancora arrivati a saper scrivere tutte le parole.
Fatto l'appello ebbi l'ispirazione di scrivere alla lavagna:

Annunziata non è venuta.

La scolaresca seguì con gli occhi il moto della mia mano che scriveva, poi ciascun alunno lesse sottovoce più di una volta quella semplice proposizione negativa. Qualcuno guardò il posto di Annunziata: era vuoto, all'appello non aveva risposto, non era venuta davvero; tornò a leggere poi gridò: « Non è venuta davvero!».
Allora tutti lessero forte e altri ripeterono il grido: «Non è venuta davvero!». La meraviglia, la sorpresa, la gioia,la rivelazione di un gran segreto brillavano negli occhi, nella voce, nei moti di tutti. La scrittura aveva parlato, aveva detto una cosa vera, aveva riprodotto una realtà vissuta e vivente.
 

  Fu una festa dell'anima; pareva che quei bambini volessero accarezzarmi con gli occhi, pareva che la scuola avesse aperto loro chi sa che imprevisto; chi sa che meraviglia. Era una giornata piovosa, fredda, ma gli occhi di quei fanciulli brillavano di letizia; la scuola era piena di vita pur con quelle povere mani aggranchite, con quei visi paonazzi.
Solo il piccolo Mauro, il più buono, il più volonteroso era vinto dal rigore del tempo e poca parte prendeva alla festa comune. Si angosciava, mi guardava con mestizia penosa perché come si muoveva stampava macchie e sgorbi sulla pagina.
Lo presi amorevolmente per una mano, lo accompagnai alla porta e gli dissi che per quel giorno si riposasse e andasse a riscaldarsi alla capanna. Uscì. Dalle finestre vetrate lo vidi, fermo, là fuori a trenta passi, sotto una pioggerella fitta, che si asciugava gli occhi senza voltarsi. Piangeva. Lo vidi poi scappar via di corsa, improvvisamente.
Nella scuola intanto s'era fatto il silenzio triste delle giornate gelide e per rianimare e riscaldare la scolaresca feci fare un po' di ginnastica.
Dopo circa mezz'ora rientrò Mauro con un bel mazzo di violette che era andato a cogliere fra le siepi attorno al villaggio, e con un sorriso trepido, parlando più con gli occhi che con la voce, mi disse:
«Sor maé, tiè, te so' portade le viole, me perdoni?» (cioè: mi fai stare a scuola anche oggi?).
Guardai il suo viso bagnato di pioggia e di moccio e non potei fare a meno di baciarlo. Egli, commosso, pianse un pò e tornò al suo posto.
  La scolaresca si meravigliò del mio atto e capii che avrei fatto meglio ad astenermene (si sa che i contadini non vogliono carezze). La ginnastica prima, poi il ritorno di Mauro, le impressioni varie avevano ridestato la vita e il freddo pareva diminuire. Tornai a scrivere alla lavagna:
Mauro aveva freddo
Gli alunni lessero ciascuno per sé, poi a coro e rinnovarono le grida e la festa di prima. Augusto, il più grande, suggerì involontariamente, anche dimostrando di aver capito bene la frase e specialmente come conclusione sua:
e non poteva più scrivere.
Aiutai la lettura di questa seconda proposizione perché non avrebbero superato la complessa «scri» poi furono lette di seguito le due frasi.
 


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(da "Scuola e vita a Mezzaselva", La Scuola, Editrice. V Edizione)
Foto e articolo tratti dalla rivista “Scuola Italiana Moderna”, Anno LXX, 5° fascicolo monografico, 20 marzo 1961